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Isabel voleva vivere
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E-book625 pagine7 ore

Isabel voleva vivere

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Info su questo ebook

La storia dell'amore, del coraggio e della sensibilità di Isabel, una ragazza a cui la sindrome di Edwards ha donato alla sua vita una percezione speciale del mondo sensibile, e di Sabrina, madre coraggio che la ama come la sua vita. Storie intense e drammatiche sullo sfondo dell'atmosfera della clinica The Life Tree di Londra dedita alla cura di creature speciali come Isabel e del dramma del traffico di organi di bambini abortiti ad opera di un noto gruppo di cliniche americane.
LinguaItaliano
Data di uscita5 apr 2017
ISBN9788892656611
Isabel voleva vivere

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    Anteprima del libro

    Isabel voleva vivere - Andrea Caselli

    Capitolo 1……………………………………………………………………………………………..pag.4

    Capitolo 2……………………………………………………………………………………………..pag.8

    Capitolo 3………………………………………………………………………………………… ...pag.17

    Capitolo 4………………………………………………………………………………………… ...pag.21

    Capitolo 5………………………………………………………………………………………… ...pag.25

    Capitolo 6……………………………………………………………………………………………pag.30

    Capitolo 7……………………………………………………………………………………………pag.36

    Capitolo 8……………………………………………………………………………………………pag.41

    Capitolo 9……………………………………………………………………………………………pag.46

    Capitolo10… ………………………………………………………………………………………..pag.50

    Capitolo11………………………………………………………………………………………….. pag.56

    Capitolo12………………………………………………………………………………………….. pag.62

    Capitolo13… ………………………………………………………………………………………..pag.69

    Capitolo 14…………………………………………………………………………………………. pag.73

    Capitolo 15…………………………………………………………………………………………. pag.79

    Capitolo 16…………………………………………………………………………………………. pag.84

    Capitolo 17…………………………………………………………………………………………. pag.89

    Capitolo 18 ………………………………………………………………………………………….pag.94

    Capitolo 19…………………………………………………………………………………………. pag.99

    Capitolo 20………………………………………………………………………………………… pag.104

    Capitolo 21………………………………………………………………………………………… pag.110

    Capitolo 22………………………………………………………………………………………… pag.117

    Capitolo 23………………………………………………………………………………………… pag.124

    Capitolo 24……………………………………………………………………………………….... pag.130

    Capitolo 25……………………………………………………………………………….…………pag.136

    Capitolo 26………………………………………………………………………………………… pag.141

    Capitolo 27… ………………………………………………………………………………………pag.147

    Capitolo 28………………………………………………………………………………………… pag.152

    Capitolo 29................................................................................................................................…….pag.157

    Capitolo 30………………………………………………………………………………………… pag.165

    Capitolo 31………………………………………………………………………………………….pag.170

    Capitolo 32………………………………………………………………………………………….pag.175

    Capitolo 33………………………………………………………………………………………….pag.180

    Capitolo 34………………………………………………………………………………………….pag.187

    Capitolo 35………………………………………………………………………………………….pag.194

    Capitolo 36………………………………………………………………………………………….pag.199

    Capitolo 37…. ……………………………………………………………………………………...pag.204

    Capitolo 38… ………………………………………………………………………………………pag.209

    Capitolo 39………………………………………………………………………………………… pag.216

    Capitolo 40… ……………………………………………………………………………………....pag.221

    Capitolo 41………………………………………………………………………………………… pag.225

    Capitolo 42………………………………………………………………………………………… pag.234

    Capitolo 43………………………………………………………………………………………… pag.239

    Capitolo 44………………………………………………………………………………………… pag.244

    Capitolo 45… ………………………………………………………………………………………pag.248

    Capitolo 46………………………………………………………………………………………… pag.253

    Capitolo 47………………………………………………………………………………………… pag.259

    Capitolo 48………………………………………………………………………………………….pag.268

    Capitolo 49… ………………………………………………………………………………………pag.273

    Capitolo 50……………………………………………………………………………………….... pag.278

    Capitolo 51………………………………………………………………………………………… pag.284

    Capitolo 52………………………………………………………………………………………… pag.290

    Capitolo 53………………………………………………………………………………………… pag.305

    Capitolo 54………………………………………………………………………………………… pag.309

    Capitolo 55… ………………………………………………………………………………………pag.313

    Andrea Caselli

    isabel voleva vivere

    Per te, Isabel

                                                                                              Per come ti ho conosciuta

                                                                                          Per come a me ti sei rivelata.

                                                                                  I

    La tua pelle. Il tuo io, il tuo confine. La nostra zona di contatto.

    Ciò con cui più in te io entro e ti abbraccio.

    Il profumo del tuo corpo, la tua guancia contro la mia…

    Adoro il tocco delle tue mani. Tenero come l’abbraccio del liquido con cui ti avvolgevo, mentre crescevi dentro di me…

    Ti amo, figlia mia.

    Le dita della ragazza fecero una leggera pressione sulle spalle della mamma.

    E ora… cosa vuoi dirmi? Sono qua…

    Sabrina allontanò delicatamente il suo viso da quello della figlia, e delicatamente allentò il suo abbraccio.

    Poi, coi suoi grandi occhi azzurri, velati dalla gioia, osservò a lungo quelli di Isabel.

    Grandi come i suoi. E dello stesso colore.

    Si appoggiò ai braccioli della carrozzina anche lei.

    Sorridevano entrambe, sposandosi nell’anima attraverso le pupille.

    Sabrina continuava a osservare il viso di sua figlia. I suoi capelli biondi ben curati, i suoi lineamenti un po’ particolari. I residui della plastica al naso che le avevano permesso l’introduzione di una cannula per la terapia continua con l’ossigeno. Il suo sorriso delicato, sempre vivo e gioioso.

    E quei grandi occhi azzurri, uguali ai suoi.

    Sei lo specchio della mia anima.

    Sabrina appoggiò una mano sul petto della figlia.

    Chiuse gli occhi.

    Assaporava il battito del suo cuore.

    Un po’ diverso da quello di un cuore comune, un po’ accelerato, ma regolare, cadenzato.

    Non pareva per nulla affaticato.

    Una lacrima di gioia le scese dal viso.

    E il pensiero andò come sempre al chirurgo che le aveva salvato la vita subito dopo la sua nascita.

    L’unico che non aveva voluto lasciarla morire, operandola d’urgenza per correggerle la stenosi aortica e il difetto del seno atriale che l’avrebbero condannata.

    Isabel mosse delicatamente le mani. Afferrò la cannula multicolore che teneva sempre con sé.

    In fondo alla cannula era montato un piccolo anello.

    Sabrina le aveva insegnato con tanta pazienza ad aprire le mani e a richiuderle. Isabel era nata con l’indice e il mignolo sovrapposti alle altre dita e ci aveva messo diverso tempo prima di imparare ad aprirle.

    Ma ce l’abbiamo fatta… e sei ancora qui.

    La ragazza si portò la cannula alla bocca. Sorrise alla mamma. Sorrise radiosa.

    «Birichina… cosa vuoi dirmi, stavolta?» la incitò scherzosamente la mamma.

    Isabel iniziò a soffiare nella cannula. Piccole variopinte bolle di sapone iniziarono a uscire da quel piccolo anello.

    La mamma iniziò a contare le bolle.

    Una, due, tre…

    Sono nove.I.

    Una piccola pausa, poi Isabel riprese a soffiare nella cannula.

    Una, due, tre…

    Sono dodici. L.

    Un’altra piccola pausa.

    E altre piccole bolle variopinte decorarono il sorriso della ragazza.

    Sono quindici. O

    E Isabel sempre di più sorrideva.

    Quante sono, stavolta. È una V.

    «Fermati… ho capito, ormai…»

    Sabrina strinse forte a sé sua figlia.

    «I love you, mom.»  «Anch’io ti amo. Ti amo tanto, Isabel."

    «Dottor Adams… è tutto a posto, allora?»

    «Sì, Sabrina. Non c’è da preoccuparsi per il momento. Le analisi sono relativamente a posto, la gittata cardiaca è buona e la terapia di supporto sta funzionando. I farmaci stanno tenendo sotto controllo le crisi epilettiche e la saturazione dell’ossigeno è a un buon livello. Certo, come tu sai, io…»

    «… non posso prometterti nulla, certo!» lo interruppe amabilmente la ragazza sorridendo.

    «Andiamo, dottore… sono dodici anni che mi dice che potrebbe morire da qui a tre mesi! E invece le sue condizioni sono molto meno disperate di quelle di tanti altri ospiti di questa clinica, è sempre felice e ha persino imparato a parlare! A modo suo, certo…»

    «Già… incredibile. In più di quarant’anni di professione non mi è mai capitato un caso simile. Nemmeno l’1% dei bambini affetti dalla sindrome di Edwards arriva all’età di Isabel.»

    «Merito di chi l’ha salvata…»

    Il medico annuì con un sorriso.

    «È così, certo… e…»

    «Bene, dottore!» La ragazza si alzò dalla sedia con uno scatto baldanzoso. «Grazie delle belle notizie! Torno da mia figlia, adesso… mi starà aspettando trepidante… siamo tutti nel salone!»

    «Sì... oggi è il compleanno del piccolo Timmy… e Isabel sarà felice di coprirlo con un mare di bolle!»

    Sabrina allargò ancor di più il suo sorriso e scomparve subito dopo oltre la porta dello studio.

    L’anziano medico sospirò sorridendo, pensando a quella ragazza.

    Sabrina…

    Neanche stavolta mi hai  fatto finire di parlare.

    Quanto vorrei riuscire a dirti che è molto più merito tuo se Isabel vive ed è felice… fuggi sempre, non riesco mai a parlarti più di un minuto!

    Si mise a picchiettare lentamente con la sua penna sulla scrivania.

    Non hai permesso che morisse.

    E io… non riesco a pensare che questa clinica non sarebbe la stessa senza il sorriso di Isabel.

    L’anziano medico aprì il cassetto della sua scrivania.

    Ne tirò fuori un piccolo cofanetto intarsiato che aprì con una piccola chiave.

    Era pieno di piccoli biglietti variopinti scritti a mano.

    Colorati... come le tue bolle di sapone…

    Li passò lentamente e affettuosamente tra le dita, leggermente commosso mentre li leggeva.

    Juliette ha fameMarine vuole giocareA Jimmy non piace stare su quella sedia

    Isabel…

    Le parole più belle formate con le tue bolle.

    Non hai mai pensato a te stessa… ti sei sempre occupata degli altri bambini.

    Grazie a tua madre… che ha passato con te ogni istante del suo tempo libero dal lavoro per insegnarti a comunicare con gli altri. Trovando persino il modo più adatto a te per farlo. Un modo unico… come unica sei tu.

    La tua mamma, sì.

    Una ragazza italiana… fuggita qui a Londra per far vivere sua figlia.

    Il profumo del caffè espresso riempiva le loro narici. E il dolce odore dei cornetti alla marmellata appena sfornati guarnivano l’animo di felicità.

    Due amiche stavano facendo colazione al bar Mackie’s in Trafalgar Square.

    La più giovane osservava con morboso interesse lo sguardo della sua amica.

    C’era decisamente nel suo aspetto qualcosa di speciale quella mattina.

    Quei lineamenti così distesi, che nemmeno il trucco più sapiente avrebbe potuto rendere migliori.

    Quella matita così accentuata, il rimmel perfettamente steso sulle ciglia, il rossetto elegante e non troppo acceso.

    Era vestita bene, come sempre. Ma quella mattina emanava un’aura decisamente diversa.

    Chissà a cosa stava pensando per essere così felice. Il suo sguardo cadeva spesso sulla tazzina del caffè, totalmente immerso in pensieri di gioia.

    «Aileen… posso sapere dove ti trovi?»

    «Scusami…» le rispose lei sollevando lo sguardo e accentuando il sorriso.

    Anche Shelley sorrise ancor di più, sotto quel tipico sguardo complice con cui un’amica comunica all’altra di aver pazienza, che non sa se sia il caso di darle ancora la notizia. Quello sguardo complice che già rivela all’altra di quale notizia si tratti.

    «Non sarà stato solo merito di Jimmy stanotte se sei così felice stamattina!» insistette lei provocandola.

    Ammirava con una sorta di invidia la bellezza del viso della sua amica, i suoi curatissimi boccoli castani e i suoi grandi occhi neri. Aveva 34 anni, ma ne dimostrava almeno dieci di meno.

    «Ti assicuro che non ho nulla da dirti» ricevette infine da lei come calma risposta di circostanza, mentre mescolava lo zucchero nel caffè.

    Bevette la sua tazzina, poi la posò delicatamente.

    Infine guardò negli occhi la sua amica.

    «Sarà meglio recarsi al lavoro, adesso!» troncò infine con un altro sorriso.

    Le pratiche non sembravano aumentare a dismisura come al solito, quel giorno. Aileen era invasa da un mare di gioia. Un mare di gioia che era sfociato in uno tsunami di serenità. Nulla la stava toccando, nulla la stava infastidendo. Il telefono squillava in continuazione, ma lei rispondeva sempre con tono pacato ad ogni interlocutore. Il capo passava più volte in ufficio, nevrastenico come sempre, a redarguire i dipendenti, ma lei soprassedeva ai suoi urli.

    Quando arrivò il momento della pausa caffè si scusò con gli altri colleghi e si recò in bagno.

    Prese dalla sua borsetta il necessario per potersi risistemare il trucco dopo svariate ore di lavoro.

    Si osservò il viso.

    Aveva gli occhi di una bambina.

    Poi abbassò lo sguardo.

    Appoggiò una mano sul suo ventre.

    Non avrebbe ancora potuto percepirne i movimenti.

    Ma quelle due strisce comparse nel test quella mattina le avevano fugato ogni dubbio.

    C’era.

    Ed era vivo.

    Lei e Jimmy ce l’avevano fatta, finalmente!

    Si appoggiò alla parete, non riusciva quasi a stare in piedi.

    Si sentiva al colmo della felicità.

    Il figlio che tanto avevano desiderato era infine arrivato.

    Ora deve soltanto andare tutto bene…

    Ma perché mai dovrebbe accadere qualcosa di male? pensò Aileen, esplodendo di felicità.

    Doveva solo trovare il modo di dirglielo.

    Stava pensando a qualcosa di speciale.

    Doveva sbrigarsi a farlo.

    Jimmy non è uno che sa aspettare… e sarà così felice di ricevere la notizia!

    Che diritto ho di togliergli un giorno di felicità in più? Deve saperlo subito… desideravamo entrambi così tanto questo figlio!

    La collega sua amica entrò in quel momento.

    «Allora? Dovrai deciderti a dirmelo…»

    «Sì…» disse Aileen abbracciandola. «Dovrò proprio decidermi a dirtelo, Shelley!!»

    Un rapido sguardo, e l’amica fu contagiata dal suo sorriso. E dalla consapevolezza della notizia.

    Le due amiche si abbracciarono forte.

    Londra. Un formicaio di persone e di auto. Aileen e Shelley stavano recandosi alla metro.

    Iniziarono a scendere le scale lentamente. Aileen indossava stivali a tacchi alti e non poteva camminare velocemente.

    «A lui l’hai detto?»

    «No… ancora no.»

    «Certo, devi decidere tu.»

    «Non ci metterò molto, comunque.»

    «Jimmy sarà al colmo della felicità!»

    «Sì… lo penso anch’io.»

    Le scale erano terminate, la metro stava per arrivare.

    Aileen salutò la sua amica.

    «Grazie per avermi accompagnata fin qui.»

    «Figurati. E… complimenti! Fammi sapere che faccia avrà fatto Jimmy!»

    «Certo…»

    Le due si abbracciarono affettuosamente, mentre il treno era ormai arrivato.

    Il tragitto non era lungo. E Aileen era invasa da un turbinio di emozioni.

    Non voleva attendere ancora.

    Pensava al suo uomo.

    Non aveva veramente il diritto di togliergli nemmeno un’ora di felicità.

    Guardò l’orologio. Le cinque del pomeriggio.

    Avrebbe avuto tutto il tempo.

    Gli preparerò qualcosa di speciale… gli darò la notizia dopo cena!

    Non era quella la fermata per casa.

    Ma Aileen scese proprio lì.

    C’era un centro commerciale vicino.

    Era veramente decisa a preparare a suo marito qualcosa di speciale quella sera.

                                                                                II

    Le arterie dei polsi recise.

    Il sangue esce a fiotti.

    Meno di due minuti e ci sarà lo svenimento.

    E poi la morte.

    Cerca di bloccare il sangue stringendo vicendevolemente i polsi.

    Ma non ci riesce.

    Un rosso acceso.

    Violento come un lampo accecante.

    Panico totale.

    Incoercibile.

    Incontrollabile.

    La gola strozzata e il petto che si schiaccia.

    La consapevolezza improvvisa che il panico ha bloccato il respiro.

    La vista disperata delle proprie mani.

    La morte imminente.

    Poi il corpo fa un improvviso balzo in avanti.

    Il respiro si rianima in un urlo agghiacciante.

    All’improvviso non vide più nulla.

    Gli ci volle quasi un minuto per riprendere consapevolezza.

    Il pigiama inzuppato.

    Il cuore gli faceva male a ogni battito.

    Il suo respiro appena resuscitato era affannato come quello di un neonato malato.

    Infine il tocco familiare del materasso.

    Il buio della sua camera da letto.

    La ricerca disperata dell’interruttore.

    E finalmente la luce.

    «Ray… tutto bene?»

    Quella voce così familiare.

    «Sì, sì… sto bene. Sto bene.»

    Il fruscio delle lenzuola, il suo corpo caldo.

    Sua moglie si era seduta lentamente sul letto.

    «Hai spesso questo incubo.»

    «Perdonami. Non volevo svegliarti.»

    Lei sospirò, passandosi una mano tra i capelli.

    «Almeno… posso sapere di cosa si tratta?»

    «Non lo so.» rispose lui. «Ricordo solo che mi sento soffocare. E ogni volta mi sveglio di soprassalto.»

    «Forse è ora che consulti uno psicologo, Ray.» commentò lei con la voce impastata dal sonno, stendendosi nuovamente sul letto. «Ancora un po’ e dovrò prendere anch’io le pillole per dormire. Sta diventando un incubo anche per me questo tuo stato.»

    Lui rimase a osservarla.

    Dopo pochi minuti aveva già ripreso sonno.

    Poi guardò la sveglia.

    Le due di notte.

    Si alzò dal letto e si recò in bagno.

    Sotto lo scroscio dell’acqua della doccia cercò di lavare via quei pensieri.

    Il commento di sua moglie gli aveva procurato un senso di nausea. Come provava nausea ormai per la sua stessa presenza. Qualcosa di scontato, ormai, quasi dovuto. Nell’intimità con lei pensava alle infermiere con cui lavorava, alle segretarie. O a qualche sua amica. Solo ciò che le fosse dovuto, perché non raccontasse alle amiche che la trascurava a letto. Cosa importava, lo aiutava la fantasia. E non era certamente quella la causa del suo incubo ricorrente.

    Mani sporche di sangue. E le mie arterie radiali recise. Sangue, sempre sangue. Ovunque, dappertutto.

    Ray uscì dalla doccia. Afferrò un’asciugamano e iniziò ad asciugarsi guardandosi allo specchio appannato dai vapori della doccia.

    Stava per emettere un urlo, ma lo soffocò subito dopo.

    Gli era parso di vedere all’improvviso riflessa sullo specchio una macchia di sangue.

    Ma si era reso conto subito dopo che era stato il riflesso del colore rosso di una decorazione delle piastrelle del muro, i cui contorni erano stati resi sfumati dal vapore adeso allo specchio.

    Era stato solo per un attimo, sufficiente tuttavia per aver fatto riprendere al suo cuore un ritmo forsennato.

    Ray asciugò nervosamente lo specchio con l’asciugamano, poi finì di asciugarsi anche lui.

    Infine lasciò cadere l’asciugamano, e appoggiandosi con le mani sul lavabo rimase a osservare il suo volto riflesso.

    Ho una faccia di merda. Mi si sono accentuate le rughe e i capelli si stanno assottigliando. Ho gli occhi più incavati… no, ma che dico? Peso sempre uguale… è il colore scuro che li sta cerchiando che mi dà quest’impressione. Colore scuro… avrò problemi ai reni? No, non può essere! Ho fatto le analisi meno di un mese fa, e stava andando tutto bene…

    Poi guardò l’orologio e si coprì il viso con le mani.

    Le due e un quarto… e anche per stanotte il sonno è fottuto!! Quelle maledette gocce non mi servono proprio a nulla!!

    Non posso andare avanti così!!

    Ormai… ho quasi paura ad addormentarmi.

    Fece due respiri profondi.

    Dai... proviamoci. Domani la giornata sarà lunga… non posso permettermi di non dormire.

    Rientrò in camera da letto.

    Si sdraiò molto lentamente per cercare di non svegliare sua moglie.

    «Buongiorno, Ray!»

    «Buongiorno, Nicole. Cosa abbiamo oggi?»

    «Due raschiamenti, più un aborto di cinque mesi.»

    «Cinque mesi?»

    «Sì…»

    L’infermiera osservò il viso del medico.

    «Ray… tutto bene?»

    Lui ci mise qualche istante a rispondere.

    «Sì. Sì… certo.»

    «Sei sicuro? Sembra che tu abbia passato la notte in bianco.»

    «Non preoccuparti… può capitare. Ascolta… abbiamo disposizioni particolari per quello di cinque mesi?»

    L’infermiera trovò quella domanda piuttosto insolita. Tuttavia rispose.

    «No… solito protocollo.»

    «Già…» commentò Ray. «Il protocollo».

    «Ray… sei sicuro di stare bene?»

    «Nicole… stai tranquilla, per favore. Ho solo avuto una nottataccia. Sarò pronto tra venti minuti.»

    «Ciao, Ray! Come stai?»

    «Tutto a posto, Neil!» rispose il medico salutando con falsa contentezza il suo collega, mentre si stavano preparando per entrare in sala operatoria. I loro visi erano coperti da mascherina e occhiali protettivi, e Ray era contento di poter così occultare la stanchezza tradita dal suo viso. «Ma dimmi… per chi sono quei fiori col nastro rosa che ho visto nel nostro stanzino?»

    «Non te l’hanno detto? Già, ieri hai avuto il giorno libero. Non hai aperto Facebook?»

    «No… ho avuto parecchio da fare, non ho guardato nemmeno la chat.» Ho la nausea di tutti voi ormai.

    «Immagino… comunque avresti trovato scritto che Connie ha partorito l’altro ieri notte! Ha mandato quei fiori per annunciarlo ai colleghi!»

    «Ah!» commentò Ray. «Congratulazioni! Quanti ne hai stamattina?»

    «Sei, tutti sotto i tre mesi.»

    Buoni per l’industria cosmetica…«Okay, buon lavoro allora! Ci si vede tra un paio d’ore per il caffè!»

    «Buon lavoro anche a te!»

    Connie. Così è nata tua figlia.

    «Nicole… qui devo dilatare di più.»

    «Certo, Ray… tieni.»

    «Tutto a posto, Sharon?»

    «Certo, ti preoccupi?» gli chiese ironicamente l’anestesista.

    Il medico non rispose, e posizionò delicatamente il dilatatore.

    «Sei proprio diventato fobico, Ray…» lo provocò lei senza intenzioni offensive.

    Lui però ostentò un improvviso nervosismo a quelle parole.

    «Fobico? Scherza poco, Sharon. Hai dimenticato quello che è successo sei mesi fa?»

    «Il caso di Terry? È stata una disgrazia, Ray. Ficcatelo in testa una volta per tutte e mettiti l’animo in pace. Come abbiamo fatto tutti noi. Sei l’unico che ancora ogni tanto la nomina… e l’unico che si ricorda che è successo sei mesi fa.»

    «Già…» ghignò lui per nulla soddisfatto della risposta della sua collega.

    L’infermiera gli passò la curette e tenne pronto l’aspiratore e le garze impregnate di coagulante.

    Lui si fermò per un istante.

    Teneva lo sguardo fisso su quella curette.

    Hai una figlia adesso, Connie.

    Abbozzò un sorriso ironico celato dalla mascherina.

    Nicole teneva in mano quel ferro attendendo che lui lo prendesse.

    La collega con cui lavoro meglio… con cui ho fatto tante di queste performances…

    Voltò lo sguardo verso la cervice uterina.

    Tra pochi istanti avrebbe affondato lo strumento. Sarebbe uscito il liquido. Poi avrebbe raschiato delicatamente l’utero. Un lavoro di pochi minuti. Ne aveva fatti tanti.

    Sarai felice, adesso.

    Non poteva vedere il viso della ragazza stesa sul lettino.

    Stava dormendo.

    Poteva immaginare i suoi occhi chiusi, il tubo rugato che le usciva dalla bocca.

    Quegli occhi chiusi, sì.

    Quell’apparente sospensione tra la vita e la morte che aveva notato tante volte nelle persone addormentate artificialmente dall’anestesia.

    Quasi sospese… tra la vita e la morte.

    Ray afferrò la curette.

    La osservò ancora per un istante.

    Poi osservò nuovamente la cervice uterina.

    Tra la vita…

    Infine vi affondò la curette.

    E la morte…

    Nicole prontamente asciugava il liquido che fuoriusciva.

    Prima limpido, poi sempre più rosso a mano a mano che Ray continuava a raschiare delicatamente la parete dell’utero.

    Doveva fare molta attenzione, una pressione eccessiva avrebbe potuto rovinarne le pareti, provocare lacerazioni interne. Quella ragazza avrebbe rischiato di non poter avere altri figli.

    Poi Nicole gettò nell’apposito contenitore le garze impregnate di sangue, tessuti maciullati e liquido amniotico, e passò il tubo dell’aspiratore a Ray.

    La ragazza venne portata via ancora addormentata.

    Ray distolse lo sguardo da lei.

    Andò subito a lavarsi e a cambiarsi il camice e i guanti.

    «Ora inizia a contare da 100. 99, 98…»

    La ragazza seguì l’anestesista.

    «…97, 96, 95..94…93……92….»

    « È andata, Ray.»

    Il medico la osservò per un momento.

    «Ma quanti anni ha?»

    «13 anni.»

    Ray si mise al suo posto.

    «Cominciamo, dai.»

    L’infermiera lo osservava. Aveva lavorato tanto assieme a lui.

    E gli voleva bene.

    Quel giorno si era accorta che c’era qualcosa che lo tormentava più del solito.

    Osservava i suoi movimenti. A tratti pareva calmo, a tratti più nervoso.

    Aveva chiesto quanti anni avesse quella ragazza.

    Non l’aveva mai fatto prima.

    «L’aspiratore, Nicole.»

    Nemmeno questo era da lui. Si erano sempre capiti con lo sguardo, non c’era mai stato bisogno di parlare. E ancora non gli serviva l’aspiratore. Stava ancora terminando le fasi preliminari dell’intervento.

    Ray era concentrato, meticoloso.

    13 anni…

    Andarti a rovinare alla tua età…

    La mascherina non riusciva a coprire quell’odore. Quell’odore particolare impossibile da dimenticare, l’odore del corpo maciullato di un feto abortito.

    Hai tutta la vita davanti…

    Il feto veniva fuori a pezzi.

    Ancora tanta strada da fare… ti avrebbero riso tutti dietro…

    Troppo devi studiare ancora…

    Le gambe, l’addome, il torace. Ray frantumava il bambino e lo tirava fuori a pezzi.

    Perché hai aspettato così tanto? Già… non hai avuto il coraggio di dirlo ai tuoi genitori. Avevi troppa paura di come avrebbero reagito.

    Come minimo ti avranno fissato l’appuntamento dopo cinque minuti che l’avranno saputo…

    Ti avranno presa per mano… e portata qui…

    Un braccio con una minuscola manina comparve sulla pinza ad anelli.

    Ti avranno presa per mano…

    Tre bolle… C

    Ora otto… H

    Michelle!

    «Certo, Isabel! Andiamo subito da Michelle!"

    Sabrina afferrò i braccioli della carrozzina e uscì dalla stanza assieme a sua figlia.

    Michelle era la sua migliore amica, amava tanto giocare assieme a lei.

    C’era il sole quel giorno, e i raggi di luce accendevano il colore biondo chiaro dei capelli di Isabel.

    La mamma spingeva velocemente la sua carozzina, e ai lati del corridoio scorrevano le stanze dei bambini ospiti della clinica del dr. Hushley Adams, ex primario della divisione di pediatria del Central Hospital di Londra e attuale presidente della fondazione The Life Tree, dedicata alla cura dei bambini affetti da anomalie cromosomiche, che offriva loro sostegno affettivo e cure mediche di ogni tipo.

    La clinica comprendeva tre settori principali; Isabel era stata curata in ognuno di essi.

    Sabrina aveva voluto che vivesse a tutti i costi, e per questo si era trovata costretta a fuggire dalla sua famiglia di origine, che l’aveva spinta a tutti i costi ad abortire.

    Il padre l’aveva accompagnata a forza in ospedale, ma con la complicità di un’amica era riuscita a fuggire e si era rifugiata a Londra, svolgendo i lavori più disparati per sopravvivere.

    Aveva vissuto con immenso amore e tra mille difficoltà l’avventura di quella gravidanza dopo essere stata abbandonata dal suo ragazzo, che nonostante mille promesse di amore eterno, non aveva poi nascosto il suo desiderio di liberarsi di una figlia che all’esame dei villi coriali non era risultata in linea con le sue aspettative.

    Ma Sabrina amava sua figlia, e aveva voluto che vivesse.

    Ad ogni costo.

    Sapendo che l’anomalia cromosomica che la affliggeva non le avrebbe consentito di vivere che per poco tempo al di fuori dell’utero, ammesso che non fosse morta prima, cercò disperatamente aiuto per sapere cosa fosse possibile fare.

    Dopo essersi vista sbattere la porta in faccia da ogni medico che aveva consultato, una sera, mentre stava attendendo tra le lacrime l’autobus che l’ avrebbe riportata all’appartamento che condivideva con altre tre ragazze, vide una locandina appesa sul palo della fermata.

    Si appuntò sul cellulare quel numero che chiamò quella sera stessa.

    Conobbe così la clinica The Life Tree e il dottor Adams, che la accolse subito come se fosse stata una sua nipote.

    Adams non gli nascose la gravità della sua situazione clinica e attivò subito le sue numerose conoscenze in cerca di un chirurgo disposto a sobbarcarsi un’impresa così ad alto rischio.

    Isabel stava ormai per venire alla luce, e sarebbe nata con una grave insufficienza respiratoria e ben due malformazioni cardiache. Un polmone era poco sviluppato e l’altro quasi assente; il cuore presentava un’anomalia del setto atriale e una grave eclampsia aortica. Lo sforzo che quel cuore, già compromesso, avrebbe dovuto sopportare per poter pompare al cervello il poco ossigeno che l’unico polmone funzionante di Isabel sarebbe stato in grado di portare in circolo, lo avrebbe sconfitto in poche ore.

    Occorreva agire quanto prima.

    Adams mantenne Sabrina nella clinica di un suo amico un mese prima che la bambina nascesse, perché non facesse sforzi eccessivi e curasse al massimo la sua salute. Tramite le sue numerose conoscenze non avrebbe avuto problemi a trovarle un lavoro dopo che si fosse ristabilita. Nel frattempo, consultati numerosi chirurghi, decise che per Isabel non c’era altro modo per sopravvivere che entrare in sala operatoria subito dopo il parto.

    Quel giorno Sabrina fece appena in tempo a riprendersi dal dolore del parto e a dare un bacio a sua figlia tra le lacrime, mentre veniva portata urgentemente in sala operatoria, dopo essere stata subito intubata.

    Il suo corpicino era già in sofferenza quando il dottor Jonathan Christy, giovane cardiochirurgo, affondò il bisturi nel petto della bambina.

    L’anestesista sudava a litri, concentrato a monitorare continuamente lo stato della bambina. Una volta che quel minuscolo cuore fu separato dal circolo e collegato al cuore artificiale, tutti tirarono un sospiro di sollievo.

    Christy aveva fatto creare dei microbisturi appositi per il cuore di Isabel, dopo averlo studiato minuziosamente nelle immagini tridimensionali delle risonanze magnetiche. Si era reso conto che gli strumenti tradizionali non avrebbero potuto servire allo scopo. Allo stesso modo aveva studiato il materiale biocompatibile con cui avrebbe eseguito la plastica al cuore della piccola, che avrebbe poi reintrodotto nel suo petto e fatto riprendere a pulsare.

    Le venne praticata anche una tracheostomia perché respirasse più agevolmente, in attesa di farle una plastica al viso che le consentisse di portare una cannula rinofaringea collegata all’ossigeno.

    Sabrina, nonostante lo stress del dopo parto e contravvenendo alle disposizioni del reparto di maternità, si era trascinata fino alle porte della sala operatoria, vegliando tutta la notte attendendo che il dottor Christy uscisse per poter avere notizie di Isabel.

    Quando il medico uscì scostò lentamente la mascherina scoprendo il suo sorriso.

    Sabrina crollò tra le sue braccia.

    La piccola rimase in terapia intensiva alcuni mesi prima di essere trasferita al reparto intensivo della clinica Life Tree.

    Il reparto intensivo si prodigava in cure specializzate per accogliere i bambini più gravi per donare loro una vita amorevole e aiutare i genitori a superare il trauma di un’eventuale perdita.

    Sabrina non avebbe mai permesso che Isabel finisse i suoi giorni in quel reparto.

    Passò accanto a lei ogni istante del suo tempo.

    Prima nel calore del liquido amniotico, poi tra le sue braccia, Isabel ebbe la sua culla. La mamma rimaneva sempre sveglia accanto a lei per paura che si girasse nel sonno e morisse di apnea, non si fidava della c-pap appositamente creata per lei. Spremeva il suo latte e glielo dava attraverso il sondino, perché nella bambina il riflesso della suzione era poco sviluppato, e la trachostomia non la aiutava.

    Ma Isabel cresceva sempre più forte, giorno dopo giorno, immersa nell’amore della sua giovane mamma.

    Adams aveva detto più volte a Sabrina di riposarsi almeno qualche istante, ma lei non voleva affidare sua figlia a chi non la conosceva abbastanza. Giorno dopo giorno divenivano sempre più l’una lo specchio dell’altra, e Sabrina, ad ogni respiro della figlia, ad ogni suo battito poteva capire di cosa avesse bisogno la figlia, e riconoscere con largo anticipo i sintomi di una crisi respiratoria imminente.

    «Dottore, le restituirò i soldi appena avrò ripreso a lavorare!» diceva all’anziano primario con gli occhi disperati. Ma Adams le sorrideva facendole capire che non le avrebbe mai dovuto nulla.

    Il giorno che a Isabel tolsero la tracheostomia fu un giorno di festa per tutta la clinica.

    La mamma pianse tutto il giorno per la felicità. Finalmente le corde vocali della bambina sarebbero state attraversate dall’aria e avrebbe potuto sentire il dolce suono della voce di sua figlia.

    Ma Isabel era rimasta troppo tempo senza poter imparare a parlare, in una situazione già compromessa per poter svolgere un normale apprendimento verbale.

    Sabrina vide questo nuovo ostacolo come un’opportunità. Ormai aveva ripreso il lavoro, e passava ogni minuto libero assieme a Isabel. Faceva le prove insegnandole a gonfiare i palloncini per aiutarla a sviluppare le consonanti, e cercava di insegnarle ad emettere il diverso suono delle vocali scherzando assieme a lei, modificando i suoni che si emettono quando ci si dà dei piccoli pizzicotti. Le insegnava la labiali col diverso suono dei baci, e a prendere bei respiri per sviluppare il più possibile il suo piccolo polmone. Ma Isabel emetteva suoni solo vagamente coordinati, e spesso piangeva perché non riusciva a parlare. Eppure la madre era consapevole del fatto che Isabel non soffriva di ritardo mentale, e sarebbe potuta andare a scuola come le altre bambine.

    Un giorno però avvenne una meraviglia inaspettata: la mamma portò a Isabel una cannula per fare le bolle di sapone, perché si divertisse a prendere fiato e a soffiare per svilupparle il polmone.

    La piccola fu estasiata da questo nuovo gioco, e iniziò a fare disegni nell’aria sempre più belli con le bolle.

    Con esse indicava le cose, accarezzava le persone, le faceva più grandi o più piccole per comunicare il suo stato d’animo o per dimostrare quanto una cosa le piacesse.

    Allora Sabrina ebbe un’idea.

    Ricordò come alcuni malati avessero imparato a comunicare scandendo in ordine alfabetico con la pressione delle dita il numero della lettera che volevano comunicare.

    Questo avrebbe potuto segnare una svolta nella vita di Isabel, e la mamma si prodigò a insegnarle la successione delle lettere dell’alfabeto. Isabel imparò subito che avrebbe potuto soffiare un numero di bolle di sapone corrispondenti al numero in sequenza delle lettere dell’alfabeto che intendeva esprimere.

    Iniziò così per madre e figlia una nuova fantastica avventura.

    E anche quel giorno Isabel salutò gli altri bambini col suo alfabeto speciale che decorava d’allegria le giornate della clinica.

    Uscirono all’aperto nell’ampio giardino.

    Appena le vide una bambina che indossava un delizioso vestitino bianco corse loro incontro.

    Aveva anche lei dodici anni, lunghi boccoli mori e uno splendido viso.

    Le mancava quasi completamente il braccio sinistro e calzava una protesi che le sostituiva la tibia e il piede destro.

    Michelle era sopravvissuta a un aborto che aveva ucciso la sua sorella gemella.

    L’abortista, credendo di avere terminato il suo lavoro, non si era accorto che gli embrioni da abortire erano due, e aveva raggiunto Michelle con la curette solo in parte, asportandole un braccio e parte di una gamba.

    La madre era caduta in depressione dopo l’aborto. Sia lei che il medico non si erano accorti che non era stato presente in utero un solo embrione, ma due embrioni gemelli. Ma la madre quando si era accorta che un’altra vita continuava a crescere in lei aveva capito cos’era successo e non aveva avuto più intenzione di ucciderla.

    Sentendosi schiacciata dal senso di colpa non se l’era tuttavia sentita di tenere Michelle con sé, e l’aveva fatta adottare in anonimato da quella clinica.

    Bolle su bolle gioiose e variopinte salutarono Michelle, che aveva imparato il linguaggio di Isabel meglio di sua madre.

    «Anch’io… anch’io ti voglio tanto bene, Isabel!»

    «Dove vai, Ray?»

    «Torno subito. Voi preparate l’ecografo.»

    Il dottor Ramsen uscì dalla sala operatoria e si recò nel suo studio.

    Afferrò in fretta e furia la cartella clinica di quella sua ultima paziente di quella mattina.

    Cinque mesi!! Ma perché??

    Scorse quella cartella rapidamente e con la massima attenzione.

    Non v’è un solo accenno… un solo accenno a nessuna patologia fetale!

    Qui stiamo andando ancora una volta contro la legge!

    Scorse un’altra volta quella cartella sempre più furente.

    Poi la sua attenzione venne catturata da una relazione psicologica.

    La afferrò e la scorse avidamente.

    … e quindi, in relazione al fatto che la nascita del bambino potrebbe avere forti ripercussioni sulla salute psicologica della madre in una situazione di già grave indigenza, aggravata da circostanze familiari dalle indubbie caratteristiche patologiche, si consiglia caldamente l’interruzione della gravidanza al fine di non aggravare il già precario equilibrio della paziente…

    Ray gettò via quel foglio e, furioso, picchiò i pugni sulla scrivania.

    Poi uscì di corsa dal suo studio e rientrò in sala operatoria.

    «Forza, accendi l’ecografo!»

    Pezzi di merda.

    «La paziente è pronta.» disse l’anestesista.

    Ray si alzò per un momento dalla sedia, e guardò nel viso quella ragazza.

    Era afroamericana, anch’essa giovanissima.

    Tutto per i soldi, vero??

    «Passami la sonda, Nicole.»

    Tanto non siete voi quelli che si sporcano le mani!!

    Ray accese l’ecografo, appoggiò la sonda sul ventre della madre e l’immagine del bambino apparve nella sua interezza.

    Vivo, ben formato. Appariva sano, senza apparenti difetti, anche minimi.

    E io… io dovrei…

    «Si sono raccomandati ogni organo intatto, Ray. Quanti più riesci.»

    Ma già, certo… ecco perché dovrei!

    «Quanti più posso, hai detto, Nicole?» disse il medico all’infermiera piantandole braci ardenti negli occhi.

    Nicole rimase impressionata dallo sguardo del suo amico.

    Poi Ray ispezionò ancora una volta il corpo del bambino.

    Perché non posso fargli una puntura e poi lasciare che questa qui si arrangi da sola?? Perché devo fare una carneficina a questo bambino?? Perché?? PERCHÉ??

    «Dammi il dilatatore!»

    L’infermiera gli passò lo strumento.

    Lui lo afferrò nervosamente.

    Al diavolo!!

    Iniziò a girare la rotellina del dilatatore.

    Se tu che lasci che ammazzi così tuo figlio!! Io non c’entro niente!! Non c’entro niente, hai capito??

    Avrebbe voluto urlare, Ray. Avrebbe voluto urlare a quella ragazza.

    Se solo fossi stata più attenta!! Perché devi coinvolgere anche me adesso?? Io non sono un assassino, hai capito?? Sei tu che hai portato qui tuo figlio!! Sapevi che cosa gli avremmo fatto!!

    «Passami il bisturi!»

    Potevo addormentarlo per sempre con una puntura, e lo avresti partorito da sola!! No, troppo difficile, vero? Facile scaricare sugli altri!! Dirai che sono stato bastardo, che lo avrò fatto morire tra atroci dolori, tu invece non c’entri nulla, vero?? Tu dormi!! Perché non guardi?? Guarda, qui, guarda!!

    «Nicole, passami la pinza ad anelli! E per favore tieni la sonda puntata così!»

    Quanto più possibile! Pezzi di merda! Volete gli organi di questo bambino? Già, certo, non siete voi quelli che dovete vedere tutto questo! Voi vi prendete i soldi, io questo inferno!!

    «Mi raccomando la sonda ferma, Nicole!»

    Ray affondò la pinza ad anelli.

    Il bambino avvertì una minaccia.

    Inziò a divincolarsi nell’utero.

    Sta’ fermo!! Fermo!! Non rendermi le cose più difficili!! Abbi pietà di te e di me, ti prego!!

    Ray riuscì ad afferrargli una gamba.

    Si fermò per un istante.

    Avrebbe voluto gridare.

    Avrebbe voluto fermarsi.

    Il rumore delle cartilagini appena formate che si rompevano gli percorse il braccio fino al cervello.

    Ray tirò fuori quella gamba e subito dopo la gettò via.

    Afferrò subito l’altra. Ti supplico… vattene in fretta!!

    Strappò via l’altra gamba, poi aumentò la dilatazione della cervice.

    «Forcipe!»

    Introdusse lo strumento.

    Afferrò l’addome del bambino facendolo uscire fino al collo.

    Poi glielo recise col bisturi.

    Prese l’intero addome e il torace del piccolo e lo fece mettere da Nicole in un contenitore per campioni biologici.

    Poi prese di nuovo la pinza ad anelli.

    La introdusse.

    Schiacciò la testa per poterla estrarre.

    Tenne le palpebre semichiuse mentre la tirava fuori.

    Non voleva vedere i suoi occhi.

    Mancano solo le due candele… e la sorpresa principale!

    Il campanello suonò in quell’istante.

    Ecco che torni… un po’ nervoso come sempre…

    Aileen era al colmo della felicità.

    Aveva tirato a lucido la casa e indossava un bellissimo abito da sera. Si era truccata alla perfezione, e si era acconciata i capelli come piaceva a lui.

    Lo sentì salire le scale.

    Voglio tenerlo un po’ sulle spine… mi divertirò!

    La porta di casa si aprì.

    Jimmy era un bell’uomo, alto ed elegante.

    Era abituato a vedere sua moglie dare il meglio di sé nell’aspetto, ma non così tanto come quella sera.

    E quella tavola così ben curata nascondeva qualcosa. E quel pacchettino regalo davanti al suo piatto celava sicuramente una bella sorpresa.

    «Ciao, Lynn..»

    «Ciao…» rispose lei andandogli lentamente incontro, abbracciandolo e baciandolo affettuosamente e a lungo.

    Lui in un primo momente volle stare al gioco. Sorrise divertito, convinto che lo avrebbe aspettato una serata speciale.

    «La cena è pronta, Jim… tieni… beviamo qualcosa prima.» gli disse lei porgendogli il suo vino preferito.

    Lui sorridendo bevve il suo vino quasi d’un fiato. Lei invece ci si bagnò soltanto le labbra.

    La cena era stata deliziosa, e Jimmy era sempre più incuriosito.

    Non erano stati i soliti discorsi, il lavoro, i vicini, gli amici…

    Ti ricordi il primo giorno che ci siamo conosciuti, così aveva iniziato Aileen.

    Avevano percorso tutta la loro vita insieme, da fidanzati e da sposati. Avevano riso molto quella sera.

    E Aileen avrebbe voluto divertirsi ancora tanto.

    Ma ormai sarebbe stata questione di pochi minuti ancora.

    Jimmy aveva notato che non stava bevendo.

    «Apri il tuo regalo, Jimmy…» gli disse allora lei amorevolmente.

    Lui aprì quel delizioso piccolo pacchetto che era rimasto davanti al suo piatto per tutta la cena.

    Ci trovò dentro una piccola candela rosa e azzurra.

    «Questa la accenderai tra un anno e mezzo… per il primo compleanno di tuo figlio.»

    III

    «Ciao, Nicole.»

    «Ciao, Ray. Ti disturbo?»

    «No… stavo per tornare a casa.»

    «Ti dispiacerebbe vederci un momento per parlare?»

    L’uomo sospirò e attese alcuni istanti prima di rispondere.

    «Sinceramente sì, Nicole. Vorrei tanto tornare a casa.»

    «Come vuoi.»

    Nicole richiuse il cellulare e abbassò il finestrino dell’auto.

    Aveva voglia di musica country. Accese la radio.

    Quella musica l’aveva sempre aiutata a pensare.

    Guardava la grande insegna della clinica in cui lavorava da cinque anni assieme a Ray. Planned Parenthood.

    Cinque anni lì dentro. Anni di drammi e di aborti.

    Anche lei se ne sentiva coinvolta. Come quasi tutti quelli che lavoravano lì dentro.

    Accese il motore. Voleva tornare a casa.

    L’insalata di tonno che era nel frigo doveva essere ancora buona.

    La sua Plymouth scorreva tranquilla per le vie della città. Abitava a 12 miglia dal posto di lavoro.

    E ormai era calata la notte.

    Quella parte della giornata in cui più si accendono i pensieri.

    E ogni giorno aumentano…

    Le luci delle insegne dei negozi scintillavano lungo la via.

    Neanche questo basta più… vero, Ray?

    Ricordo così bene quando mamma tornava a casa dal lavoro. Anche per oggi è finita, diceva sempre. Poi si metteva a prepararci la cena…

    Io non dico mai è finita.

    Di solito quando una persona torna dal lavoro se lo lascia alle spalle. È finita veramente, perché quello che lo ha appesantito quel giorno non si presenterà mai più… lo ha lasciato per sempre…

    Non è così nemmeno per te, allora, vero, Ray?

    Ti capisco… ti capisco veramente.

    Lo scroscio della doccia.

    Ricordo ancora la prima volta…

    Non avevo mai assistito a un aborto prima che entrassi a lavorare lì dentro.

    Quel bimbo uscito a pezzi… tutto quel sangue.

    E quell’odore… così…

    Nicole chiuse il rubinetto.

    Uscì dalla doccia senza asciugarsi.

    Rimase a lungo ferma, osservando la sua immagine riflessa nello specchio del bagno.

    Osservò il suo seno.

    Poi si abbracciò come a coprirselo, e rivolse lo sguardo verso il basso.

    Ray… anch’io ho gli incubi la notte.

    Bambini morti che escono da dentro di me!

    Paghiamo un prezzo altissimo per quello che facciamo.

    Il cellulare squillò.

    Nicole si coprì con l’accappatoio e andò a rispondere.

    Guardò il display.

    Sorrise.

    «Ray…»

    «Nicole…»

    «Sono qui…»

    «Ciao, Sabrina!»

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