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Ultima notte a Venezia
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E-book145 pagine2 ore

Ultima notte a Venezia

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Un affresco disincantato sul mondo del cinema, fra biografia, ricordi e dolorosa ricerca di una identità perduta. La mitica Venezia del festival è il pretesto per una narrazione in prima persona, un romanzo in cui il protagonista si mette in gioco senza rete e senza alcun pudore. Alla ricerca di una bellezza sempre più irraggiungibile quanto impossibile.

Claver Salizzato, è sceneggiatore, regista e critico cinematografico. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni sul cinema italiano e hollywoodiano, classico e moderno. Il suo film di esordio ha come tema uno degli episodi storici della Resistenza al nazifascismo, la strage di Cefalonia. Nel 2016 ha completato il lungometraggio I fiori del male.
LinguaItaliano
Data di uscita11 feb 2017
ISBN9788893040709
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    Anteprima del libro

    Ultima notte a Venezia - Claver Salizzato

    2017

    Preludio

    L'Homme et la mer

    Homme libre, toujours tu chériras la mer!

    La mer est ton miroir; tu contemples ton âme

    Dans le déroulement infini de sa lame,

    Et ton esprit n'est pas un gouffre moins amer.

    Charles Baudelaire

    Ho sempre inteso la critica cinematografica come un’attività espressiva e, nei casi, fortunati loro, eccelsi, rari quanto mai, artistica. E come un impegno militante. La critica acquista e compie il suo senso quando è creatrice di testi complessi, cioè interpretativi e mimetici a un tempo dell’oggetto che analizza; chi scrive, filma, riprende in video, posta in rete, ecc. deve essere in grado di evocare l’oggetto da cui prende le mosse. Cosa migliore allora, di questo romanzo che segue, denso e divertente, sì, divertente, per il sarcasmo amaro e il sottotesto di gossip culturale, di alto livello, che lo animano. Oltre al resto, ovviamente.

    La critica è anche un’attività militante, come dicevo, lo è sempre stata nel passato e, in modo perverso, continua ad esserlo anche oggi, perché è comunque portatrice di una visione del mondo, di un’interpretazione della realtà che si fa teoria della rappresentazione e del linguaggio, nel nostro caso, cinematografici.

    Oltre a una responsabilità estetica, la critica ne ha dunque anche una etica. Del resto, se la bellezza salverà il mondo è perché etica ed estetica, come abbiamo imparato dai vecchi manuali Lamanna in poi, attraversano la ricerca filosofica nei secoli in una perenne tensione all’Uno, al Bene in quanto Bello e viceversa. E sottendono in ultima analisi, quella, la felicità sociale; questa, la riconoscibilità, la percezione della comunità: il bel/buon paese.

    L’era della proliferazione audiovisiva non fa che aggiungere le pietre di Sisifo alla responsabilità della critica. Come dimostrava anche, a cominciare dal dopoguerra e nei decenni seguenti del secolo scorso, l’acceso dibattito teorico sulla televisione e in generale sui nuovi media. Un dibattito oggi almeno inaridito, a meno che non mi sia sfuggito un nuovo Adorno o un nuovo McLuhan. Quella specie estinta di intellettuale, Lino Miccichè la definiva il critico totale.

    Di questo critica/o, autrice/ore e militante, io non ne vedo, o leggo, o ascolto, ecc. ecc., fatta eccezione per una esigua nicchia ormai carbonara, estranea a tutte le istituzioni pubbliche e private, a cominciare proprio da quelle cosiddette culturali, tendenzialmente espulsa o esclusa a seconda della generazione, dal mercato del lavoro, spesso ridotta all’indigenza malgrado - o meglio a concausa de - gli spessi ed eccellenti curriculum vitae e di studio. La democraticità della Rete non la rende alternativa a questo scenario, ne è piuttosto lo specchio deformante di dimensioni e peculiarità. Simile a quelli in cui si scomponeva la bellezza mirabile di Gilda/Rita… Qualcosa accade all’estero, in Francia, soprattutto, e negli Stati Uniti, nelle loro università, nelle loro riviste specializzate, nei loro libri. Ma l’uso che se ne fa da noi, in alcune delle cattedre deputate, appare per il momento sterile, ancora una volta autoreferenziale e destinato ad accrescere non la critica del Potere, i meccanismi contemporanei della comunicazione, ma il potere della critica cattedratica.

    Il resto che oggi si definisce come la critica, è altro: trame, stellette, recensioni distratte quando non vere e proprie veline degli uffici stampa, con un ricorso costante all’aggettivazione soggettivistica. Nel migliore dei casi, una rinascita alla grande della vecchia critica del gusto che dai quotidiani trascorre ai supplementi, ai settimanali, a quel che resta, cioè nulla, della critica in televisione e, in parte, anche alla Rete. La conseguenza naturale, oltre che necessità mediatica, è che in questa cosiddetta critica finiscono per esercitarsi tutte le firme del giornalismo nostrano, con conseguenze a volte comiche, se non fossero tragiche: si apprende così, su uno dei due maggiori quotidiani italiano, il preferito dalla nostra gauche caviar, che Carmine Coppola è il fratello di Francis, che il neorealismo nasce nel 1962 con La Ciociara, ecc. Del resto, perché no? È più che lecito applicare alla critica cinematografica ciò che uno dei nostri registi da Oscar rivendica per il cinema: i film non bisogna vederli, parlarne, bisogna farli; autorizzati quindi a dedurne che il cinema sia un mestiere da autodidatti, e le scuole, i libri, la critica, appunto, quella che fu, inessenziali orpelli…

    In realtà, tutti partecipano, più o meno consapevolmente, più o meno colpevolmente, di un fenomeno epocale: una specie, quella dell’intellettuale, è stata ‘terminata’. La parola piena, la parola che interroga e a sua volta genera un’altra parola, non ha più voce, non ha più spazio. E Marco Rialto, il protagonista delle pagine che seguono, è uno di quei pochissimi sopravvissuti che tentano invano di riconoscere - e riconoscersi - in un universo mutato e mutante le tracce del mondo conosciuto. Eroe di un disaster movie senza happy ending. Si ha il cinema che si merita, e si è perso il diritto a un cinema che chiama, che chiede, in modo anche arrogante, e pone quindi lo spettatore in una posizione di disagio, un disagio creativo, generativo di pensiero e, a volte, altre opere.

    Come un personaggio del libro di Stephen King - e della modesta serie da tratta da - io, e credo anche Rialto e il suo autore, sento di vivere sotto un’enorme cupola (The Dome), catturata senza scampo. Un impedimento invisibile quanto inesorabile, che esclude ogni rapporto, più che con la realtà che ha ormai dell’inverosimile, con la verità, quella cosa che, come diceva Adorno, è il privilegio dell’arte quando si libera della menzogna della realtà, appunto. O come diceva Godard, affermando che il cinema non è il riflesso della realtà bensì la realtà di quel riflesso. La cupola è come un enorme tappo che comprime tutti i nostri sensi, in primis la vista e l’udito: camminiamo bendati con degli auricolari, ormai vere e proprie protesi del nostro corpo degradato come tutto il resto a immagine trash, afasici, muti, ma in costante ascolto di un bla bla bla senza soluzione di continuità, o nel migliore dei casi, di cattiva musica. L’apparente ingenuità del cinema e della serialità distopici americani ci parla di tutto questo, in fondo.

    Rialto, come me e come l’autore, è uno di quelli che si è ferito quasi a morte nel tentativo di far esplodere la cupola, ha graffiato anche lui fino a consumarsi unghie e mani, fino al sangue, la liscia vacuità di quella materia sfuggente, fluida come un liquido. L’ha fatto con il cinema e per il cinema, la nostra passione, il nostro desiderio, come direbbe Lacan. Ha assistito all’agonia della critica temendo per quella del cinema che, mai come ora, ma già da qualche decennio, ne avrebbe un disperato bisogno: di un pensiero sistemico, militante, poetico, sì, anche. Per la sua rifondazione e la sua rinascita. E che se ne scrivesse, insieme evocando la propria idea di cinema artisticamente, e argomentandola teoricamente. Perché in Italia si fanno tanti film, ma il cinema, quello non c’è più, è morto. Nei più talentuosi dei nostri autori, c’è una tensione al cinema, ci sono sprazzi di cinema, c’è come la domanda inevasa di un pensiero cinematografico. Molto più spesso, assistiamo a una macchina da presa che si muove senza alcun senso, senza nessuna produzione di quel senso, laddove l’etica incontra l’estetica, come si diceva...

    Di contro a questa assenza, a questo vuoto, la cosiddetta critica, come del resto accade in letteratura, è alla forsennata ricerca dell’Autore e del Capolavoro. E ne sforna tantissimi, se uno avesse la pazienza di leggere i quotidiani, i supplementi, i settimanali, ma anche le riviste degli ultimi 10-15 anni, vedrebbe che il cinema italiano, secondo gli italiani, è in una sua ineffabile Golden Age. In filigrana, fra quelle pagine, se fossimo ottimisti, scorgeremmo almeno i residui di un complesso di colpa. Non poco, infatti, la rimozione del pensiero critico e l’abdicazione alla sua funzione storica, sociale, hanno contribuito all’affossamento del cinema italiano, mentre si conservano vitali e produttivi in Francia e nel mondo anglosassone, dove la Musa mostra ben altra salute. Se si volesse individuare una sorta di turning point, l’inizio di una cesura sottovalutata, inavvertita, forse consapevolmente, si potrebbe tornare agli albori degli anni ’90, a, uno per tutti, un volume dell’insuperato Ufficio Documentazione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, dove anche Rialto si è formato, "Una generazione in cinema, dedicato agli esordi fino al 1988. In uno di quei saggi, Lino Miccichè costatava, analizzava una sorta di vuoto" e auspicava un ripensamento profondo. Era quello il momento per una mancata esplosione, una deflagrazione che sarebbe stata, forse, salvifica per il cinema italiano, una mise en abîme critico-creativa che avesse coinvolto gli autori, spazzato via tutto il già visto, gli equivoci, il ‘televisume’ e l’autorialità solipsistica e ruffiana che sembra ancora essere l’unica eredità che ci ha lasciato la morte dei padri illustri. Come in tutte le rivoluzioni mancate, data da allora il progressivo ripiegamento della critica, la sua rinuncia a essere alveo, collante, punto di riferimento teorico per il cinema. E siamo qui a piangere una battaglia che non è mai nemmeno iniziata.

    Se il cinema è morto, la vitalità del cinema è altrove; sostiene Adriano Aprà, giusto, ma non c’è altrove se non c’è luogo. I sogni hitchcockiani di Spellbound recano la firma di Dalí, per intenderci, ed è proprio del rapporto fra sperimentalismo, avanguardia e sistema industriale (sano) che il cinema americano nutre ancora oggi il suo splendore.

    Da noi, invece, quel poco di vitale che fortunosamente si produce, non è visibile, non è visto. Il che, parlando di cinema, dispositivo che per eccellenza implica lo sguardo altro dello spettatore, equivale a dire che non esiste. Questo ci porta alla constatazione finale: la cupola che ci opprime è anche e soprattutto un linguaggio, un sistema significante; il discorso, il senso che incessantemente produce è quello del Potere, non nelle forme storiche del passato ma in quelle fluide, liquide, che caratterizzano il nostro tempo. Apparente apoteosi del pensiero debole, i suoi effetti sono grevi come macigni da cui neanche l’infinitesimale insetto riesce a scampare. I suoi meccanismi sono a un tempo palesi e inafferrabili, evidenti e dissimulati, elementari e complessi. Chi è cineasta, cioè donna/uomo di cinema a tutto tondo, ne ha fatto sufficientemente esperienza tentando invano di resistere al processo di omologazione che informa di sé ormai ogni fase di quello produttivo: soggetto/concept, trattamento/bibbia, sceneggiatura, revisioni, produzione, post produzione, distribuzione, marketing. La finanza, la politica, i network, mai come oggi perfettamente integrati - o meglio costitutivi de - nella cupola, delegano il controllo a una nuova gerarchia di sacerdoti: executive producer, editor, ecc.

    E nessuno, tranne Rialto e pochissimi altri, che abbia il coraggio di dire quanto,

    con le dovute eccezioni che confermano sempre la regola, cinematograficamente sgrammaticato, afasico, quanta approssimazione, vacuità dilaghi nei film italiani; quanto sia forte, anche nei più talentuosi, la contaminazione, l’intreccio fra la tensione al cinema, fra elementi di sperimentazione, di visionarietà, di verità, e la doxa ignorante, volgare, già vista, già sentita, fino all’insopportabilità.

    Del resto, creatività, sperimentazione, talento e intelligenza, che prosperano nel culto della differenza e del fuori norma secondo la definizione di Adriano Aprà, come potrebbero mai avere cittadinanza e affermarsi nel

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