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UNA BOMBER. Storie di donne che (s)calciano
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E-book51 pagine41 minuti

UNA BOMBER. Storie di donne che (s)calciano

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Info su questo ebook

Cosa succede quando il calcio, da sempre considerato uno sport “maschio”, si tinge di rosa? Julia gioca in una squadra di calcio femminile e il suo ruolo è quello di panchinara. Con il sole, con la grandine, con la squadra decimata dagli infortuni. L’unico espediente per sopravvivere alle trasferte (e alla vita dentro lo spogliatoio), oltre contare le caterve di gol incassati, è quello di scrivere la cronaca degli avvenimenti a modo suo.

Uno sguardo sarcastico sul mondo del calcio in generale e su quello femminile in particolare: un macrocosmo poco conosciuto attorno al quale ruotano leggende e pregiudizi, ma anche qualcosa di vero. Solo i panchinari, però, possono avvalersi del privilegio di saper scindere la realtà dalla fantasia.

Silvia Sanna (1981), sassarese, maestra disoccupata, editrice di Voltalacarta Editrici, dirigente della Torres Femminile. Autrice di “Fabrizio De André: storie, memorie ed echi letterari” (Effepi Libri, 2009), “100 giorni sull’isola dei cassintegrati” (Il Maestrale, 2010).

Per Caracò è tra gli autori di “Piciocus“. Il suo sogno è quello di essere la prima donna a far parte della Nazionale Italiana Scrittori.
LinguaItaliano
Data di uscita19 ott 2012
ISBN9788897567226
UNA BOMBER. Storie di donne che (s)calciano

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    UNA BOMBER. Storie di donne che (s)calciano - Silvia Sanna

    BOMBER

    UNA BOMBER

    di Silvia Sanna

    Caracò Editore

    Collana Singoli

    ISBN 978-88-97567-11-0

    I edizione settembre 2012

    © Tutti i diritti sono riservati

    www.caraco.it

    Alle ragazze della Torres Femminile,

    che mi hanno fatto riappacificare con il calcio,

    quello vero, quello pulito, quello umano.

    Ad Alex Del Piero,

    che è il calcio vero, pulito, umano.

    Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre

    e perdono le guerre come se fossero partite di calcio.

    Winston Churchill

    Aggredila Silvia, aggredila!

    da una partita

    Molti riferimenti a fatti e persone sono assolutamente casuali e frutto della mia fantasia. Altri invece no. Nicoletta, per esempio, esiste.

    Ne ho di cose da dire. Eccome se ne ho. Ne ho a caterve. Ma non le dico, come sempre.

    Potrei sintetizzare il concetto in una sola frase, per esempio: Questa squadra fa schifo.

    Ma anche oggi non mi esprimo. Me ne sto lì, a ciondolare avanti e indietro sulla poltroncina sgangherata dello spogliatoio dell’arbitro, che è quello delle grandi riunioni del dopo partita, quando scatta l’unità di crisi perché le avversarie ci hanno tempestato di gol. Ogni domenica, quindi.

    Anche oggi, in questo freddo spogliatoio, sento rimbombare le voci delle altre. Voci che provengono dal basso. De profundis. Mica dal profondo dell’anima, qua si fa filosofia spicciola.

    Si lamenta sempre di tutto, questa marmaglia qua. Si lamenta delle scarpette: perché le altre squadre hanno quelle di Kakà e invece noi abbiamo quelle scalcagnate senza marca e sembriamo un team del Terzo Mondo. Dicono proprio così: «Sembriamo un team del Terzo Mondo». Che se nel Terzo Mondo avessero le nostre scarpette scalcagnate senza marca, probabilmente le cuocerebbero a bagnomaria per cena. Le mie compagne le hanno volute nere, le scarpette, con la strisciolina rossa ai bordi che fa molto Milan. E in questo gelido e cupo spogliatoio, il Milan va di brutto. Quindi, secondo recenti sondaggi da spogliatoio, è colpa delle scarpette se fagocitiamo dai dieci ai dodici gol a partita. Perché sono scomode e poco professionali. E non sono della linea Kakà, che già il nome è un programma.

    L’estate scorsa abbiamo partecipato al torneo di calciotto di Riccione, sulla spiaggia: a piedi scalzi abbiamo preso dodici gol. A partita. Mi viene il dubbio che non sia colpa delle scarpette.

    Anche la divisa non va bene, perché è triste. Dicono proprio così le mie compagne, intabarrate in un’uniforme marroncina che, a essere sincera, fa un po’ schifo. «La divisa è triste.» Ora, capisco che possa essere ripugnante, con quel colore che ricorda una vomitata da sabato sera ad alto tasso alcolico, può essere brutta perché è in finto pile e sembra un pigiamone, può essere anche fastidiosa, perché è una XXL e alcune di noi sono rinsecchite come cavallette. Ma che una divisa possa essere triste, non lo concepisco proprio. Perché dovrebbe esserlo? Perché le hanno detto che è brutta? È permalosa, una maglietta? È suscettibile, un pantaloncino? Può deprimersi, una tenuta da calcetto? Non credo. Però è colpa della divisa scomoda, se prendiamo una secchiata di gol a partita: perché bisogna sentirsi a proprio agio quando si scende in campo, e con una vomitata addosso non ci si sente a proprio agio.

    Si lamentano anche della sacca sportiva che è troppo piccola e non ci stanno il phon, la piastra, l’arricciacapelli, la trousse, la crema all’ortica per gambe-braccia-viso-inguine, l’idropulsore, il depilatore, il pacco da trenta di assorbenti con apertura alare di dieci

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