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Quattro metamorfosi
Quattro metamorfosi
Quattro metamorfosi
E-book180 pagine2 ore

Quattro metamorfosi

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Info su questo ebook

Sincero e toccante racconto autobiografico sulla prigionia nei campi d’internamento sovietici, Quattro metamorfosi parla direttamente attraverso le emozioni, i grandi paesaggi siberiani, le scelte estreme dei personaggi.
La testimonianza di Dmitrij Bystrolëtov, detenuto dal 1938 al 1954, è un concentrato dicotomico di istinti e pensieri lucidi, ferventi convinzioni e imprevedibili perplessità, tra tumultuosi moti interiori e l’impotenza dettata dalla condizione forzata.
Attraversando diverse fasi di coscienza (e incoscienza) che sono per l’appunto le metamorfosi, sembra trovare la sua via di salvezza. Che sia quella definitiva non è dato saperlo, se non continuando a leggere la sua trilogia.
Un’opera importante, grazie alla quale è possibile avvicinarsi alle storie di uomini e donne che hanno passato molti anni della loro vita internati nei campi di lavoro e per poter riflettere sulla capacità di adattamento in condizioni disumane.
io rifiuto la libertà acquistata oltrepassando la linea del fuoco tra i due mondi; la mia libertà è soltanto qui, in terra sovietica, anche se per me è temporaneamente circondata dal filo spinato.”
LinguaItaliano
Data di uscita3 nov 2022
ISBN9788855392587
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    Anteprima del libro

    Quattro metamorfosi - Dmitri A. Bystrolëtov-Tolstoj

    La Nemesi - II - Quattro Metamorfosi

    EEE - Edizioni Tripla E

    Traduzione dal russo di Alberto Zisa

    Dmitrij A. Bystrolëtov-Tolstoj, Quattro metamorfosi

    © EEE - Edizioni Tripla E, 2022

    ISBN: 9788855392587

    Collana Grande e piccola storia n.29

    EEE - Edizioni Tripla E

    di Piera Rossotti

    www.edizionitriplae.it

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.

    Traduzione di Alberto Zisa.

    Capitolo 1 - Sera. Prima metamorfosi.

    Sarà stato un po’ per pigrizia ma fino allora non mi ero mai interessato di sapere il suo nome vero e a lungo era restata per me senza nome. Sapevo solo che quella ragazzina era di una qualche nazionalità del nord e rispondeva a due nomignoli: Saša e Maša¹. Bastava pronunciare uno dei due o tutt’e due i nomi insieme perché la ragazzina voltasse il viso, un viso giallognolo-dorato e sorridendo arrossiva come un mattone, mostrando i piccoli denti aguzzi. Ma la cosa più notevole sul suo viso era il naso… e questo proprio perché non esisteva: le guance piatte, come due frittelle, si dividevano in mezzo per lasciare il posto a un paio di delicati buchetti. E ciò malgrado era molto avvenente, i suoi movimenti non mancavano di una loro grazia particolare, brillava di quella freschezza attraente data dalla giovinezza, dalla sua ingenuità e dal freddo per dieci mesi l’anno. Mezzo ragazzo, mezzo donna, e forse ancora un po’ bestiolina flessibile e sempre in guardia, questo essere smarrito scontava una pena al di là di qualsiasi possibilità di sopravvivenza e lavorava nel gulag come infermiera del nostro ospedale, addossato al pendio della montagna ghiacciata.

    Incontravo spesso Saša nella guardiola, ma, devo dire, sulle prime non l’avevo nemmeno notata. Un giorno un dottore, un georgiano grosso e sorridente, mi disse:

    «Lei ha conquistato il cuore della nostra piccola selvaggia! Le rivolga la sua benevola attenzione e, ci scommetto, sarà premiato…»

    Ci ridemmo su, fumando; Maša stava in piedi vicino alla porta, mi guardava e tra le strette fessure dei suoi occhi lampeggiavano vivide fiammelle.

    La Gran Notte era già cominciata. La bufera spezzava spesso i cavi e spesso lavoravamo alla luce fioca delle lampade a petrolio. Ricordo che mi capitò di passare per uno stretto corridoio a malapena rischiarato. All’improvviso qualcuno mi toccò leggermente da dietro. Mi volto: Maša. Con un sorriso quieto mi guardava dal basso in alto, poi timidamente sporse la piccola mano e non so se fu un toccare o un accarezzare, un’altra volta.

    Bono… fu forse la prima parola detta a me da Maša. Lei sapeva imprecare per bene in russo, ma, a parte le parolacce, la sua riserva di parole russe non era molto ampia.

    Non sapendo che cosa rispondere, appoggiai un dito sul posticino tra le guance e suonai:

    «Drrriiinnn…»

    Dato che il suo naso mi ricordava il pulsante di un campanello, forse perché tutti noi allora sentivamo nostalgia per gli oggetti di uso domestico abituali tra persone evolute.

    Il nostro nordico romanzo si sarebbe potuto svolgere pian piano, dato che non v’era nessun motivo di correre; come me, anche Saša aveva davanti vent’anni di prigione e cinque anni di esilio in località remote del Paese, e solo la morte poteva liberarcene prima. Ma inaspettatamente due avvenimenti accelerarono la conclusione.

    Due settimane dopo, scendendo giù dalla montagna, notai nella penombra violacea una figura che si muoveva lungo il muro posteriore dell’ospedale.

    Un ladro!

    E mi misi cauto ad avvicinarmici di soppiatto. Raggiunsi l’angolo, sollevai un pesante bastone ed ero già pronto a gettarmi avanti gridando, quando improvvisamente sentii masticare, uno scricchiolar d’ossa e un ansare soddisfatto.

    Eh eh, allora è un orso! S’è introdotto nel campo sopra la neve, seguendo il profumo della cucina, sopra la recinzione di filo spinato! E sotto il naso della guardia intirizzita!

    Misurata con lo sguardo la distanza dall’angolo opposto, dietro il quale si trovava una porta sempre aperta, mi mossi cautamente preparandomi all’azione. Guardo bene e vedo: Maša sta seduta sulla neve, le gambe ben divaricate. Con entrambe le mani, per la testa e la coda, tiene un grosso pesce crudo, senza dubbio rubato nella cucina dell’ospedale, e con entusiasmo lo addenta fino alla lisca. Una logora pelliccia le copriva il camice, la testa nuda era cosparsa di neve; la fanciulla del nord si stava godendo quel minuto di soddisfazione rubato, che le ricordava la libertà perduta per sempre.

    Stavo là fermo a guardarla, la capivo e compativo. Privata della sua personalità da una cultura impostale dall’esterno, ieri mi appariva pietosa ed estranea. Ma ora, qua, sulla neve violacea, con il pesce crudo in mano, lei si era risollevata al suo stato naturale, e io sentivo acutamente in lei la persona.

    E, stranamente, mi fu improvvisamente vicina…

    Avvertendo la mia presenza, alzò la testa, lasciò cadere il pesce sulle ginocchia e restò immobile, spaurita. Le feci con la mano un gesto di incoraggiamento:

    «Tutto bene!»

    E fui premiato da una risata affabile d’intesa.

    Mi dimenticai per un momento dell’ospedale e mi misi a camminare in giù, inciampando sulla roccia e crollando nella neve, giacché i miei occhi già non riuscivano a vedere la via dolorosa per la quale mi sarebbe toccato peregrinare: il quadro lugubre del nord era nascosto dalle visioni della mia vita precedente: sole abbagliante, mare azzurro e gente lontana, che mai più avrei visto.

    Il giorno seguente portai all’ospedale alcuni individui colpiti da congelamento. Nell’ingresso buio mi aspettava vicino all’entrata Maša.

    «Pe tu» mi sussurrò, porgendomi timidamente un barattolo bianco per medicine, riempito di marmellata: allo spaccio c’era un barile di confettura di mandarini e i detenuti se la compravano un po’ alla volta; a prenderne di più nemmeno pensarci: non si sarebbe saputo dove metterla.

    Così l’affare era risolto.

    In silenzio ci guardammo l’un l’altra, sorridendo contenti. Quindi le dissi:

    «Tu mi ami? Anch’io…»

    Mi interruppe:

    «No capile…»

    La presi per le spalle e le passai una mano sui capelli. Evidentemente qua bisognava dare un taglio energico alla parte parlata del romanzo.

    «Senti Maša, vieni da me stanotte!»

    «’tanotte?»

    Mi ricordai che la notte era già cominciata e sarebbe durata due mesi, e l’oscurità e il freddo otto.

    «Domani mattina chiedi il cambio ed esci là, dove mangiavi il pesce. Hai capito?» Per farmi capire meglio feci l’atto di masticare rumorosamente e ansimare.

    La piccola bimba del nord annuì col capo e si mise improvvisamente a parlare rapidamente nella sua lingua; devo presumere che dicesse qualcosa di mirabilmente dolce e affettuoso, ma suonava un po’ come una grattugia:

    «Gribrigribridrììì…!»

    Tornai nella mia stanza soddisfatto e mi coricai presto: a fumare e fantasticare. La baracca in cui abitava il personale era stata raffazzonata alla buona con legno compensato. Una capanna, che i locali chiamano balok²; casupole così le trasportano qua su slitte, con il trattore. La mia branda si trovava vicino alla parete e a un tre passi distante dalla stufa surriscaldata. Dormivo senza togliermi la giubba imbottita e mi mettevo in più di sopra anche il pellicciotto e la coperta e perciò non mi dava fastidio la porta, che si trovava accanto alla stufa: le nuvole di nevischio che irrompevano nel locale attraverso di quella, non raggiungevano la mia cuccetta e non mi svegliavo su cumuli di neve, come i miei compagni.

    Ah, beate quelle ore di nordico comfort! Mi sorseggio un bel gotto di acqua calda, mi fascio la testa con una benda di garza, affinché i capelli non mi si congelino sul capezzale, mi distendo a letto. Accendo una sigaretta, chiudo gli occhi e mi immergo in un mondo di fantasie tormentose… perché di tutte le sofferenze preparate all’uomo su questa terra, finora a me non è stata concessa la più dolce delle amarezze, l’oblio…

    Era stato un periodo eccezionale: un arresto causato da un niente, un processo a cui fui sottoposto senza la gioiosa speranza di potermi giustificare e di dimostrare l’errore, dal momento in cui avevo già capito che non c’erano stati errori, che nemmeno c’era un’imputazione, né un’inchiesta, né un giudizio; era solo la formalizzazione legale di uno schema inevitabile, per mascherare leggermente la mia liquidazione, da chissà chi prestabilita.

    Ne era risultata una catastrofe repentina. Sulle prime la cosa principale pareva proprio questo, il proprio, il personale, il quotidiano, ma poi la consapevolezza fu data da ben altro: il tracollo della concezione del mondo, perché per l’uomo sovietico l’esistenza non sta solo nella quotidianità, ma lo splendore della vita risiede nell’idea: entusiasmo, lotta, tensione delle intime passioni, che aiutano a non badare alle pene per le privazioni quotidiane attraversandole a passo di marcia – dal momento che in quegli anni difficili altra scelta non ci veniva data, altrimenti sarebbero restati solo piagnistei e uno spregevole vegetare, la tristezza di un comodo stato fisico, una stanchezza sempre crescente e, esito inevitabile, la stizza dei pusillanimi. Insieme con milioni d’altri continuavo a vivere con gioia e con orgoglio e ciò significa che lottavo, costruivo e mi realizzavo nei progressi della comunità. Erano volati via gli eroici anni trenta e io mi sentivo degno figlio del mio tempo. E all’improvviso ero stato tolto di mezzo, maltrattato, bandito, gettato nella pattumiera. Il ventotto novembre del 1938 non ero stato semplicemente destinato a una morte lenta, ero stato oltraggiato e moralmente umiliato, cosa ancor peggiore di ogni morte fisica.

    Perché? A che scopo? A chi serviva tutto ciò?

    Non ci capivo niente. E molti, molti altri che mi stavano intorno non ci capivano niente neanche loro, come Vladìmir Aleksàndrovič, con il quale ero stato deportato, come tutti gli altri. Saremmo potuti diventare amici, ci saremmo potuti aiutare vicendevolmente, ma l’intimo turbamento ci teneva separati.

    Non ci porgevamo l’un l’altro la mano tremante, ognuno di noi per conto suo pensava alle medesime cose. Sì, era successa una catastrofe; tutto là. Una calamità naturale che si era abbattuta all’improvviso su di noi. Ogni momento, con insistenza, mi toccava pensare a quanto era avvenuto e precipitarmi febbrilmente a cercarvi una spiegazione plausibile. Ma tutti noi allora ci trovavamo in uno stato di profonda emozione: un’indulgente e salutare incapacità di pensare occupava le nostre povere teste. Si tratta di una reazione di difesa adeguata pensavo, da medico, osservando quanti mi circondavano e me stesso. Come se una nebbia salvifica avesse avvolto la coscienza e mitigato i contorni di quella crudele sciagura: aveva affievolito il dolore. Del nostro mondo interiore ci è stato sottratto il perno, l’acutezza del pensiero e adesso non capiamo più niente. Siamo in uno stato di shock. È un bene: una nostra difesa passiva. Ma che cosa sarà dopo? Lo shock non dura a lungo: l’individuo o muore, o ritorna in sé.

    Terribile, questo vivere storditi! Avvertivo in modo sorprendentemente chiaro di vivere in un sogno e se avessi fatto l’errore fatale di sforzarmi di pensare, sarebbe accaduta l’ultima irrimediabile sciagura: svegliarmi, afferrare l’incommensurabilità di ciò che ho perduto, ritornare sulla terra, dibattermi tra singhiozzi convulsi e impazzire. Altre vie d’uscita non ce n’erano.

    E, facendo il furbo con me stesso, mi sforzavo di non svegliarmi.

    Provavo a tenermi occupato. A ingannarmi con i ricordi. Però dato

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