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Vorrei solo te per Natale
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E-book138 pagine1 ora

Vorrei solo te per Natale

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Info su questo ebook

Shot series

MacKenzie Decker è la risposta a una domanda che Avery non ha mai dovuto porsi.

Si sono incontrati quando lei era una giovane reporter ambiziosa, e non si era ancora asciugato l’inchiostro sul primo contratto di Deck con l’NBA. Anni dopo, sono diventati due persone molto diverse, con le loro cicatrici e i loro successi, ma una cosa non è cambiata. L’attrazione che sfrigola tra di loro in uno spogliatoio è ancora lì. Con le loro carriere stellari la vita di Avery e Deck è stata facile, tranne per quando riguarda la possibilità che non hanno mai avuto.
O almeno, così è stato fino ad ora. E se adesso ci fosse speranza?
Kennedy Ryan
è un'autrice bestseller di «USA Today» e vincitrice del prestigioso premio RITA. Ha fatto innamorare le lettrici di tutto il mondo grazie alle sue eroine forti e coraggiose che, anche nei momenti di difficoltà, superano gli ostacoli con determinazione.  È la fondatrice di un'associazione che si occupa di assistere le persone affette da autismo. Della Shot Series la Newton Compton ha pubblicato: Vorrei solo averti qui, Vorrei solo poterti odiare, Vorrei solo fidarmi di te.
LinguaItaliano
Data di uscita11 nov 2020
ISBN9788822751140
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    Anteprima del libro

    Vorrei solo te per Natale - Kennedy Ryan

    1

    Decker

    La prima volta che incontro Avery Hughes sono quasi tutto nudo, il corpo rigato da gocce d’acqua.

    È la mia seconda stagione nell’NBA, e sono abituato a farmi intervistare davanti al mio armadietto con indosso solo un asciugamano, attorniato da giornalisti incontentabili che mi ficcano sotto il naso microfoni e registratori. Ma questa giornalista, questa sera, sin dal primo sguardo, mi prende alla sprovvista.

    Abbiamo giocato di merda.

    Mi correggo. Per quarantacinque minuti di tempo regolamentare, abbiamo giocato una partita superlativa. Gli ultimi tre minuti… quelli sono stati uno schifo assoluto, e dato che sono io l’idiota che ha mancato più volte la palla vicino al canestro, la colpa di quel disastro ricade esclusivamente su di me.

    Dopo la partita e la doccia, mi appoggio all’armadietto, gli occhi fissi sul pavimento, nel tentativo di schivare la raffica di domande che mi investe. Non dovevo mettermi a disposizione della stampa; avrei preferito di gran lunga venir ammonito dal club. Mi sarebbe costato di meno. Questo supplizio intacca il mio orgoglio e quel poco di pazienza che mi è rimasto.

    Si solleva una voce roca dalla mischia che mi circonda: «Cosa puoi dirci del cedimento che hai avuto nel quarto periodo, Deck? Quegli ultimi minuti di partita sono stati alquanto brutali».

    Aggrotto le sopracciglia al tono maleducato e insolente di questa giornalista. Certo, ho affrontato domande più difficili, ma dopo una partita del genere, conclusasi con una vittoria che ci è scivolata tra le dita per colpa mia, sono troppo scosso e non sono dell’umore adatto.

    «Che razza di domanda…».

    Quella mezza frase mi muore sulle labbra quando incrocio gli occhi dietro il registratore spinto verso di me. Sono la cosa più dolce del suo viso. La giornalista ha il mento affilato e gli zigomi che si allargano come quelli di un gatto, e poi si ammorbidiscono in una forte femminilità felina. Mi guarda dall’alto in basso con un pizzico di disprezzo e superbia, il naso a punta in risalto. Le sue labbra sono tirate in una linea sottile e determinata, ma ciò non le rende meno sensuali, meno baciabili. Eppure… gli occhi sono la parte più dolce di quel viso, le iridi nerissime, circondate da un ventaglio di ciglia lunghe e setose. Mentre aspetta una mia dichiarazione, il suo sguardo incrocia il mio. Non si abbassa mai per sfiorare i muscoli evidenti delle mie spalle e del mio petto. Non si posa sulla mia vita o sull’asciugamano annodato alla bell’e meglio che mi pende intorno ai fianchi. E senz’altro non scivola sulle mie gambe ancora gocciolanti d’acqua. Eh, no, mi guarda dritto negli occhi.

    «Be’, ehm…». Cerco il suo nome sulla cordicella laminata del pass stampa che poggia tra due seni vivaci. «Avery, alla fine abbiamo fatto qualche errore».

    Lei inclina la testa e inarca le sopracciglia come per dire ma va? prima di avvicinare ancora di più il microfono. Il suo profumo, qualcosa di ardito e selvaggio, come i riccioli scuri e crespi che le incorniciano il viso, ha una punta forte che si diffonde in tutto lo spogliatoio pregno di testosterone.

    «Nel complesso, una bella partita. C’è stato qualche brutto minuto», concludo, storcendo la bocca in un sorriso che riesco a fare ora che l’ho vista. «Capita anche ai migliori».

    Scrollo le spalle, guardando i suoi occhi posarsi sui miei muscoli che si contraggono, prima di guizzare di nuovo sul mio viso.

    Aaah, alla fine hai guardato, dolcezza.

    Gli occhi scuri si assottigliano e quelle labbra baciabili si dischiudono come se avesse già in carica la prossima domanda, ma poi un altro reporter si intromette. Do qualche altra risposta, impaziente di vestirmi e parlare con Avery senza l’occhio vigile di ogni rete principale. Quando il nostro addetto stampa interrompe l’intervista post-partita, i giornalisti iniziano a uscire dagli spogliatoi in fila indiana. Rifletto se lasciar perdere o meno. Se lasciarla andare. Del resto, ho visto ragazze più carine, no? Posso scoparmi chi voglio quando voglio. Anzi, è praticamente un mio dovere civico a nome di tutti i miei compagni uomini che non avranno mai l’accesso completo alle doti femminili che far parte dell’NBA mi garantisce. A dirla tutta, ci sono passato già più volte. Stupende, predatrici e melense: è praticamente la descrizione di tutte le donne che bazzicano nel tunnel dell’arena dopo una partita. Questa ragazza… mi sono bastati uno sguardo e una domanda per capire di non poter avere la meglio su di lei. Non ho mai saputo resistere a una sfida, e quando Avery si volta per andarsene, regalandomi una visione ininterrotta di un didietro sodo e rotondo, marcato da pantaloni aderenti, so che non resisterò neanche a lei.

    «Avery», la chiamo. Le afferro delicatamente il gomito e nel contempo agguanto al volo l’asciugamano che mi scivola. «Aspetta un secondo».

    Mi fissa la mano, così grande in contrasto con il suo braccio magro, prima di guardarmi in faccia. Un atleta mezzo nudo e bagnato, più alto di lei, che l’afferra probabilmente non fa una buona prima impressione.

    «Scusa per poco fa». Lascio la presa e faccio un cenno verso il mio armadietto. «Posso parlarti un minuto?».

    Il suo viso assume un’espressione di curiosità riluttante. Avery fa qualche passo verso il mio angolo caotico dello spogliatoio.

    «Volevo chiederti…», mi interrompo non appena mi mette con forza il suo registratore sotto il naso. Lo spingo via con un dito. «Ehm… in via ufficiosa».

    Abbassa il registratore lungo il fianco, sopprimendo quello che ho il forte sospetto sia un sorrisetto compiaciuto.

    «Vuoi dirmi il vero motivo del tuo crollo di stasera?». Le sopracciglia scure si inarcano di scatto sopra i suoi occhi curiosi, e appoggia la spalla rivestita di seta allo sportello dell’armadietto.

    «No, cioè… potrei, sì. Magari davanti a un drink o a una cena. Il nostro volo non parte fino al mattino».

    Inorridita, capisce dove voglio andare a parare.

    «Non mi starai mica chiedendo di uscire?». Le sue parole incredule risuonano nella stanza e io mi guardo intorno un po’ in imbarazzo. Provarci con una giornalista, non sono cose che si fanno. In mia difesa, la maggior parte delle giornaliste non ha un didietro come quello di Avery.

    «Sì, per un drink o una cosa così», sussurro, assumendo il tono di voce appropriato e pudico per questo tipo di conversazione, nella speranza che capisca l’antifona. Sembra una ragazza sveglia, dopotutto.

    «O una cosa così?». Sul suo viso si materializza un’espressione corrucciata in piena regola. «Non faccio "o una cosa così" con i giocatori di basket. Non faccio nulla con gli atleti di cui mi devo occupare».

    «Ti devi occupare di me?». Anch’io mi appoggio allo sportello dell’armadietto, incrociando le braccia sul petto. «Non ti ho mai vista prima».

    «Be’, d’ora in poi mi vedrai perché mi hanno affidato l’incarico». Abbassa lo sguardo sul mio petto e in risposta fletto i pettorali. Lei fa una smorfia esasperata. «E non comprometterò la mia obiettività professionale con il o una cosa così che hai in mente».

    «Un drink», insisto, spostandomi contro lo sportello.

    «La mia risposta rimane comunque…». Il suo sussulto soffoca il resto della frase quando l’asciugamano annodato in maniera precaria mi scivola lungo i fianchi e cade ai miei piedi. La comparsa del mio membro, leggermente eretto e in bella vista, risucchia l’aria dalla stanza per un istante nel quale regna la quiete assoluta, prima di una tempesta di risate e versacci bonari.

    «Oh, merda». Ignorando le risatine dei miei compagni di squadra, mi sbrigo a raccogliere l’asciugamano dal pavimento e me lo rimetto in fretta e furia intorno alla vita per coprire le parti intime. Condivido docce e spogliatoi da quando le dimensioni del mio pene erano la metà di così, quindi non mi scompongo. Avery, però, sembra che abbia ingoiato il suo piccolo registratore e le stia per risalire insieme alla cena. Oltre ai fischi da stadio, un giornalista aggiunge alla baraonda un’allusione fuori luogo.

    «Prima serata di lavoro e già hai la tua esclusiva, Hughes?», le chiede, malizioso. «Dici che verrà fuori un bel pezzo? Deck darebbe lo scoop anche a me, se avessi un culo come il tuo».

    Che imbecille. Ho sentito commenti così per tutta la vita. Cavolo, forse anch’io li ho pensati. Questo sport, questa industria, è dominato da uomini, e siamo in pratica quasi tutti dei bambinoni strapagati, per quel poco che rimaniamo nel giro. Alcuni di noi più a lungo di altri. Sentire quelle cazzate con lei presente, però, vedere la scintilla di dolore e di rabbia nei suoi occhi, mi fa venir voglia di fracassare il muso a quello stronzo. Le risate di pochi altri per quel commento volgare schiacciano ogni mia speranza di convincerla. Fisso torvo l’idiota già a un passo fuori dalla porta.

    «Grazie mille, stronzo», mormora lei, sistemandosi in modo convulso la borsa sulla spalla.

    «Già», concordo, scuotendo la testa. «È proprio un coglione».

    «Mi riferivo a te», replica lei, l’esasperazione palese nel suo tono. «Sei tu lo stronzo».

    «Io?». Spingo il pollice sul petto nudo. «E che ho fatto?»

    «Ti dispiacerebbe…», balbetta, facendo un cenno timido verso il mio inguine, «… tenerti stretto il tuo piccolo asciugamano? Quelli sono i miei colleghi. Hai idea di quanto sia dura per una donna sopravvivere in questo campo? Guadagnarsi il loro rispetto come pari?».

    Apro la bocca per scusarmi, ma non me ne dà la possibilità.

    «La risposta è no», mi parla sopra con furia. «Non ne hai idea perché sei stato servito e riverito da quando hai fatto la tua prima tripla doppia alle superiori. Gli altri giornalisti non devono preoccuparsi di essere pizzicati o palpeggiati di nascosto. Non gli secca di fare interviste a uomini seminudi, e neanche a me importa, almeno finché uno di loro non mi mette all’angolo e mi chiede un drink "o una cosa così"».

    Lascio che quelle parole permangano nella quiete che si avvolge intorno a noi

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