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Una notte per non dimenticarti
Una notte per non dimenticarti
Una notte per non dimenticarti
E-book328 pagine4 ore

Una notte per non dimenticarti

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Info su questo ebook

Dall’autrice del bestseller Ho scelto te

È bastata una notte per essere stregata dai suoi occhi.
La passione per quell’uomo la divora. Che cosa sarà disposta a fare per averlo?

Sylvia è a un congresso in Germania quando conosce un uomo affascinante e misterioso, da cui rimane folgorata. I due trascorrono insieme una notte di passione, che nella ragazza lascia un segno indelebile. Il giorno dopo, l’uomo sembra svanito nel nulla. Sylvia cerca informazioni su di lui, ma senza successo. Sarà a Vienna che lo incontrerà di nuovo, scoprendo, con sua grande sorpresa, che Raphael Saito è il marito di Marian Stoffl er, una luminare della ricerca scientifica con la quale Sylvia ha iniziato a collaborare. L’attrazione è forte e reciproca, Raphael è per Sylvia una tentazione costante. Quello che ancora non sa, è che Raphael e Marian hanno una relazione particolare. E che il gioco in cui sta per essere coinvolta potrebbe essere molto pericoloso. Soprattutto se in ballo ci sono sentimenti sempre più forti. E lei non può sapere dove la porteranno… 

«Per chi, come me, leggendo si immedesima nel personaggio, questa lettura sarà emozionante e commovente.»
Giulia Ross
è nata a Milano nel 1981. Si è laureata in Biotecnologie e ha proseguito i suoi studi con un dottorato di ricerca in Immunologia. Insieme al suo amore per la scienza coltiva da sempre le sue due grandi passioni: la musica e la scrittura. La Newton Compton ha pubblicato con successo Ho scelto te e Una notte per non dimenticarti.
LinguaItaliano
Data di uscita16 feb 2016
ISBN9788854192447
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    Anteprima del libro

    Una notte per non dimenticarti - Giulia Ross

    Capitolo 1

    Effetto farfalla

    Heidelberg, settembre 2015

    Sylvia! Sylvia alzati da quel cazzo di letto!».

    Mi svegliai di soprassalto, la faccia di Monika a pochi centimetri dalla mia. Era già vestita e truccata, cosa che mi fece intuire di non aver sentito la sveglia del mio cellulare per l’ennesima volta.

    «Il tuo telefono ha suonato, io ti ho chiamato per tre volte, sei in ritardo e questa mattina hai il tuo talk! Alzati e preparati!», sbraitò. Mi alzai, cercando di controllare lo stomaco messo a dura prova dallo stress di dover parlare in pubblico di lì a poche ore.

    «Mi viene da vomitare», furono le mie prime parole, di fronte alle quali Monika addolcì subito l’espressione del volto.

    «Tecnicamente non hai tempo per farlo. Vieni, lavati la faccia».

    Mi infilai nella doccia mentre Monika pensava a sistemare i miei vestiti per quella mattina. Il profumo fresco del sapone mi diede un po’ di sollievo e quando uscii ancora gocciolante dal bagno avevo un aspetto decisamente migliore.

    «Per fortuna che avevo appeso la tua camicia. La tua valigia è esplosa», commentò ironica rimproverandomi, come sempre, per la mia scarsa attitudine all’ordine.

    «Scusa», mormorai colpevole e poi iniziai a vestirmi. I miei capelli, lisci come velluto, erano l’unica cosa sempre ordinata nella mia persona.

    «Sei così carina quando ti vesti in modo elegante», mi disse Monika mentre finivo di indossare una camicia bianca. Poi un’ombra calò subito sul suo sguardo.

    «Che cosa c’è?», le chiesi preoccupata. Da quando lei e Aurélie avevano litigato il suo umore era altalenante.

    «Niente», disse dandomi le spalle, ma io insistetti.

    «Tu e Aurélie non avete ancora parlato, vero?». Monika non rispose ma io intuii lo stesso come stavano le cose.

    «No. Credo che ci vorrà un po’ di tempo per sistemare le cose, questa volta», rispose infine senza guardarmi, poi prese in mano il suo rossetto e me lo passò sulle labbra. «Tocco finale», disse sorridente. Il suo nuovo taglio di capelli, corti e supermossi, la rendeva ancora più carina, ma il velo di tristezza nei suoi occhi era così evidente da offuscare un po’ la sua bellezza.

    Uscimmo dalla stanza correndo. Dean ci stava aspettando all’ingresso dell’hotel Kholer. Quando ci vide ci regalò il suo sorriso più beffardo e fece un inchino.

    «Alla buon’ora, donne! Il pullman per l’embl non ci aspetta, sapete?». Annuii sentendomi ancora in colpa per il mio ritardo e mi strinsi nel cappotto prima di uscire nella fredda aria autunnale di Heidelberg. C’erano solo quattro gradi quella mattina. Riuscimmo a salire sul pullman qualche secondo prima che partisse. Non appena fui seduta tirai un profondo sospiro di sollievo.

    Era l’ultimo giorno del simposio Mechanisms of Neurodegeneration, organizzato dalla European Molecular Biology Organization e dall’European Molecular Biology Laboratory, embl. Avevo seguito così tante presentazioni nei primi due giorni, che avevo la testa piena d’informazioni e idee. Tuttavia, la cosa più importante per quell’ultima giornata era fare bella figura di fronte ad alcuni collaboratori della donna con la quale avrei presto iniziato il mio primo post doc: la professoressa Marian Stoffler.

    Lei era diventata il mio punto di riferimento subito dopo la mia tesi di master e durante il dottorato mi ero impegnata per lavorare su un progetto che si avvicinasse alla sua linea di ricerca. Poi avevo cercato di pubblicare dei lavori che mi permettessero di vincere la selezione per entrare nel suo laboratorio. Era fondamentale fare una buona impressione anche sui membri del suo staff e così, nel corso dei primi due giorni di congresso, la mia tensione era cresciuta a livelli insopportabili.

    «Smettila di torturarti le mani, Sylvia», mi sgridò Monika. Smisi di strapparmi le pellicine sul lato dell’unghia e cercai di calmarmi rallentando il ritmo del mio respiro.

    «Sono così nervosa», dissi piano mentre il bus frenava per lasciarci di fronte all’edificio atc dell’embl, nel quale si svolgeva il congresso.

    «Hai passato la selezione e la Stoffler ti ha già fatto firmare il contratto da post doc, di che ti preoccupi? Tra meno di due settimane sarai in Austria a lavorare con una dea della ricerca scientifica. Dovresti essere felice», commentò in modo sbrigativo. Non aveva tutti i torti ma io non ero brava come lei a gestire lo stress. Annuii pensierosa e poi scesi dal pullman.

    Le prime due ore della mattina trascorsero così veloci che solo quando Dean mi tirò per un braccio capii che la pausa caffè era ormai iniziata da un pezzo. Di solito non mangiavo niente prima di una presentazione, ma quella mattina il mio stomaco mi stava giocando dei brutti scherzi così mi arrischiai a mettere qualcosa sotto i denti.

    Afferrai titubante qualche biscotto al cioccolato e poi riempii una tazza di caffè. Con gli occhi fissi sul bordo della tazza, mi voltai di scatto per tornare da Dean e Monika, ma il mio braccio urtò qualcuno e il caffè traboccò finendo su un paio di scarpe eleganti da uomo. Guardai inorridita la macchia scura, mentre si allargava sulla superficie di pelle lucida. D’istinto lasciai immediatamente la mia tazza e afferrai due tovaglioli di carta per rimediare al danno.

    «Mi scusi!», dissi mortificata, asciugando il cuoio nero senza nemmeno sollevare lo sguardo. Solo quando una delle scarpe fu di nuovo pulita alzai la testa e il mio cuore sembrò fermarsi. La prima cosa che notai furono i suoi capelli: corti, lisci, di un intenso castano scuro. Poi i suoi occhi un po’ allungati, verdi, così lucidi e profondi da sembrare finti. Infine osservai il suo completo elegante, blu notte, e la sua camicia a cui era annodata una cravatta a righe grigie e azzurre. Il proprietario delle scarpe mi stava a sua volta guardando ma con un’espressione indecifrabile. «Sono mortificata», dissi sempre in inglese. Non riuscivo a staccare gli occhi da quel viso stupendo. Il mio cuore accelerò e le mie gambe tremarono. Così inginocchiata mi sentii ancora più in difetto. L’uomo non muoveva nemmeno un muscolo del viso. Riuscivo a scorgere solo il tranquillo pulsare del sangue sulla pelle marmorea del suo collo. Era inquietante.

    Mi alzai e anche in piedi mi sovrastava. La mia testa arrivava solo alle sue spalle. Lo guardai di nuovo negli occhi e, più dolcemente, dissi per l’ennesima volta: «Sono davvero mortificata». Finalmente l’uomo in blu rispose alle mie scuse, accennando un sorriso gelido. Cercai con lo sguardo il suo badge dell’embl. Lì erano riportati il nome e l’istituto di provenienza, e io dovevo scoprire chi era quell’uomo. Fu proprio in quell’istante che lui mi sorpassò, farfugliando qualcosa in una lingua che non capii. Mi voltai di scatto per seguirlo con gli occhi ma la sua figura era già sparita in mezzo alla folla.

    «Che hai combinato?». Monika mi fece sussultare. «Hai le guance rosse come due pomodori», commentò afferrando un biscotto.

    «Ho appena versato del caffè sulle scarpe dell’uomo più elegante di tutto il convegno», risposi, improvvisamente di malumore. Monika scoppiò a ridere e in quel momento ci raggiunse anche Dean.

    «Ehi, chi era quel pezzo di ghiaccio a cui hai pulito le scarpe?», mi chiese pungente. Lo guardai imbarazzata e sbuffai.

    «Non lo so, se n’è andato senza dirmi nulla e non aveva il badge identificativo».

    «Magari è un rappresentante della Molecular Bioscience, ecco perché era così elegante e non aveva il badge embl», disse Dean. Ci pensai su: quella poteva essere una spiegazione ragionevole.

    «Sarà così…», mormorai, sentendo ancora addosso la sensazione di scompiglio che quell’uomo era riuscito a suscitare dentro di me in pochi istanti.

    «Dài, andiamo in aula, tra qualche minuto è il tuo turno», disse Monika.

    Il chairman di quella mattina, il professor Robert Shaw, prese il microfono e il mio nome risuonò nell’aula come un’eco intrappolata in una caverna troppo stretta: «Sylvia Morscher».

    Mi diressi verso il podio rigida come un robot. Il professor Shaw mi strinse la mano affabile, ma quando rivolsi lo sguardo verso la platea per iniziare a esporre la mia relazione, il mio cuore si fermò di nuovo. Lui, l’uomo in blu, era lì, seduto al centro della terza fila, e aveva gli occhi puntati su di me. Sentii uno strano ronzio nell’orecchio e brividi gelidi mi percorsero la schiena. Sorrideva, toccandosi le labbra con le dita, perfettamente a suo agio.

    Dannazione! Non potevo permettermi di soccombere all’emozione in quel modo patetico! Quella presentazione era troppo importante per il mio futuro. Respirai a fondo e salii sul podio ordinando a me stessa di non guardare quell’uomo per l’intera durata della mia relazione.

    Fissando un punto lontano al centro dell’auditorium ringraziai gli organizzatori embl per l’opportunità che mi avevano dato di presentare il mio progetto quel giorno. Poi indicai con il puntatore la prima slide e la mia bocca iniziò a recitare quasi a memoria tutte le frasi e i dati che avevo annotato meticolosamente. Tuttavia, dopo i primi minuti di pace, i miei occhi ribelli mi riportarono su quell’uomo. Teneva la testa appoggiata a una mano, con l’altra reggeva il portatile sulle gambe e con gli occhi mi fissava serio. Il suo sguardo, freddo e rovente allo stesso tempo, mi accompagnò per tutti i venti minuti della presentazione.

    Mi accorsi di aver finito le slide solo quando tutta la platea scoppiò in un sonoro applauso. Anche l’uomo in blu iniziò ad applaudire. Il mio animo sembrò prendere fuoco alla vista delle sue mani. Era la prima volta che mi capitava di provare una sensazione così intensa per uno sconosciuto. Mi sentii smarrita, spaventata più da me stessa che da lui, incapace di controllarmi come non mai. Abbozzai un sorriso di circostanza e guardai il professor Shaw, attendendo che qualcuno avanzasse verso i microfoni della platea per fare una domanda.

    Vidi tre persone alzarsi in piedi: il primo era uno dei collaboratori di Marian Stoffler, che aveva lavorato con il mio mentore all’università di Monaco, dove avevo conseguito il mio dottorato. La seconda era una donna che non conoscevo e il terzo era lui, l’uomo a cui avevo pulito le scarpe. La gola mi si seccò in un istante mentre il mio stupido cuore si rallegrava all’idea di poter sentire la sua voce.

    Risposi alle prime due domande con facilità e poi attesi nervosamente la terza. L’uomo in blu mise una mano sul microfono e incrociò i miei occhi con l’espressione più seria della storia.

    «Complimenti per la presentazione», esordì, accendendo un piacevole calore al centro del mio petto. Era una voce profonda. Sensuale. «Vorrei chiederle… Potrebbe chiarire meglio quali sono le prospettive future del suo studio? Da quello che ha presentato e dai risultati ottenuti, è sua intenzione passare a una fase clinica, è così?».

    I movimenti delle sue labbra sottili mi ipnotizzarono. Non riuscivo a pensare più a niente se non alla sensazione che avrei provato nell’assaggiare quella bocca. Un solo bacio. Mi riscossi dal torpore solo quando vidi qualcosa muoversi dietro la testa di quell’uomo. Era Monika, che con la mano faceva dei gesti incitandomi a parlare. Avevo una risposta pronta a quella domanda, ma i miei pensieri erano come stati risucchiati in un vortice. Con tutta la forza che mi rimaneva guardai un punto fisso all’altezza della fronte di quel demone fatto uomo e risposi alla sua domanda, decisa a non apparire intimorita.

    La platea scoppiò in un secondo applauso quando il professor Shaw riprese in mano il microfono per ringraziarmi e invitare il relatore in lista dopo di me a raggiungerlo. Scesi dal podio di legno con le gambe che ancora tremavano e raggiunsi scombussolata la mia poltroncina tra Dean e Monika. Non era da me comportarmi così. Che cosa mi stava succedendo? Desideravo ancora conoscere il nome di quell’uomo e sapere da dove proveniva, per quanto facessi fatica ad ammetterlo a me stessa.

    A mezzogiorno e mezzo, non appena lasciammo l’area conferenze per andare a pranzo, Monika mi prese per un braccio. «Ma che diavolo ti è preso là sopra?», disse a denti stretti. Deglutii e le restituii uno sguardo un po’ imbarazzato.

    «Quell’uomo… Quello che mi ha fatto l’ultima domanda. Mi ha messo davvero in difficoltà». Non era la verità ma in quel momento non riuscii a dirle di più.

    «Era una domanda facile. Ti eri preparata», replicò lei sbuffando. Restai in silenzio e mi aggrappai al suo braccio, lasciandomi condurre a uno dei tavoli.

    «Volete un po’ d’acqua?», ci chiese Dean riempiendo i bicchieri, senza attendere la nostra risposta. Afferrai il calice e mandai giù un sorso gelido, sperando di raffreddare il calore che stavo provando. Il viso dell’uomo in blu mi stava torturando. Alzai lo sguardo per cercarlo tra la gente. Scorsi finalmente il suo profilo elegante proprio vicino al professor Shaw. Stavano chiacchierando animatamente e lui sorrideva mentre con una mano reggeva un calice. Vederlo sorridere mi fece provare una straordinaria sensazione di euforia e la cosa mi spaventò definitivamente. Distolsi lo sguardo e mi sforzai di ascoltare le chiacchiere di Dean.

    «Questa sera, alla cena sociale, ci provo con quella di Zurigo». Dean si riferiva a una studentessa di Zurigo della quale si era invaghito dal primo giorno del congresso.

    Monika scosse la testa con disappunto. «Guarda che quella si fila solo gli uomini da cui può ottenere qualcosa. Prenderai sicuro un due di picche mio caro».

    Dopo la cena sociale, l’ultima organizzata dallo staff dell’embl, avremmo ballato sulla musica del famoso dj Kevin, tanto sponsorizzato da Robert Shaw in persona come un evento da non perdere. Sorrisi e cercai di rilassarmi. Sentii dentro di me che quella serata sarebbe stata indimenticabile per ognuno di noi.

    Il pomeriggio fu ancora più pesante della mattinata. A causa di un cambiamento nel programma del congresso finimmo quasi un’ora più tardi. Avrei voluto togliermi i tacchi e mettermi qualcosa di più comodo per ballare ma il bus sarebbe ripartito dall’embl per il centro città non prima delle dieci di sera, impedendoci il rientro in hotel prima di cena.

    Ci dirigemmo verso il Canteen, dove la maggior parte dei congressisti aveva già iniziato a cenare. Ci servimmo al self-service ma, mentre i miei due amici si riempirono i vassoi fino all’orlo, io mi limitai a prendere un’insalata e della frutta. Le emozioni mi bloccavano sempre l’appetito. Non appena entrammo nella sala principale i miei occhi scandagliarono tutto l’ambiente circostante alla ricerca dell’uomo in blu. Lo individuai solo quando ci spostammo sul lato est della sala dove c’era ancora un tavolo con dei posti liberi. Sorrisi soddisfatta: da quel punto potevo tranquillamente osservarlo senza attirare la sua attenzione.

    Lui aveva già finito di cenare e stava bevendo con un gruppo di ragazzi francesi. Tra di loro c’era anche una dottoranda particolarmente carina e lui le era proprio seduto davanti. Sorrideva ancora con quell’espressione da ragazzino innocente e il mio cuore si infiammò.

    «Ehi, ma che ti prende oggi?», esclamò Monika approfittando della momentanea assenza di Dean. Deglutii a fatica ma non mi sentii di mentirle ancora.

    «Quell’uomo… quello al quale ho versato il caffè addosso questa mattina…», balbettavo. Facevo sempre così quando mi piaceva qualcuno. E lui mi piaceva tanto. Monika squadrò la stanza e lo individuò. Lo osservò con attenzione per poi voltarsi verso di me, seria.

    «È carino, per quanto io possa giudicare la bellezza di un uomo, ma non mi sembra il tuo tipo». Sì, pensavo la stessa cosa: lui era impeccabile. Io invece ero reattiva come un radicale libero, con l’aggiunta di una naturale tendenza all’entropia sentimentale. Eppure, nonostante le inequivocabili diversità, non riuscivo a darmi pace. Dovevo scoprire qualcosa di lui e anche in fretta. «Non ho idea di chi sia, è il primo giorno che lo vedo», commentò ancora Monika.

    La musica iniziò alle dieci di sera in punto. Con mia grande sorpresa i primi ad alzarsi dai tavoli furono i professori. Noi giovani invece sembravamo vergognarci. Mi guardai attorno ansiosa e vidi Monika impegnata in una discussione con un ragazzo finlandese, poi rivolsi lo sguardo verso Dean e notai che stava parlando con la tanto sospirata ragazza di Zurigo. Il vino lo aveva reso più audace! Io invece morivo dalla voglia di ballare ma non volevo avanzare da sola verso la pista.

    Il problema fu risolto dalla ragazza che si era seduta davanti a me, una studentessa di dottorato con cui avevo scambiato due chiacchiere subito dopo la mia presentazione. Si chiamava Verena Bohn. Mi fece un occhiolino da dietro le lenti dei vistosi occhiali e mi invitò a fare quattro salti. Non me lo feci ripetere due volte e la seguii in pista.

    Mentre camminavo rivolsi lo sguardo verso il tavolo dell’uomo in blu. Con mio grande disappunto non c’era più. Diverse persone in effetti avevano abbandonato la sala per tornare ai propri alberghi, rinunciando alla serata danzante. Forse anche lui se n’era andato e io non me n’ero nemmeno accorta! Avevo atteso tutto il giorno quel momento per avvicinarmi e capire chi fosse, ma il destino aveva giocato la sua mano vincente lasciandomi con un pugno di mosche. Strinsi i denti e iniziai a muovermi insieme a Verena per scacciare via tutti i pensieri. Il senso di delusione tuttavia aveva pervaso il mio corpo e quindi, nonostante mi piacesse ballare, non riuscivo a farmi trascinare dalla musica. Solo quando Dean e Monika mi raggiunsero in pista ritrovai un po’ di entusiasmo. Inebriata dalla musica anni ’90 che dj Kevin aveva scelto mi lasciai finalmente andare. Fu sulle note di The Sun Always Shines On tv degli A-ha, che vidi il mio demone fare il suo ingresso in pista. Allora non se n’era andato via!

    Improvvisamente mi sentii animata da una fortissima euforia. L’uomo in blu si fermò in mezzo alla pista dove i ragazzi francesi con cui aveva cenato stavano ballando in gruppo. Fu solo in quel momento che i nostri occhi si incrociarono di nuovo. Il suo sguardo freddo e penetrante ebbe l’effetto di un puro eccitante. I miei movimenti, da tristi e spenti, si fecero carichi di sensualità. Volevo che mi notasse.

    Lui ballava in maniera più sobria di me, ma sorrideva, guardandosi attorno come un ragazzino spensierato. Provai una punta di gelosia quando lo vidi andare verso la ragazza francese dai capelli ramati. Smisi di guardare nella loro direzione, decisamente infastidita. Monika si avvicinò al mio orecchio e mi sussurrò qualcosa.

    «Non girarti», sbottò di colpo prendendomi la mano. «Lui ti sta fissando. E secondo me lo sta facendo in maniera famelica». Feci uno sforzo tremendo per non voltarmi quando Monika aggiunse: «È un lupo, Sylvia, non mi piace». La guardai sorpresa.

    «Cosa?», le urlai nell’orecchio e lei fece un’espressione ancora più severa.

    «Quell’uomo è un predatore, è troppo evidente per non accorgersene. E una come te è una preda troppo facile». Era noto che Monika avesse un’abilità particolare nel capire le persone al primo sguardo, ma quella fu l’unica volta in cui non riuscii a crederle.

    «Di’ un po’, per quanto tempo lo hai guardato questa sera a cena?», mi domandò lei con fare indagatore. Arrossii immediatamente a quella domanda. Per tutto il tempo, avrei dovuto rispondere, ma rimasi in silenzio. Monika finì la sua Coca-Cola e poi mi rivolse uno sguardo quasi divertito. «Be’, deve essere stato per molto, perché lui lo ha notato e mi sembra abbastanza pronto ad attaccare. Sta’ attenta». Attenta? E che cosa poteva mai succedere? Annuii e decisi di tornare a ballare vicino a Dean e Verena passando però al centro della pista, così da avvicinarmi di più a lui. Ballava indossando ancora la giacca, mentre gli altri stavano sudando e morendo di caldo. Era così elegante da stonare con il resto della sala.

    Più mi avvicinavo a lui, più i miei passi si facevano straordinariamente pesanti. Proprio quando fui a un metro dalle sue spalle un ragazzo biondo mi afferrò la mano e mi fece fare un giro su me stessa. Era Heitem, un dottorando di Basilea con cui io e Monika avevamo bevuto una birra la sera prima. Heitem mi fece un sorriso dolce e io non riuscii a rifiutare il suo esplicito invito a ballare. Danzammo scherzando su dj Kevin, quando sentii qualcosa sfiorarmi la schiena. Mi sembrò il tocco gentile di una mano. Mi voltai di scatto e vidi l’uomo in blu allontanarsi dalla pista verso il tavolo dove aveva mangiato. Era stato lui a toccarmi? Lo sbirciai mentre si sedeva e con fare lento e studiato beveva dell’acqua. Fissava un punto lontano, quando il suo cellulare squillò e si alzò per rispondere alla chiamata. Lo vidi lasciare di scatto la sala ed ebbi di nuovo paura che se ne andasse prima ancora di poter sapere il suo nome o di guardarlo negli occhi un’ultima volta.

    Trascorsi circa venti minuti cercando di distrarmi osservando gli altri ballare. Di tanto in tanto lanciavo uno sguardo verso la porta a vetri, ma lui non tornava.

    Guardai l’orologio e notai che erano già le undici e mezzo di quella strana serata: l’ultimo bus per tornare in città sarebbe partito di lì a un’ora. Un po’ disillusa, scesi le scale che portavano alle toilette ma non entrai nei bagni. Avevo solo bisogno di restare un attimo da sola. Mi appoggiai a uno dei vetri delle grandi finestre che si affacciavano sullo spiazzo di fronte all’atc. Da lì potevo vedere tutto l’edificio illuminato.

    Sospirai, triste, quando sentii una mano toccarmi una spalla. Era lo stesso tocco gentile che avevo avvertito sulla schiena in mezzo alla pista. Mi voltai di scatto e incrociai i suoi occhi profondi. Lui era lì di fronte a me. Ci specchiammo l’uno nell’altra per quella che mi sembrò un’eternità, in totale silenzio, circondati solo dalle fioche luci d’emergenza. Da così vicino era persino più bello. Le sue labbra sottili si mossero lievemente e per un attimo pensai che mi volesse dire qualcosa, ma mi sbagliavo. All’improvviso la sua bocca fu sulla mia e il mio cuore ebbe un sussulto così forte da lasciarmi tramortita. Le sue labbra si schiusero e io, in preda alle emozioni più disparate, aprii lievemente la bocca. Lui non aspettò oltre e afferrandomi la vita con le mani mi schiacciò verso la finestra infilando la lingua tra le mie labbra. Il suo bacio mi travolse come l’onda del mare con la sabbia. Si muoveva con forza e il calore della sua bocca ben presto mi infiammò a tal punto da bruciare tutta l’aria che avevo nei polmoni. Cercai di respirare e lo abbracciai. Feci scorrere le mie mani sulla sua schiena sentendo i muscoli tendersi al mio tocco. Non mi importava, in quel momento, non sapere niente di lui, della sua vita, della sua anima. Non mi importava di nulla. Volevo solo che mi stringesse così forte da unirmi a sé fino a essere una cosa sola.

    Lui alzò una mano verso la mia camicia e iniziò a slacciarne i bottoni in preda alla passione. Quando sentii le sue dita sul mio seno, scariche elettriche percorsero il mio corpo stordendomi. Mi staccai dalle sue labbra per riprendere ancora fiato, ma lui mi afferrò il viso con le mani e poi sorrise.

    «Non scappare». Furono le sue prime parole. La sua voce profonda mi mandò definitivamente in tilt.

    «Non scappo», sussurrai. Che cosa mi stava succedendo? Perché quello sconosciuto aveva tutto quel potere su di me?

    Lui si avvicinò al mio collo e iniziò a baciarlo, leccando e mordendo la mia pelle. Sembrava volermi assaggiare centimetro per centimetro.

    La sua mano destra scivolò sotto la gonna che indossavo e arrivò fino ai miei slip. Mi ritrovai ad aprire le gambe in modo che potesse toccarmi liberamente. La sua mano scostò gli slip bagnati e sfiorò l’interno delle grandi labbra prima di penetrarmi con le dita. Mi resi conto solo in quel momento, imprigionata da quel contatto intimo e meraviglioso, che eravamo in un luogo pubblico: qualcuno dal piano di sopra avrebbe potuto raggiungerci facilmente e sorprenderci.

    «Ti prego, aspetta. Non possiamo qui», dissi allontanando il suo braccio. Lui smise di mordermi il collo e sfilò le dita da me, lasciandomi insoddisfatta.

    «Vieni», disse piano. Mi prese saldamente la mano, come se avesse paura che da un momento all’altro lo avrei lasciato e mi condusse nel sottoscala, dove la luce delle finestre ci raggiungeva a malapena.

    «Ora non scappare». Il suo sembrava più un comando che una richiesta.

    «Non scappo», dissi di nuovo respirando affannosamente, in balìa del suo incantesimo. Per dimostrargli le mie reali intenzioni presi l’orlo della mia gonna e lo alzai un poco. Poi aprii lievemente le gambe. Con quella scarsa luce non riuscivo a vederlo bene, ma mi sembrò sorridere, famelico.

    Mi abbracciò di nuovo prima di slacciare il mio reggiseno. Le sue mani si chiusero a coppa sui seni, poi sentii i suoi denti mordermi un capezzolo. Per poco non lanciai un urlo: la testa mi scoppiava e il cuore martellava così forte dentro il mio petto da poterlo sentire. La sua lingua disegnò dei

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