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Ho sposato un maschilista
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E-book671 pagine7 ore

Ho sposato un maschilista

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Info su questo ebook

La commedia romantica più divertente dell'anno

Dopo essersi vista negare ingiustamente la meritata promozione, la giornalista Emma Fontana decide di fondare una rivista per donne, «Revolution». Ma proprio quando sta per essere eletta femminista dell’anno, Emma scopre che i suoi migliori amici l’hanno iscritta al reality show Chi vuol sposare un milionario? Per dieci giorni il giovane e ricchissimo Marco Bernardi ospiterà venti ragazze nella sua villa e sceglierà tra loro la sua fidanzata. All’inizio Emma è furiosa solo all’idea di dover competere per sedurre un maschilista fatto e finito, e parte per Como con l’obiettivo di approfittare della ghiotta occasione per screditare lo show. La sua missione si rivela però più ardua del previsto, a causa delle prove imbarazzanti, dell’atteggiamento sessista di Marco e delle concorrenti pronte a tutto pur di diventare la futura signora Bernardi. A complicare le cose ci si mette anche il fratello maggiore di Marco, Leonardo, tanto affascinante quanto sospettoso delle reali intenzioni di Emma. Mentre i suoi sentimenti nei confronti dei fratelli Bernardi si fanno ogni giorno più intricati, Emma si troverà a mettere in discussione certezze e pregiudizi: e se in fondo fosse lei stessa la sua avversaria più pericolosa?

L’amore non è mai stato così divertente

«L’ho letto tre volte, e ancora mi diverto. Datemi della pazza, oppure date un premio a questa Bonny.»

«Sai quando una storia si aggancia tra i neuroni e i ventricoli e tira forte? Ecco, questa è una di quelle! Che scrittura e che romantica ironia, un romanzo stupendo!»

«Era da tempo che non leggevo un libro così divertente, ironico e romantico! Mi ha strappato delle risate di gusto. Lo consiglio a tutti!»
Joanne Bonny
è nata a Milano nel 1986, con un altro nome. Lo pseudonimo nasce dalla sua passione per i pirati, protagonisti del primo romanzo che ha scritto tra un esame di università e l’altro. La saga piratesca non andò mai in porto (e neanche la sua laurea in Beni culturali), ma l’amore per la scrittura è sopravvissuto. È stata finalista al Premio Il Battello a Vapore con un libro per bambini. Ho sposato un maschilista segna il suo esordio nella narrativa per adulti. 
LinguaItaliano
Data di uscita23 nov 2018
ISBN9788822728371
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    Anteprima del libro

    Ho sposato un maschilista - Joanne Bonny

    It’s a Man’s World

    Ok, ci siamo.

    È il momento che aspetto da tre anni, ovvero da quando ho varcato la soglia di questa redazione come praticante.

    Fisso la porta chiusa del redattore capo e per ingannare l’attesa mi metto a stendere una minuscola piega sulla gonna, maledicendomi per non aver indossato piuttosto un paio di pantaloni.

    L’ultima cosa che voglio è che Carlo pensi che l’abbia fatto apposta, per ingraziarmelo e convincerlo a darmi la promozione.

    Come se avessi bisogno di simili trucchetti.

    L’unico altro candidato al ruolo di inviato è quell’idiota di Fabio, e contro la sottoscritta non ha alcuna chance di vittoria. Abbiamo incominciato a lavorare a «Record» insieme, come praticanti prima e redattori ordinari poi, ma i nostri rendimenti non avrebbero potuto essere più diversi.

    Mentre io mi facevo in quattro lavorando gratis nei weekend e uscendo dall’ufficio quasi sempre oltre il mio orario, lui non faceva altro che bazzicare nei pressi delle macchinette del caffè, flirtando con le colleghe e con le donne delle pulizie. In tre anni non ha combinato una virgola in più di quanto non fosse strettamente necessario, limitandosi al minimo indispensabile (e spesso senza fare neanche quello).

    A dirla tutta non so proprio perché Carlo gli abbia rinnovato il contratto per ben tre volte.

    Elisabetta, la mia vicina di scrivania, dice che è come quei tipi che a scuola non studiano mai, ma che poi all’interrogazione riescono sempre a sfangarla in qualche modo grazie a un efficace mix di disinvoltura e faccia tosta.

    Sarà, ma questa volta i suoi giochetti non gli serviranno a granché.

    Carlo promuoverà a inviato quello di noi due che più si è impegnato e applicato in questi anni, nonché quello dei due dotato di maggior talento. In entrambi i casi, vinco a mani basse.

    Forse deve essersene accorto anche Fabio, dato che mancano due minuti al colloquio e ancora non si vede.

    O forse il posto di inviato non gli interessa poi tanto come credevo. Magari si è reso conto che con quella mansione dovrebbe incominciare a lavorare sul serio.

    Sorrido dentro di me, elettrizzata all’idea che quando uscirò da quell’ufficio sarò finalmente una vera inviata. Basta scartoffie e noioso lavoro d’ufficio, d’ora in poi girerò il mondo intervistando personaggi importanti e vivendo in prima persona tutto quello che accade di interessante là fuori.

    Sarò in prima fila nelle manifestazioni contro le lobby del petrolio e porgerò domande pungenti agli inquilini dell’Eliseo e della Casa Bianca.

    Emma Fontana, inviata di punta di «Record».

    Emma Fontana, giornalista d’assalto e sempre sul pezzo.

    Emma Fontana, vincitrice del premio Pulitzer.

    «Emma?»

    «Eh?», sobbalzo al richiamo di Luisa, la segretaria del capo.

    Accidenti, ero a metà del mio discorso di ringraziamento per il Nobel per la Pace, conferitomi dopo aver convinto il presidente israeliano e quello palestinese a stringersi la mano davanti alle telecamere e a proclamare un eterno armistizio.

    «Carlo può riceverti».

    Mi alzo di scatto dalla sedia e percorro ad ampie falcate i pochi metri che mi separano dalla porta in legno scuro.

    Quando le dita stringono la maniglia, nelle mie orecchie risuonano ancora gli applausi fragorosi della giuria svedese.

    Emma Fontana, giornalista del secolo.

    Spalanco la porta e sorrido al mio radioso futuro.

    «Prego, Emma, accomodati», mi invita Carlo da dietro la sua scrivania, indicando la poltrona sulla mia destra.

    Già, perché quella a sinistra è già occupata.

    «Ciao, Emma!», esclama Fabio, con un tono affabile che suona persino più falso del sorriso sornione dipinto sulle sue labbra.

    Merda.

    Avanzo nell’ufficio del redattore capo, rivolgendo un sorriso tirato al mio avversario.

    Va bene, cerchiamo di comportarci in modo civile. Manteniamo la calma. Respiriamo a fondo e…

    Che cazzo ci fa lui qua?!?

    Perché non è a molestare qualche inserviente alle macchinette o a scaccolarsi davanti a un video di YouTube mentre finge di lavorare?

    Sono cosciente che il mio flebile sorriso è incapace di mascherare il fastidio e la frustrazione che mi montano dentro, quindi distolgo lo sguardo da Fabio per non dargli questa ulteriore soddisfazione (precauzione inutile, visto che è troppo preso a fissarmi le gambe con la sua solita espressione da porco) e prendo posto nella poltroncina vuota.

    Mi ci vuole qualche secondo per realizzare che Carlo sta parlando.

    «… a ogni modo se Allegri non rattoppa la difesa, non riuscirà mai a superare i quarti. Buffon non può fare miracoli a ogni partita».

    «Già, ma io cambierei qualcosa anche là davanti», ribatte Fabio. «Higuaín in quella posizione non riesce a combinare granché».

    «Io avrei messo dentro Dybala dal primo minuto, al diavolo Higuaín!».

    «Stai scherzando? Higuaín è capocannoniere del campionato!».

    Ah, ecco. Ora capisco come mai Fabio si trova qua.

    Avrà attaccato bottone con Carlo parlando della partita di ieri sera, e con questa scusa è entrato in anticipo nel suo ufficio.

    Lo squadro di sottecchi, fremente di rabbia. Elisabetta ha ragione: non sarà uno che si applica, ma riesce sempre a trovare un modo per ingraziarsi la gente.

    Be’, se crede di avermi gabbata dovrà ricredersi.

    Non gli permetterò di escludermi dalla conversazione.

    «Il vero problema, per me, è lo schema di gioco. Con una difesa così debole, non si possono lasciare due uomini soli a centrocampo», osservo.

    Gli sguardi dei due uomini si voltano in contemporanea verso la sottoscritta, fissandomi allibiti come se avessero appena assistito alle prime parole di senso compiuto pronunciate da un orango.

    Potrei anche offendermi, se non fossi deliziata dall’espressione sperduta di Fabio.

    «Hai visto la partita della Juve?», domanda Carlo.

    Non posso fare a meno di notare che mi sta guardando con una luce del tutto nuova, con un interesse e un rispetto che non mi ha mai riservato in questi tre anni di lavoro.

    E tutto perché ho guardato una stupida partita di calcio! Cosa peraltro non vera, dato che a me il calcio non piace. Non sapevo neanche che ieri ci fosse la partita, finché stamattina sulla metro non ho sentito due tizi parlarne e fare quell’osservazione sullo schema sbagliato.

    «Certo, non mi perdo una partita di Champions League», affermo, sorridente.

    «Non credevo che ti intendessi di calcio», mi pungola Fabio, con un tono marcatamente scettico.

    «Una brava giornalista deve intendersi di tutto», replico tranquilla.

    «Ben detto, Emma», approva Carlo.

    Ah-ah, uno a uno e palla al centro.

    «Dato che sei un’esperta di pallone, sono molto curioso di sapere chi avresti aggiunto tu al centrocampo», dice Fabio con un mezzo ghigno.

    Stronzo.

    «Be’, non voglio certo ergermi a…».

    «Sì, secondo te chi poteva giocare al fianco di Marchisio e Pjanić?», insiste Carlo, continuando a fissarmi con quell’inedito interesse stampato in volto.

    «Mmm…».

    Risponderei molto volentieri, se solo conoscessi i nomi dei giocatori della Juventus.

    Oh, merda! Nell’ufficio è calato un silenzio tombale e riesco a sentirmi addosso lo sguardo da avvoltoio di Fabio, pronto a gettarsi sulla mia carcassa.

    Avanti, Emma, di’ qualcosa! Tira fuori un nome.

    Ah, ci sono! Ho un flash di una maglietta appesa a una delle bancarelle in centro: una divisa della Juve con sopra il nome di…

    «Pirlo!», esclamo trionfante. «Avrei senz’altro fatto entrare Pirlo».

    «Pirlo?», ripete Carlo. Ha ancora un’espressione esterrefatta, ma questa volta in senso negativo.

    «Come no, Pirlo!», interviene Fabio. «Sono certo che sarebbe entrato in campo volentieri ieri sera, se solo non giocasse nel New York City da ben due anni. Per essere una che si intende di calcio, sei rimasta un po’ indietro con le trattative del calciomercato. Ah, no, aspetta! Forse ci stavi informando sulla tua formazione per il Fantacalcio, eh, Emma? Sei un’esperta anche di quello?».

    Guardo il capo tentare invano di camuffare una risata con un colpo di tosse, mentre avverto le guance scaldarsi dall’imbarazzo.

    Oh, fanculo! Lui, Fabio e pure Pirlo!

    «Mi auguro che l’ultima lista dei ristoranti stellati di Milano sia più… attuale della tua formazione della Juve. L’hai già completata?»

    «Sì, è già pronta per essere inserita nell’articolo».

    «Ottimo, allora puoi pure andare», replica Carlo, chinando il capo per riordinare dei fogli sparsi.

    Rimango immobile sulla sedia, dimenticandomi perfino di respirare.

    «C-come posso andare? Sono qui per il colloquio. Per la promozione a inviato».

    Carlo rialza il viso, spostando rapido lo sguardo da me a Fabio, e quindi di nuovo sulla sottoscritta.

    «Mi spiace, Emma, ma il ruolo di inviato è già stato preso».

    «Già», gongola Fabio, dondolandosi sulla sedia. «Fammi le congratulazioni, Emma. Hai davanti a te il nuovo inviato di punta di Record!».

    Vedo le labbra del caporedattore muoversi, ma un fischio prolungato nelle orecchie mi impedisce di intendere le sue parole.

    Non può essere. Non ha senso.

    Dovevo essere io il nuovo inviato della rivista!

    Forse è solo un incubo. Magari mi sono appisolata fuori nella saletta d’attesa e tra qualche istante Luisa mi sveglierà.

    «A proposito», continua Fabio alzandosi dalla sua poltrona, «sarà meglio che vada, se voglio girare quel servizio sulla manifestazione davanti all’ambasciata irachena».

    «Iraniana», lo correggo, ancora stordita.

    «Giusto. Ah, Emma, non ti dispiacerà correggere le bozze degli articoli sulla mia scrivania, vero? Ora che sono un inviato, non ho più tempo per questi lavoretti da stagista. Fai un buon lavoro, mi raccomando».

    Mi rifila una pacca sulla schiena e, dopo aver lanciato un’altra occhiata alle mie cosce, abbandona l’ufficio.

    Rimango inchiodata alla sedia, lo sguardo ancorato sul caporedattore che è tornato a riordinare i fogli. Quando il silenzio si fa insopportabile e capisce che non ho alcuna intenzione di smuovermi da lì, Carlo è costretto a ricambiare il mio sguardo.

    «Vuoi qualcosa, Emma?».

    Il tono seccato della domanda non riesce a dissimulare il disagio che traspare dal linguaggio del corpo. Si sente in colpa. E ne ha ben donde.

    «Se voglio qualcosa?», sbotto. «Voglio la mia promozione, capo. Voglio il posto di inviata che mi spetta! Non posso credere che hai preferito quell’idiota di Fabio a me! Stiamo parlando di uno che crede che lo spread sia una marca di deodoranti per la casa e che valuta le ministre europee in base alla loro chiavabilità!».

    Carlo sospira, grattandosi lentamente i capelli radi sulla tempia.

    «Insomma, non mi ha neanche presa in considerazione per quel posto? Credevo di aver lavorato bene in questi tre anni».

    «E lo hai fatto, hai lavorato benissimo. Sei la miglior praticante che abbia mai assunto e sono certo che saresti stata un’inviata brillante».

    «E allora cos’è successo? Non ti è piaciuto il mio ultimo articolo? O è stato per il giorno di ferie che mi sono presa quel mercoledì? Si trattava di un’emergenza, dovevo portare il gatto dal veterinario…».

    «No, Emma, è colpa di quello», spiega, indicando la mia mano sinistra.

    La osservo interdetta. Cos’ha la mia mano che non va?

    «Il tuo anulare è nudo, ma ancora per quanto? Sei una bella ragazza di ventisette anni, non ci vorrà molto perché qualcuno infili un anello di fidanzamento a quel dito. Questo significa che tra minimo un paio d’anni sfornerai il primo pupo, al quale magari seguiranno il secondo e il terzo. Sono situazioni che non possiamo permetterci, «Record» ha bisogno di inviati sempre attivi e al servizio della rivista».

    «Ma… io sono attivissima! E non c’è nessuno qua dentro più al servizio di me. Inoltre non ho alcuna intenzione di… sfornare pupi a breve termine, te lo garantisco».

    «Certo, dite sempre così e poi mi fregate», ribatte Carlo inasprendo il tono. «Nessuna che si sogna di avere figli, inorridite al solo pensiero, e poi guarda caso rimanete tutte gravide nei momenti meno opportuni. Hai idea di quanto ci rimetta la rivista? Prima permessi di maternità interminabili, poi altri permessi perché il piccolo ha la febbre, gli orecchioni, la varicella… Vorrei proprio vederti, mentre vomiti per la nausea durante un’intervista a Obama o scappi da un sit-in a Hong Kong perché è l’ora della poppata!».

    «Quindi mi stai dicendo che non mi dai la promozione solo perché possiedo un paio di ovaie?», chiedo, inspirando a fondo per la rabbia e l’indignazione. «Questo è sessismo bello e buono! È discriminazione!».

    «No, è semplice buon senso e devi fartene una ragione, perché è il mondo che gira così. Accettalo».

    «E se mi rifiutassi?».

    Carlo scrolla le spalle e sbotta con aria ilare: «Scatena una rivoluzione».

    «Una rivoluzione…», mormoro, meditabonda. «Perché no?».

    Girl Power!

    Due anni dopo

    «Capo!».

    Uscendo dal mio ufficio mi volto verso la voce incerta che risuona nel corridoio.

    Daniela, la nuova stagista, mi raggiunge a passetti rapidi, le braccia cariche di bicchieri fumanti. «Ti ho preso la cioccolata. La tua preferita è quella al Bacio, giusto?»

    «Una qualsiasi andrà benissimo, grazie», la tolgo d’impiccio liberandola di uno dei bicchieri. «Sei molto gentile, ma non c’era bisogno. Solo perché sei una stagista non significa che devi perdere tempo a portare il caffè ai superiori o a fare fotocopie».

    «È stata Giorgia a dirmi che volevi una cioccolata. E già che c’era ne ha ordinate anche per sé e per gli altri».

    Sospiro, contrariata. Ogni volta è sempre la stessa storia, appena arriva una nuova stagista Giorgia la sfrutta come una schiava per i suoi comodi. E cerca di portarsela a letto.

    «D’ora in poi ignorala», dico. «Qui a Revolution devi solo pensare a imparare e dare il meglio di te stessa. E smettila di chiamarmi capo».

    «Va bene. E capo, cioè Emma… Non voglio lusingarti, ma ci tenevo a dirti che per me sei un vero esempio, un modello come donna e come lavoratrice. Sono così fiera di lavorare per questa rivista, e spero un giorno di riuscire a intraprendere una carriera brillante come la tua…».

    «Oh, finalmente, ecco le cioccolate! Ce ne hai messo di tempo, eh?».

    Alessio si staglia alle spalle di Daniela agguantando uno dei bicchieri.

    «Bleah, fondente», commenta con una smorfia, facendo a cambio con un’altra tazza. «Su, portale agli altri prima che si raffreddino».

    Daniela obbedisce al volo, allontanandosi rapida lungo il corridoio.

    «Dovete smetterla di schiavizzare le stagiste», lo ammonisco.

    «Di’ la verità, volevi solo continuare a sentire la sua sviolinata, cara il mio modello di donna e lavoratrice moderna».

    «Forse un po’», ammetto.

    «E comunque non è colpa mia se ho una lieve inclinazione dittatoriale», prosegue Alessio mentre ci incamminiamo a nostra volta. «Nella redazione dove lavoravo prima gli stagisti rappresentavano l’ultimo gradino della scala sociale. Persino il carlino della direttrice aveva più voce in capitolo».

    Annuisco, consapevole.

    Alessio fino a un anno fa era il brillante grafico di una delle riviste di moda più importanti d’Italia, conteso dagli altri giornali rivali.

    La direttrice era un osso duro à la Miranda Priestly de Il diavolo veste Prada, ma non è lei la ragione per la quale Alessio ha lasciato la rivista e il luccicante mondo dell’editoria di moda.

    Unico maschio di sei figli, è molto legato alle sue cinque sorelle e proprio per loro ha deciso di dissociarsi dalla storpiata immagine di donna perfetta che il mondo della moda vende e promuove.

    «A che punto è la copertina per il prossimo numero?», gli chiedo.

    «Quasi terminata, manca ancora qualche ritocco allo sfondo».

    «Appena è pronta avvisami, non vedo l’ora di ammirarla».

    «Ora che ci penso, sai chi ci starebbe terribilmente bene su una delle nostre copertine?», chiede Alessio con un tono incurante che non mi inganna.

    «Fammi indovinare… Beyoncé?», replico.

    «Ti prego, Emma! Non possiamo non dedicare uno dei nostri numeri alla Regina! È senz’altro la donna più influente e potente del mondo dello spettacolo e…».

    «… e tu non vedi l’ora di incontrarla per proclamarle tutta la tua devozione».

    «Esatto. E magari potrebbe scapparci anche un duetto di Single Ladies, chissà».

    «Te l’ho detto, in questo periodo è in tour e per di più è impegnata nella promozione del suo nuovo film. Trattare con la sua agente è uno strazio, ma appena avrà un momento libero cercherò di prenotarla per un servizio. Però non posso prometterti nessun duetto. Ehi, perché hanno chiuso l’open space?».

    Allungo le dita per afferrare la maniglia, ma Alessio mi precede, frapponendosi tra la sottoscritta e la porta.

    «Ehm, un attimo, lascia controllare a me», dice, improvvisamente agitato.

    Apre uno spiraglio largo abbastanza da infilarci la sua testa riccioluta, quindi lo sento bisbigliare: «È qui!».

    Gridolini soffocati e rumori attutiti provengono in risposta dall’altra parte.

    «Ale, cosa state combinando?», domando sospetta, avanzando verso l’entrata.

    Ma lui mi precede ancora una volta e, spalancando le porte con fare teatrale, esclama: «Sorpresa!».

    «Perché è una brava ragazza, perché è una brava ragazza, perché è una brava ragazzaaaa...».

    L’intera redazione ha abbandonato le scrivanie e sta cantando a squarciagola, stretta in gruppo come uno di quei cori natalizi che bussano alle porte nei film anglosassoni. Indossano cappellini da festa e sono attorniati da palloncini colorati che ballonzolano attaccati ai pc.

    Lancio un’occhiata interrogativa ad Ale, che mi scocca un sorrisetto e si unisce al coro: «… Nessuno lo può negar!».

    Grida e risate si sostituiscono al canto, mentre manciate di stelle filanti e coriandoli vengono lanciate in ogni direzione ed Elisabetta stappa uno spumante.

    «Ehm, ragazzi!», esclamo, urlando per sovrastare il caos. «Avete preso una cantonata. Il mio compleanno è tra sei mesi». Intercetto un palloncino dorato che galleggia nell’aria e sollevo un sopracciglio alla vista del numero stampato sopra. «E di certo non compio sessantacinque anni».

    «I palloncini sono quelli della festa per mio padre dell’altro ieri», spiega Olivia, l’assistente di Alessio.

    «E i coriandoli li ho trovati in camera di mio nipote, devono essere un rimasuglio dello scorso Carnevale», aggiunge Elisabetta.

    «Sono commossa dal vostro spirito ecologico, ma davvero oggi non è il mio compleanno!», insisto, togliendomi una stella filante che mi si è impigliata nei capelli.

    «Ma non stiamo festeggiando il tuo compleanno, sciocchina!», ride Alessio. «Ieri sera ero al Frank e un uccellino… un uccellino molto sexy, mi ha rivelato che le Sorelle hanno già deciso a chi assegnare il loro prestigioso premio come Donna dell’Anno. E si dà il caso che la prescelta sia proprio la nostra magnifica capa, fondatrice e direttrice di Revolution, Emma Fontana!».

    Nuove grida di giubilo accompagnano l’annuncio di Alessio, e io le ricambio con un sorriso imbarazzato.

    «Sei la migliore, Emma!».

    «Siamo così orgogliosi di lavorare per te!».

    «Non potevano fare una scelta migliore!».

    «Ma perché non ce lo avevi detto?»

    «Be’, ho ricevuto la loro mail solo l’altro ieri, preferivo attendere che la notizia diventasse ufficiale», mi schermisco. «Ma vi ringrazio molto per il vostro sostegno!».

    «Quando si terrà la cerimonia di premiazione? Stai già preparando il discorso? Cosa indosserai?», domanda a raffica Elisabetta, allungandomi un bicchiere di spumante.

    «Tra due mesi circa, no e il mio vecchio tubino di Armani».

    «Scordatelo, ho già adocchiato un Versace monospalla che ti starà da Dio», ribatte Alessio. «Cupcake?».

    «Spero che almeno questi non siano riciclati», osservo adocchiando sospettosa il dolce alla vaniglia (che, a dire il vero, ha un aspetto favoloso).

    «Tranquilla, stamattina prima di venire in redazione ho svaligiato Knam».

    Mordicchio il mio cupcake mugolando di piacere finché non vengo travolta dall’abbraccio tutto ossa e capelli di Giorgia. A giudicare dall’odore che emana deve essersi fatta fuori una bottiglia di spumante ben prima che i festeggiamenti avessero inizio.

    «Puzzo, scusa», ammette sciogliendo l’abbraccio. «Stanotte non sono passata da casa e ho indosso gli abiti di ieri sera».

    «Che novità, non è proprio da te», commento ironica.

    C’è da dire che Giorgia è l’unica persona che conosca a risultare favolosa anche con gli abiti stropicciati e il trucco sbavato del giorno prima.

    «Vero che mi porti con te alla premiazione?», chiede esibendo un adorabile broncio da bimba.

    «Gio, checché se ne dica, le cerimonie delle Sorelle non sono un covo di lesbiche assetate di sesso. Anzi, a quanto ne so, la maggior parte delle socie sono felicemente sposate con uomini».

    «A maggior ragione, adoro convertire le etero! Ti preeeego!».

    Ridacchio e annuisco: «Certo, puoi venire».

    «Non è che ci sarebbe un posto anche per me, vero?», implora Alessio rivolgendomi uno sguardo da cane bastonato.

    «Se non ti fa sentire a disagio il fatto di essere probabilmente l’unico uomo in sala».

    «Scherzi? Sono l’unico uomo in famiglia e qui in redazione, sono nato per stare tra le donne! Trovarmi nella curva dell’Inter in mezzo a una moltitudine di ultras cavernicoli e omofobi, quello sì che è stato un trauma!». Rabbrividisce, scuotendo i riccioli sulla fronte. «Non mi metterò mai più con un tifoso di calcio».

    «A proposito», si intromette di nuovo Giorgia. «Emma, com’è andato il tuo appuntamento di ieri sera?»

    «Ehm, come dici? Non riesco a sentirti», bluffo, gridando sopra le note di Run the World di Beyoncé che qualcuno ha sparato a manetta.

    Giorgia stiracchia le labbra in una smorfia spazientita. Mmm, mi sa che non l’ho fregata.

    «Allora andiamo a parlarne con calma nel tuo ufficio».

    Fa un cenno d’intesa ad Alessio, afferra un cupcake dal vassoio e, prima che possa opporre resistenza, entrambi mi avvolgono le spalle trascinandomi via dalla festicciola.

    Non si batte chiodo

    Quando mi siedo nel mio ufficio do un altro morso al cupcake per prendere tempo.

    Giorgia si è impadronita di una sedia e ora mi fissa dall’altro lato della scrivania coi suoi enormi occhi verdi. Alessio è appollaiato a gambe accavallate sul ripiano e la luce che filtra dalla finestra fa brillare i bottoni della sua giacca Vivienne Westwood.

    Mi sento come un criminale che sta per essere torchiato dalla polizia (anche se decisamente molto stilosa).

    Solo che non ho commesso nessun reato, no? Non mi risulta che mandare a monte un appuntamento sia diventato un crimine.

    Faccio per azzannare nuovamente il cupcake, ma Alessio me lo sottrae riponendolo sulla scrivania.

    «Da quando soffri di fame nervosa?», indaga con il tono di uno che sta recitando in Law & Order.

    «Da quando voi due vi siete messi a ficcare il naso nella mia vita sentimentale», brontolo, incrociando le braccia al petto.

    «Nella tua non-vita sentimentale», mi corregge Giorgia.

    «A giudicare da tutta questa reticenza, deduco che l’appuntamento di ieri non sia andato a buon fine», prosegue Alessio.

    «Esatto. Lo metta pure a verbale, agente», sbuffo.

    «Che cosa è successo, questa volta?», sospira Giorgia. «Riccardo non mi sembrava un tipo così male per un maschio etero. Si scaccolava in pubblico?»

    «No».

    «Masticava a bocca aperta?», domanda Alessio.

    «Nemmeno».

    «Sbagliava tutti i congiuntivi?», ritenta Giorgia.

    «Neanche».

    «E allora cos’è che non andava?», sbotta. «Francamente, Emma, voi donne etero siete troppo schizzinose! Con l’offerta scadente che c’è in giro, dovreste imparare ad accontentarvi».

    «Non aveva niente che non andava, a dire il vero. Era ben vestito, educato e non ha sbagliato una coniugazione».

    «Quindi?», esclamano entrambi in coro.

    Tiro un respiro profondo e rispondo con aria piccata: «Mi ha chiamata signorina».

    «Oh, no!», geme Giorgia, rovesciando la testa all’indietro.

    «Povero sciocco», sospira Alessio scuotendo il capo.

    «Ormai dev’essere il terzo che fai fuori in questo modo», osserva lei.

    «Il quarto. E non li ho fatti fuori. Si sono autoeliminati».

    Recupero il cupcake e ne strappo coi denti un grosso morso, ritornando con la mente alla sera scorsa.

    Il romantico ristorantino in zona Brera con le luci soffuse, le risate e le occhiate maliziose tra una portata e l’altra, le nostre mani che si sfiorano…

    Con Riccardo sembrava davvero la volta buona.

    Finché non siamo arrivati al dolce.

    Quando lui ha fermato un cameriere ordinando un dolce per me e la signorina, non ho saputo trattenermi. Il fatto è che l’appellativo signorina è incredibilmente sessista, discriminante e riduttivo. Fateci caso: avete mai sentito qualcuno rivolgersi a un uomo adulto e celibe col termine signorino? Ovvio che no, tutti gli uomini sono signori, indistintamente.

    Questo perché loro, a differenza di noi donne, non vengono identificati a seconda del loro stato civile. Il termine signorina è uno stupido retaggio della società patriarcale, che serve solo a catalogare la donna in base alla sua appartenenza o meno a un uomo. Come se senza di esso noi fossimo monche, indegne di essere delle donne complete.

    «E sentiamo, lui come ha reagito al tuo pistolotto?», ridacchia Giorgia.

    «Ha detto che era una sciocchezza e che a lui il termine signorina piaceva perché gli ricordava qualcosa di delicato come i petali di un fiore».

    «Oh!», geme Alessio portandosi una mano alla bocca.

    «Quel tizio aveva proprio voglia di morire!», sgrana gli occhi Giorgia.

    Nuovi spezzoni della cena di ieri si affastellano nella mia mente. Io che ribatto scocciata che una donna non è qualcosa di fragile da proteggere come un animaletto in via di estinzione, lui che replica teso che sto esagerando, di nuovo io che lo accuso di non capire come tutti gli uomini etero…

    Insomma, non abbiamo più mangiato quel dolce.

    «Be’, guardiamo la cosa da un lato positivo», dice Alessio, ravvivandosi. «Quantomeno questa volta sei arrivata fino alla fine della cena».

    «Già, l’ultimo tizio è stato silurato prima ancora di ordinare dal menu», annuisce Giorgia.

    «Aveva dato della sgualdrina a una ragazza seduta al tavolo accanto, solo perché aveva una scollatura un po’ profonda!».

    «E quello prima ancora?», continua Alessio. «Con lui non sei arrivata nemmeno al ristorante!».

    «Per forza, appena siamo saliti in macchina ha messo su un cd di Laura Pausini. Io sapevo che era un fan sfegatato dei Black Sabbath, e quando gli ho chiesto perché non avesse messo su un loro pezzo, lui ha detto che non sono un gruppo per ragazze!».

    Ricordo ancora la discussione all’interno dell’abitacolo che si fa sempre più rovente, poi io che mi slaccio la cintura e sbatto la portiera dell’auto, che non ha fatto neanche in tempo a partire.

    Probabilmente ho stabilito il record mondiale di appuntamento più breve della storia.

    «Emma», sospira Alessio, «lo sai che ti adoriamo e che sposiamo in toto la tua lotta femminista, ma quando sei a un appuntamento non potresti… trattenerti? Giusto un pochettino».

    «Trattenermi?».

    «Ecco, diciamo… sorvolare su certe questioni che possono mettere a disagio i maschietti», aggiunge Giorgia.

    «Non è colpa mia se sono dei trogloditi con una mentalità cavernicola».

    «Giusto, ma col tuo atteggiamento non fai che spaventarli», rincara la dose Alessio. «Prova a essere meno spigolosa, altrimenti continuerai a farli fuggire tutti».

    «E se anche fuggono? Sono una donna moderna e indipendente, non ho certo bisogno di un uomo per sentirmi soddisfatta».

    «No, ma ne hai bisogno per soddisfarti in un altro modo… per scioglierti un po’…».

    «Quello che Ale sta cercando di dirti è che hai bisogno di farti una sana scopata», interviene Giorgia. «Sei tesa e rigida come un manico di scopa. Da quand’è che non ti fai una ripassata come si deve?»

    «Mmm, due anni?».

    Il fatto è che sono stata troppo presa dalla rivista per riservare anche la più minima attenzione alla mia vita sentimentale. Ho ripreso a uscire con gli uomini solo da un paio di mesi e solo una volta ho raggiunto la tappa letto con un tizio. Peccato che a quel punto non ne volesse sapere di farmi stare sopra, perché per lui era una posizione castrante e poco virile.

    Quando gli ho fatto notare che il suo atteggiamento era proprio quello di un uomo insicuro della propria virilità, lui è andato in escandescenza, così la mia astinenza è continuata imperterrita fino a oggi.

    «Forse una soluzione l’abbiamo già trovata», dice Giorgia, illuminandosi. «Se Emma venisse scelta per… mpf…». La sua frase viene soffocata da Alessio, che ha premuto una mano sulla sua bocca.

    «Ehi, cosa stava per dire?», domando sospettosa.

    «Non darle retta, straparla come sempre», si affretta a ribattere lui. «Chissà quante sostanze illecite ha ancora in circolo da ieri sera, poverina. Comunque adesso togliamo il disturbo, bye bye!».

    «Ciao, Donna dell’Anno!», sghignazza Giorgia seguendolo a ruota.

    Quando se ne sono andati spazzolo quello che rimane del cupcake, anche se il tarlo che si è insinuato nella mia mente mi impedisce di gustarmelo appieno.

    Non ho bisogno del mio sesto senso da giornalista per intuire che quei due mi nascondono qualcosa.

    Chi ha bisogno del sesso

    quando hai la Nutella?

    E comunque, com’è che si dice… Meglio sole che male accompagnate, no?

    Perché perdere il proprio tempo con individui di sesso maschile che non fanno altro che trattarti come una bambola gonfiabile animata o ti fanno sentire inferiore solo perché sei sprovvista di un pene?

    «Noi ne facciamo a meno, vero Olympe?».

    La gattona spaparanzata al mio fianco sul divano replica con un fiacco miagolio.

    «E il sesso, poi… non è neanche questa gran cosa di cui tutti parlano», proseguo affondando il cucchiaino nel barattolo di Nutella. «Sai cos’è grandioso? Andare a Washington e intervistare Michelle Obama, ecco cosa! O essere eletta Donna dell’Anno dall’associazione femminile più importante di Italia».

    Ancora stento a crederci. Due anni fa ero solo un’aspirante giornalista disillusa, alla quale ogni strada per il successo pareva preclusa per il solo fatto di essere fidanzata e in età da prima gravidanza. Dopo quella cocente delusione, il mio desiderio più grande era diventato quello di dare voce a tutte le donne che si sentivano ostacolate e deluse quanto me, fondando una rivista autorevole e moderna. Basta servizi di moda con giovani anoressiche, niente stupidi pettegolezzi o critiche alle celebrità vestite male. Il mio giornale avrebbe dovuto essere un faro e un modello per ogni donna, dalla ragazzina bisognosa di esempi sani alla signora matura in cerca di riscatto sociale.

    Fondare una rivista tanto ambiziosa, però, richiedeva ingenti fondi e io dopo aver dato le dimissioni da «Record» ero senza un soldo e senza un lavoro.

    Stavo quasi per accantonare ogni sogno di gloria quando Elisabetta, la mia ex collega a «Record», mi ha suggerito di provare con il crowdfunding. Di fronte a un pc e a una tazza di caffè fumante, mi ha mostrato una piattaforma di successo che raccoglieva i progetti degli utenti e permetteva a chiunque di sovvenzionarli con una libera offerta.

    «Perché non ti iscrivi?», mi aveva proposto Elisabetta. «Scommetto che un sacco di donne là fuori saranno entusiaste di contribuire alla tua idea».

    Aveva ragione.

    In poche settimane, attraverso la piattaforma, ho tirato su quanto bastava per affittare un piccolo ufficio e assumere un grappolo di collaboratori.

    Il colpo grosso, però, è arrivato un mese dopo. Un donatore anonimo ha stanziato una cifra estremamente generosa, che ci ha permesso di fare il salto di qualità e agire in grande.

    Ancora oggi ci chiediamo chi sia stato a farci dono di quella cifra a sei zeri, dal momento che l’individuo in questione non si è mai palesato e ogni mio tentativo di identificarlo si è rivelato vano (o meglio, identificarla, dal momento che sono certa si tratti di una donna).

    Peccato, mi sarebbe piaciuto omaggiarla nel discorso che terrò alla cerimonia delle Sorelle.

    Mentre mi infilo in bocca una generosa cucchiaiata di Nutella (cercando di non pensare a quanto mi starà stretto l’abito di Versace), faccio zapping alla tv, finché non incappo in Ufficiale e gentiluomo.

    Lo conosco a memoria perché mia nonna era innamorata di Richard Gere e quando passavo i pomeriggi da lei infilava sempre la videocassetta di uno dei suoi film.

    Ufficiale e gentiluomo era il nostro preferito.

    Non lo riguardo da secoli, quindi poso il telecomando e me lo gusto tra una cucchiaiata e l’altra, finché non si arriva al famoso finale per il quale io e la nonna impazzivamo.

    Debra Winger sta lavorando nella cartiera, quand’ecco che partono in sottofondo le note di Up where we belong e Gere, stupendo nella divisa di pilota, la solleva tra le braccia e, tra le ovazioni delle colleghe commosse, la porta via dalla fabbrica verso un radioso futuro insieme…

    Un attimo.

    Ehi, questo finale è proprio sessista!

    Che cosa stai cercando di dirci, signor Hackford? Che il lavoro per una donna equivale a una gabbia e che il nostro unico desiderio è farci portare in salvo da un principe azzurro che ci mantenga?

    Scommetto che ciascuna di quelle operaie sta segretamente invidiando Debra a morte, desiderando di trovarsi al suo posto. Be’, se la vostra vita non vi soddisfa perché non cercate di cambiarvela da sole, invece di aspettare che ci pensi un uomo?

    Ma d’altronde è questo che ci inculcano fin dalla tenera età, no?

    Siamo tante Biancaneve che dipendono per ogni cosa dal sesso maschile: dal cacciatore per salvarsi la pelle, dai nani per sopravvivere fuori dal castello e dal principe per tornarci in pompa magna.

    Con un gesto di stizza cambio canale e proprio nello stesso momento il cellulare squilla.

    «Alessio?», rispondo rapida alla chiamata.

    «Sei sola in casa?», ribatte lui irruento. «Non ti ha ancora citofonato nessuno?»

    «N-no», rispondo, sorpresa dal suo tono pressante. «Ma in questi giorni il portone giù è guasto, quindi se uno deve entrare non ha bisogno di citofonare».

    «Merda!», esclama una voce in sottofondo.

    «Ehi, quella è Giorgia? Salutamela».

    «Senti, stiamo venendo a casa tua, tu non aprire a nessuno finché non ci siamo noi, intesi?», insiste Alessio.

    «Ma che vi prende? Perché non dovrei aprire e perché state venendo qui?».

    «Ti spiegheremo tutto quando saremo da te».

    «Non puoi darmi neanche un’anticipazione?».

    «Emma…», lo sento respirare a fondo nel ricevitore «stanno venendo a prenderti».

    «Chi sta venendo a prendermi? Gli alieni? I nazisti?».

    Con un dito raccolgo uno sbaffo di crema dal barattolo della Nutella e me lo porto alla bocca.

    «La lega dei salutisti?»

    «Peggio, credimi. Comunque abbiamo appena svoltato nella tua via, tra poco siamo da te. Mi raccomando, tu nel frattempo…».

    «Non apro a nessuno, ho capito. Ma si può sapere che ti prende?».

    Non ottengo risposta perché Ale ha già chiuso la chiamata.

    Rimango a fissare perplessa la pubblicità alla tv senza vederla, chiedendomi il motivo di tutto quel mistero.

    Forse si tratta di uno scherzo. Magari Alessio e Giorgia hanno organizzato un’altra festicciola a sorpresa per la nomina delle Sorelle e cercano di sviare i miei sospetti comportandosi in modo strano. Sto incominciando a chiedermi se sia il caso di darmi una rinfrescata e mettermi su qualcosa di carino, quando suona il campanello. Non ho bisogno di accertarmi di chi si tratta perché sento le voci concitate dei miei collaboratori attraverso la porta.

    Appena la apro, Alessio mi sfreccia accanto precipitandosi nell’appartamento.

    Giorgia si china a stamparmi un bacio frettoloso sulla guancia, avvolgendomi in un’aura di Givenchy e vodka.

    «Allora, mi spiegate cos’è questa storia?», le chiedo.

    «Non ti azzardare a parlare!», minaccia Alessio mentre chiude una dopo l’altra le tende delle finestre.

    Giorgia alza le mani in segno di resa e si lascia cadere sul divano, sollevando la reazione sdegnata di Olympe, che schizza via.

    «Ale cosa diavolo stai facendo?», insisto quando afferra il telecomando e spegne il televisore.

    «Shhh! Non devono sentirci!», ordina.

    «Forse è meglio che ti siedi, Emma», aggiunge Giorgia picchiettando sul divano.

    La sua inedita espressione seriosa mi convince a seguire il suo consiglio.

    Che sia davvero accaduto qualcosa di grave? All’improvviso tutte le premure di Alessio mi mettono in allarme.

    «Avete perso una scommessa con la mafia russa e io sono la posta in palio?», chiedo, ironica solo a metà.

    Giorgia e Alessio si scambiano una lunga occhiata in silenzio, quindi lui prende posto sul tavolino di fronte a noi.

    «Emma», esordisce con voce tremolante «abbiamo fatto una cazzata».

    «Oddio, non dirmi che ci ho preso con la storia della mafia!», esclamo sgomenta.

    «Peggio. Ti ricordi di Ugo?»

    «Intendi Ugo il Bastardo, il tuo ex?»

    «Proprio lui. Oh, non fare quell’espressione contrita, Emma, ormai l’ho superata. Dicevo, quando Ugo mi ha lasciato, due mesi e ventiquattro giorni fa, a una sola settimana dal nostro primo anniversario, quel grandissimo figlio di… Comunque, non l’ho presa benissimo. Tu quel weekend eri a Londra a intervistare Malala e non sai in che condizioni disperate fossi. Per fortuna Giorgia è venuta a casa mia a risollevarmi il morale. Ci siamo scolati una bottiglia di Jägermeister e abbiamo incominciato a lamentarci dei nostri rapporti miseramente naufragati. Poi ci siamo resi conto che c’era qualcuno con una vita sentimentale persino più deprimente della nostra», prosegue Alessio. «Tu, Emma!».

    «Grazie tante», mugugno.

    «Scusa, ma sai com’è… mal comune mezzo gaudio. Allora ci siamo messi a pensare a quale tipo di uomo potesse fare al caso tuo, finché la tv non ci ha messo lo zampino».

    «La tv?», domando confusa.

    «Esatto, proprio la tv. Era sintonizzata su Real Show e a un certo punto è comparsa una scritta in sovraimpressione che pubblicizzava il casting per un nuovo programma dell’emittente, Chi vuol sposare un milionario?. Io e Giorgia abbiamo fatto una piccola ricerca sul sito del network: si tratta di un rifacimento della serie tv americana The Bachelor, solo che in questo caso il protagonista non è un semplice scapolo benestante, ma un vero e proprio milionario. Venti ragazze, chiuse in una villa, devono contendersi il suo cuore e il suo portafoglio affrontando prove e gareggiando una contro l’altra».

    «Ma che idiozia sessista!», sbraito.

    «Assolutamente».

    «E quindi?»

    «Ti ci abbiamo iscritta».

    «Cosa?!».

    Sposto lo sguardo da Alessio a Giorgia e viceversa, indecisa se essere più scioccata o infuriata.

    «L’abbiamo fatto per gioco, era solo uno scherzo», si giustifica lei. «Non pensavamo che ti avrebbero scelta».

    «E infatti non lo hanno fatto», precisa Alessio.

    «Oh», sospiro, rilassandomi. «Be’, era uno scherzo cretino, ma vi perdono visto che non è successo niente».

    «Non ti hanno scelta all’inizio», continua Alessio, abbassando lo sguardo per non incrociare il mio. «Ieri una delle concorrenti selezionate si è rotta una gamba, così quelli del casting hanno ripescato una delle altre candidate e… tu sei la prescelta. Ho ricevuto la mail della redazione un’ora fa. Quando ti ho iscritta ho inserito i miei contatti, ma l’indirizzo di casa era il tuo».

    Nel salotto cade un silenzio tombale.

    Sono talmente sotto shock che credo di aver perso la facoltà di parlare.

    «Sorpresa!», esclama Alessio, in un estremo tentativo di spezzare la tensione. «Andrai in tv, Emma!».

    «E in prima serata!», aggiunge Giorgia.

    «Ma siete impazziti?», sbotto, affondando le unghie nella pelle del divano. «Credete davvero che mi presterei a una simile pagliacciata? Preferisco vivere in astinenza sessuale il resto dei miei giorni piuttosto che andare a corteggiare un povero idiota che si crede un gran figo solo perché è pieno di soldi!».

    «Veramente è piuttosto figo già di suo», osserva Alessio.

    «In effetti è decisamente gnocco», approva Giorgia impadronendosi del mio barattolo di Nutella e leccando il cucchiaino. «Cavoli, perfino io gli darei una ripassata. Sai, Emma, dopotutto dovresti ringraziarci. Mezza Italia si era iscritta al programma, non hai idea delle migliaia di donne etero che si taglierebbero un braccio pur di stare al posto tuo».

    «Se solo Marco fosse bisex mi sarei iscritto pure io», sospira Alessio.

    «Ma che fortuna!», esclamo sarcastica. «Per quanto mi riguarda Marco e i suoi milioni possono andarsene al diavolo. E comunque se è così figo e ricco come dite, perché ha bisogno di andare in tv per trovar moglie?»

    «In realtà non ne ho idea», ammette Alessio. «Direi che lo fa per la notorietà, se non fosse che in questo Paese persino i sassi conoscono Marco Bernardi».

    «Bernardi, hai detto? Non sarà mica un parente di Paolo Bernardi, il celebre imprenditore?»

    «È suo figlio».

    «Ah, un vanitoso figlio di papà mantenuto e nullafacente! Proprio l’uomo dei miei sogni».

    «Potresti dargli una chance», azzarda Alessio.

    «Ale, sono appena stata eletta femminista dell’anno proprio per il mio impegno a combattere contro l’immagine di donna oggetto e stereotipata che quel genere di programmi diffonde. Non corteggerò un uomo sciocco e vanesio. Non alimenterò la stupida competizione tra donne. Non mi piegherò ai cliché che la società maschilista ci impone. Non parteciperò a quel programma».

    Mi alzo dal divano, determinata e serena.

    «Quando quelli di Real Show arriveranno, spiegherò loro che si è trattato solo di uno scherzo. Dopotutto, come ha detto Giorgia, ci sono migliaia di donne disposte a prendere il mio posto».

    «Ehm, Emma», balbetta Alessio, più teso che mai. «Non puoi ritirarti, mi spiace».

    «E perché mai?».

    Lui apre bocca per rispondere, ma proprio in quel momento il campanello di casa trilla con insistenza, facendoci sobbalzare tutti

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