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Il cuore in una bottiglia di birra
Il cuore in una bottiglia di birra
Il cuore in una bottiglia di birra
E-book281 pagine4 ore

Il cuore in una bottiglia di birra

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Info su questo ebook

Giosuè ha appena 19 anni e la sensazione di avere ancora tutto come possibilità. Nell’estate della  maturità, tutto quello che sentiva sicuro ed immodificabile finisce per sgretolarsi, come accartocciato sotto il peso della verità che fin lì non era mai riuscito a vedere davvero. Basterà Lisa, e tutti gli eventi che quel paio d’occhi saranno in grado di suscitare, a stravolgergli l’anima. L’amico di una vita, Matteo, bello e maledettamente perfetto, all’improvviso diventa il rivale. Mamma Rita e papà Leonardo assumono nuove sembianze, svestendosi del ruolo di perfezione che solo i genitori riescono ad indossare agli occhi di un figlio. Sullo sfondo gli amici di sempre, con le loro insicurezze, gli sbagli e la voglia di esserci comunque. L’amore, l’amicizia, il tradimento, l’irrimediabilità della vita e dell’incapacità di orientare gli eventi, faranno esplodere l’estate tra le mani di Giosuè  rovesciandogli l’esistenza. Un percorso, di disillusione e di rinascita, che lo condurrà a nuove consapevolezze e a legami che non sapranno mai spezzarsi. Il cuore in una bottiglia di birra è una storia d’amore e di amicizia, di per sempre e di mai più, di generazioni diverse a confronto che finiranno per riconoscersi.
LinguaItaliano
Data di uscita2 apr 2017
ISBN9788826070636
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    Anteprima del libro

    Il cuore in una bottiglia di birra - Laura Taglioni

    Ringraziamenti

    Il cineforum

    Cinque luglio. Undici e trenta del mattino. Giosuè era appena uscito dall’aula dove aveva intrattenuto per cinquanta minuti occhialuti professori sull’infelicità leopardiana e l’unità d’Italia. I suoi turbamenti da notte prima degli esami si erano volatilizzati d’improvviso. L’eccitazione per l’estate che cominciava davvero si mischiava in modo cinico al senso di vuoto e smarrimento ora che il liceo DANTE smetteva d’essere la sua seconda casa. Via allora i vestiti da studente represso che si sfogava con occupazioni e manifestazioni studentesche tanto per dire c’ero anch’io, Giosuè si sentiva già imprigionato in giacca e cravatta, ventiquattro ore in una mano, giornale nell’altra. Immobile in mezzo a felicità giovanile e ragazze del quarto venute a farsi un’idea dell’esame un anno prima, Giosuè respirò piano cercando di capire quale fosse la prima cosa da fare, perché le tacite tradizioni studentesche andavano rispettate, e se bisognava fare qualcosa, una volta finiti gli esami, lui doveva farla, cazzo se doveva farla.

    Matteo arrivò calmo con la sua camminata inconfondibile, spiccava l’eleganza dei passi tra quelli goffi e insicuri degli altri liceali. Matteo, che aveva finito il giorno prima, aveva già smaltito la momentanea confusione.

    Ehi Giò, com’è andata?, chiese Matteo mentre teneva le mani in tasca ai pantaloni gualciti in tono alla maglietta. Giosuè si sentì subito sollevato nel vedere finalmente un volto amico; infatti, il corridoio strabordava di quella gente che Matteo e Giosuè avevano evitato per tutto il periodo del liceo: i super pettinati, i super firmati, i super lecchini. Numerosi e ben riconoscibili, giravano in plotoni capeggiati da un capo solitamente dedito alla lettura dei classici, all’equitazione e allo studio del pianoforte. Insomma, tipi che mangiavano la frutta con coltello e forchetta. In realtà Giosuè si sentiva parecchio in colpa nel tenere a distanza un determinato gruppo di persone, in un certo senso metteva in pratica una forma di razzismo, e giacché n'era consapevole, si era ripromesso mille volte di instaurare un rapporto con il gruppo della prima fila ma, ogni volta, ogni suo buon proposito si era sciolto irrimediabilmente di fronte a frasi tipo: Se la cena di classe la fate in quelle bettole dove vi andate a ubriacare noi non veniamo, anzi, organizzeremo una contro cena e vedremo dove andranno i professori.

    Erano in quei momenti della vita di classe che Giò sentiva che lui e i super pettinati non sarebbero mai diventati amici. Ora, però, era lì Matteo, suo compagno di banco ma non solo; compagno di fughe dalla scuola e da casa per ore di treno verso concerti imperdibili. In quei viaggi avevano consolidato la loro amicizia, si erano sentiti grandi e indipendenti e avevano finto, ogni volta in quei giorni, di credere che il destino della loro vita dipendesse davvero soltanto da loro. Sapevano bene che non era così, perché al volere e al potere di qualcuno si sarebbero dovuti piegare. Durante le loro fughe, però, fingevano d’essere liberi davvero, di una libertà adolescenziale che bisognava sforzarsi di portarla dentro perché da adulti non si può più provare: si sanno troppe cose da adulti!

    Giosuè con tono tranquillo, mentre estraeva dalla tasca davanti dello zaino una sigaretta, lo rassicurò: Tutto ok! Senza gloria, ma tutto ok.

    Giosuè ancora parlava, mentre avevano cominciato a camminare lungo il corridoio. Le espressioni dei loro volti erano miste tra quelle che si potevano scorgere a un corteo funebre e quelle che si vedevano all’entrata di una discoteca. Si godevano il fumo cattivo nei polmoni mentre lenti sfilavano lungo le vetrate, poi a destra e poi giù per le scale. Un’ultima occhiata al bagno, luogo d’innumerevoli sofferenze prima delle interrogazioni di storia e filosofia, luogo strategico dove nascondersi la prima ora e soprattutto, ufficio d’incontro per gli alternativi della scuola durante l’ora di religione per, ivi, prendere decisioni d’importanza enorme: da chi farsi passare il compito di matematica.

    Fuori il liceo Dante, la confusione di un giorno qualunque. Tutto procedeva lento accompagnato dai suoni di sempre, anche i colori, agli occhi di Giosuè, non sembravano mutati. Pochi passi e finalmente si erano lasciati alle spalle il gran portone e con quei pochi passi, senza rendersene conto, stavano dividendo la loro vita in due parti: finiva il tempo del liceo e cominciava un’altra storia.

    Dopo pochi minuti erano già seduti a un tavolo del Break dove erano soliti incontrarsi con il resto della combriccola. Il locale era un posto dai due volti: di mattina un bar, la sera una via di mezzo tra pub e locale alternativo. Lì, Giò, Matteo, Lillo, Libero (che malediva il suo nome poiché, da quando la saga della famiglia Martini imperversava con successo ogni domenica sera in TV, nessuno si risparmiava di chiamarlo nonno Libero) e Cristian, avevano passato più della metà dell’adolescenza. Inutile dire che era quello il luogo designato come punto di base post-sega, ed era sempre quello il posto in cui ci si rifugiava dopo uno scontro generazionale (così lo chiamavano gli esperti) tra genitori e figlio, ed era quello il posto in cui si era iniziato a fumare e a bere (sbronze epiche erano racchiuse tra quelle mura) e a parlare di ragazze, in toni più o meno coloriti, ma anche di quello che avevano dentro, raccontandosi, teneramente imbarazzati, i loro sogni. Quel posto ognuno di loro lo sentiva un po’ suo. Il Break apparteneva a Paolo, il fratello di Lillo, che lo aveva comprato da cinque anni: prima c’era un bar pasticceria.

    Giosuè e gli altri avevano partecipato nel tempo per renderlo il più accogliente possibile. Giò, Cristian e Libero avevano dipinto i muri di così tanti colori che la vista a volte n’era infastidita. Matteo aveva adornato i muri e piccoli angoli d’oggetti da lui stesso creati: quadri, sculture, sedie e tutto fatto con cera, tappi e moltissimo altro materiale. Lillo aveva scandagliato in posti al limite della decenza pur di trovare oggetti davvero di tendenza da mettere nei punti strategici; ma la vera opera d’arte, realizzata con lo sforzo di tutti e cinque, era il bagno delle donne. Finti petali di rose a cascata lungo le pareti, l’effetto sembrava reale poiché i suddetti petali erano stati lì applicati, senza alcuna cognizione, quando la vernice era ancora fresca. Frammenti di uno specchio animavano il soffitto e una luce rosa terminava l’opera. Quando il bagno vide la sua inaugurazione, per giorni furono turbati al pensiero che, in quell’eden lussureggiante, piccole donne si tiravano su la gonna, si aggiustavano le calze e si spalmavano il rossetto sulle labbra ancora giovani.

    Giò aveva fatto planare la borsa sul divanetto vicino la TV ferma su MTV al ritmo degli U2 che, dal tetto di un palazzo, inneggiavano a posti dove le strade non avevano un nome.

    In pochi istanti arrivò Matteo con due birre: Si brinda alla fine di questa cazzo di scuola!, aveva detto poggiando le due bottiglie sul tavolo.

    Brindisi, bevuta.

    Giò si fece improvvisamente serio e chiese a Matteo: Pensi che la vita fuori dalla scuola ci renderà diversi da come siamo in questo istante e ci cambierà tanto da farci perdere? Credi che resteremo amici?

    Matteo si chinò verso il tavolo poggiandoci i gomiti, guardò Giò e poi dopo un istante di silenzio, come quello che precede sempre una gran rivelazione, disse:

    Senti Giò, ti ricordi la scorsa estate quando qui dentro hai organizzato quel cineforum durante il periodo di chiusura e per dieci sere hai proiettato film, cercando di coinvolgere più gente possibile?

    E chi se lo scorda! Non veniva mai nessuno! I dibattiti post-film, però, sono stati motivo di mio grande orgoglio!

    Ti ricordi l’ultima sera quando hai proiettato –Il cielo sopra Berlino-?

    Sì, ovvio!

    Bene, quella sera venne solo la Prof. d'italiano, la De Crescenzo! Solo e soltanto lei! E Lillo dopo dieci minuti già dormiva!

    La De Crescenzo! Un mito di donna! Ma che c’entra con quello che ti ho chiesto?

    C’entra, perché ti eri impegnato per quel cineforum ma è stato un fiasco! Quello che ti voglio dire è che anche se credi enormemente in una cosa, non puoi essere certo che andrà come ti sei immaginato. Noi due tenteremo di restare amici ma la vita è così strana che non si può sapere se ci riusciremo! Potremmo perderci perché distanti, per vite diverse, per mille altri motivi.

    Io non credo sia proprio così, perché se fosse così, me ne resterei fermo qui ad aspettare per vivere, perché tanto non c’è un emerito cazzo o situazione su cui io possa influire!

    No, no, no! Non voglio dire questo, ma credimi, l’impegno che puoi mettere nelle cose non ti garantisce niente! Io sono uno che crede fermamente che si raccoglie quello che si semina, ma ci sono cose su cui davvero non possiamo influire!.

    Allora speriamo che la nostra amicizia non sia una di queste cose, esclamò Giò.

    Però ti ricordi le risate che ci siamo fatti l’ultima sera del tuo cineforum? riprese Matteo con tono nostalgico, ti ricordi che abbiamo convinto la De Crescenzo a restare con noi e dopo averla fatta bere, ha cominciato a sparlare della Manna e di quel tipo che l’aveva lasciata cinque giorni prima del matrimonio?

    Giò rideva, in preda ai ricordi proseguì il racconto di Matteo:

    Che serata! Io mi ricordo che alle sei di mattina l’abbiamo dovuta accompagnare a braccio a casa e quando ce ne stavamo andando, continuava a dire –Latino (surname di Giosuè), complimenti davvero, un gran bel cineforum!-, noi eravamo per le scale e lei continuava a gridare: -Latino davvero carina quest’idea estiva del cineforum! Latino bravo davvero!- e Lillo, ubriaco perso, che dal portone le rispondeva prendendosi parte del merito! Che notte quella! Chissà che fine ha fatto la De Crescenzo? Mi fa una tristezza che oltre tutti i problemi che aveva l’hanno pure trasferita. Era proprio una brava donna! Mi ha prestato un casino di libri: una specie di libreria umana!

    Le cose come queste, che abbiamo condiviso insieme, ci resteranno sempre, comunque vada! aveva concluso Matteo. Giò lo ammirava per questa sua capacità di rispondere a qualsiasi domanda, di tirare fuori da qualunque situazione un’indicazione, un insegnamento. Ogni cosa che usciva dalla bocca di Matteo aveva per Giò il sapore di una massima di vita. Le sembianze del bello e maledetto di Matteo erano note a tutti. Megafono di diffusione della sua immagine era stato il gruppo in cui suonava: I FUSION. Voce e chitarrista di talento del gruppo, n’era anche il leader indiscusso. Matteo era sempre circondato da stuoli di ragazzine eccitate. Aveva avuto diverse storie con ragazze più grandi di lui, ma non ne parlava e non se ne vantava mai. A Giò non aveva mai pesato il fascino naturale di Matteo, anche perché lui ne traeva vantaggio in modo riflesso, era pur sempre il suo migliore amico e questo lo facilitava non poco con le ragazze.

    La conversazione scivolava via lenta. Il posacenere, già usato, era ormai saturo di cicche. Paolo, con il suo metro e novanta di muscoli che gli grondavano fuori della maglietta aderente, si era avvicinato lento con il fascino di una star del cinema. Con la sua voce dal tono inequivocabilmente già adulto, chiese:

    Ehi Giò, come è andato l’orale?

    Giosuè, che già aveva dimenticato di aver scritto da poco più di un’ora il suo nome nell’albo dei maturi, rispose con voce roca per sostenere il confronto: Senza infamia e senza lode!

    Le birre le offro io oggi!, rispose Paolo con il tono del padre premuroso che premia i figli meritevoli, mentre con una mano dimostrava la sua approvazione con una pacca sulla spalla di Giò. Sorrise forzatamente Giosuè, perché certi segni d’affetto non li sopportava, il suo corpo magro preferiva una stretta di mano da maschi. Giò aveva una corporatura piuttosto esile, pur essendo abbastanza alto. I capelli scuri e corti, sconvolti da gelatina sparsa a caso, incorniciavano un volto dai lineamenti delicati. Di sicuro il suo aspetto era lontano anni luce da quello del maschio latino, soltanto il suo cognome lo legava al termine. Naturalmente il suo aspetto da bravo bambino si accentuava a dismisura quando era vicino a Paolo. In effetti, sia per lui sia per gli altri, il padrone muscoloso del Break, era sempre stato un punto di riferimento, una specie di semidio da imitare. L’adorazione per Paolo si era affievolita nel tempo, era invece fortissima durante il biennio. Quelli erano gli anni in cui gli approcci con l’altro sesso erano difficili e faticosi, così nei momenti di svolta si passava da Paolo per farsi dare le dritte giuste al caso. Passato il periodo dell’apprendimento, le ragazze erano diventate il centro motore del loro micro-universo, facendo perdere posti, nella scala d’importanza, ai fumetti e al calcetto. MTV continuava a trasmettere video a raffica, mentre il Break si era andato riempiendo. Un’altra birra a testa era scivolata giù per la gola come uno slittino sul ghiaccio.

    Arrivò Cristian, che aveva frequentato sempre di meno il gruppo da quando, sei mesi or sono, aveva occupato il posto principale nel cuore di Aurora, tipetta niente male del quarto C. Aldilà del gradevole aspetto fisico, quest’Aurora però, non aveva niente di speciale, né un carattere importante, mancanza perdonabile a tipe di una bellezza superiore, né una gran simpatia. Nell’ultimo periodo permetteva sempre meno a Cristian di frequentare il Break, per questo la combriccola non la sopportava molto, ma tutti fingevano il contrario per non dispiacere Cristian.

    Erano giunti anche Lillo e Libero ad animare la conversazione. Lì, come milioni di altre volte, ma questa volta maturi. I cinque parlottavano di come tutto il piano per il passaggio del compito di matematica non fosse stato messo in atto, quando Giò si accorse che le lancette dell’orologio segnavano minacciose l’una e un quarto.

    Raccolse il suo zaino, mise in tasca le sigarette, salutò tutti informandosi sul da farsi per la serata e sgusciò fuori proprio mentre Carlotta, entrava con una non identificata ragazza dai lunghi capelli nocciola, occhi verdi e labbra carnose. Il saluto veloce non permise presentazione alcuna. La vespa color salmone attendeva il suo padrone. Pochi istanti e Giò era già sulla strada verso casa.

    L’una e trenta. Giò rientrava a casa maturo. La grande sala vuota, la TV accesa, finestre aperte lasciavano vedere le altre case di quel quartiere bene.

    Con passo felpato si diresse verso la cucina. Arrivò sua madre confusa, con i capelli sconvolti.

    Tua sorella mi manderà in manicomio! gridò la signora Rita, dallo sguardo ancora giovane ma negli ultimi tempi triste.

    Che cosa ha combinato Martina stavolta?, chiese Giò più per cortesia che per reale interesse.

    Tu dimmi se è normale che una a sedici anni voglia andare in vacanza da sola?, urlò la donna dagli occhi tristi.

    Io a diciassette anni sono stato in Inghilterra.

    Con questa frase Giò tentò di essere il più diplomatico possibile, non si doveva mai prendere posizione in certe faccende.

    Ma che c'entra Giosuè? Tu sei andato in un college con mezza classe e la tua Professoressa d’inglese!

    Chissà perché a Giò sembrava che sua madre fosse riuscita a smantellare il ricordo della prima vacanza da solo. Soltanto i genitori possiedono certi tipi di facoltà.

    Ma scusami…non ti ho nemmeno chiesto com’è andata stamattina!, sembrava davvero pentita per la dimenticanza.

    No problem!, la rassicurò Giò con un sorriso disarmante.

    Iniziò a raccontarle le domande che gli avevano fatto, come aveva risposto e via dicendo, fino a quando, lei, gli si avvicinò d’improvviso alla faccia con l’espressione da investigatore provetto.

    Tu hai fumato, bevuto e cos’altro? disse con un tono per niente comprensivo.

    Ma nooooo! si affrettò a dire, con tono rassicurante, Giò.

    Tu mi credi proprio una sprovveduta hehe? Una di quelle madri con il grembiule che credono a tutto quello che le dicono figli e marito? disse con tono alterato la signora Rita, con le mani poggiate sui fianchi.

    A Giò sembrò che quella frase non fosse indirizzata soltanto a lui, anzi in quel momento gli sembrò indirizzata a tutti i figli e i mariti del mondo. Lo squillo del telefono giunse in suo aiuto come nei film, esattamente al momento giusto. Sua madre si allontanò dirigendosi verso il telefono, ma aggiunse una frase: Poi ne riparliamo! in sostanza una condanna a morte solo rimandata. Il che era anche peggio, perché per almeno una settimana avrebbe vissuto sulle spine sperando che nessuno si fosse ricordato di riprendere un certo discorsetto.

    Quel giorno Giò pranzò con i suoi, Martina e il mini brother Samuele di otto anni. Suo padre Leonardo era un architetto dall’aspetto affascinante e dal tono di voce grave.

    Giò vedeva in lui una specie di metro d’ogni cosa. Si lasciava schiacciare in modo impotente dai suoi atteggiamenti e opinioni. Anche quando si riprometteva di non permettere a suo padre di vincolarlo, alla fine non ci riusciva. Aveva un inspiegabile bisogno di non contraddirlo, di assecondarlo.

    Giosuè, goditi questi giorni di vacanza e poi comincia a informarti per il test d’ingresso ad architettura. Disse l’architetto Leo. Più che un consiglio sembrava un ordine. Giò provò a reagire con tono dimesso dicendo: Papa’, io non voglio fare l’architetto ma il giornalista!

    Il tono sembrava abbastanza convincente.

    Io parlo di cose serie non di sogni! Sai quanti pagherebbero per essere al tuo posto! Hai uno studio già avviato alle spalle: cosa altro potresti volere?, sentenziò suo padre.

    Io voglio fare il giornalista!, e mentre Giò diceva queste esatte parole, pensò, ascoltandosi, d’averla detta proprio bene quella frase: giusta la voce, giusti i tempi. Evidentemente toni e tempi non interessavano poi molto a suo padre, che alzando la voce disse: Rita! Abbiamo partorito dei sognatori! Giosuè vuole fare il giornalista! Martina vuole andare al mare con le sue amiche! Samuele che vuole? La macchina a otto anni? Siamo impazziti? E’ tutta colpa mia! Vi ho detto troppe volte di sì! Ma da oggi è arrivato il momento di cambiare musica in questa casa!

    Giosuè lo ascoltava senza troppo trasporto. Negli ultimi tempi l’ammirazione per suo padre si era parecchio affievolita. Ora che cercava di convincerlo a condizionare tutta la vita che lo attendeva grazie ad una sua imposizione, si sentì, per la prima volta, legittimato a non ascoltarlo. Il pranzo proseguiva e con esso la ramanzina del signor Latino che, inferocito, aveva inanellato una serie di frasi comuni ai padri di mezza Italia, tipo: Io vado a lavorare per voi/Questa casa non è un albergo/Voi giovani non avete i piedi per terra/Vi ho dato troppo…

    Giosuè si chiedeva cosa lo trattenesse dal suicidio. Uno di quelli ad arte; spettacolari perché inspiegabili e improvvisi. Uno di quelli che scrivevano sui giornali nelle pagine di cronaca; poi al TG intervistano i tuoi amici e tutti si chiedono perché l’avevi fatto dicendo: Aveva tutto oppure Non ha mai mostrato segni d’insofferenza. Giosuè concluse che era meglio vivere e risparmiare questo strazio a tutti quei liceali che, tornati a casa da scuola, dovevano sorbirsi il TG delle tredici, con le madri che, quando sentivano parlare di droghe leggere, guardavano i figli. D’alcol, guardavano i figli. Di profilattici, guardavano i figli. Di suicidio e guardavano i figli che, a quel punto, avrebbero avuto tutti i sacrosanti motivi di farci un pensierino. Era meglio non diventare un pezzo di quella catena che avrebbe potuto dimezzare gli adolescenti dello stivale. Se li immaginava tutti gli altri diciannovenni d’Italia. Seduti a tavola a sorbirsi, in modo del tutto distaccato, la sua stessa ramanzina, tra un piatto di pasta e un bastoncino Findus. Almeno aveva la consolazione di sapere d’essere solo uno dei tanti a dover sopportare i discorsi confezionati e stantii dei quasi cinquantenni. Giò si chiedeva: Le parole che usano i genitori sono uguali ovunque?

    Poteva essere! Pittoresca l’idea di un giapponese che, dall’altra parte del mondo, si stava scassando le palle esattamente come lui. Quando riuscì ad uscire da tutti quegli improduttivi pensieri, Giò si accorse che sua madre era silenziosa e assente. Avrebbe pagato oro pur di sapere cosa le stesse passando in testa. Forse pensava a quello che avrebbe voluto fare e non aveva mai fatto. In quel momento la sentì vicina. Come quando, da bambino, lo abbracciava dopo aver pianto. Quella vicinanza con sua madre gli sembrò bellissima perché improvvisa. Si convinse che non valeva la pena continuare a discutere con suo padre. Temeva di perdere quella magica sensazione che, invece, voleva trattenere il più a lungo possibile: e così rimase in silenzio.

    Il tema dell’università riaffiorò, inevitabilmente, nelle settimane successive. Il tono delle discussioni fu, in linea generale, il medesimo. A Giò sembrava che l’inizio dell’estate, che sarebbe dovuta essere la più bella della sua vita, non promettesse niente di buono.

    Nessuna realtà avrebbe poi coinciso con l’immaginazione.

    L’estate sfilava via senza lasciare traccia di sé

    Quel cinque luglio era sfilato via veloce. All’esile Giò sembrava

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