Dentro e fuori degli anni di piombo
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L’autore riesce a documentare in modo efficace e convincente la sua attiva presenza e, sulla scorta del magistero sociale della Chiesa, il suo contributo alla chiarificazione e rasserenamento del quadro sociale.
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Anteprima del libro
Dentro e fuori degli anni di piombo - Luigi Chitarin
Luigi Chitarin
Dentro e fuori degli anni di piombo
Scritti Vari su Economia e Società e Fine del Marxismo 1960-2014
© 2017, Marcianum Press, Venezia
Marcianum Press
Edizioni Studium S.r.l.
Dorsoduro, 1 – 30123 Venezia
t 041 27.43.914 – f 041 27.43.971
marcianumpress@marcianum.it
www.marcianumpress.it
Impaginazione: Tomomot, Venezia
ISBN 978-88-6512-561-8
UUID: e93e81fc-3167-11e7-b66e-49fbd00dc2aa
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Indice dei contenuti
Presentazione
LETTERE E DIBATTITI
Sulla Messa aziendale
Una predica
Meglio la polemica che certi silenzi
Su marxismo e cristianesimo
Logica economica
Liberalismo e marxismo nel Magistero
Morale evangelica e sistemi economici
A Renato Curcio e i suoi compagni
Liberalismo e marxismo nei fatti
Risparmio eccessivo?
Una lettera
Crisi ad Ivrea
Crisi ad Ivrea II
About the Going on Debate
Pastorale del lavoro
Equo canone?
Politiche della casa
Magistero-Blitz
Tempo di slogans
Quell'editoriale sui licenziamenti
Sul diritto al lavoro
Sulle ‘vendite allo scoperto’
A Letter to the Tablet
Contenzioso intraeuropeo
ARTICOLI
Nella morsa dell'inflazione*
Una dichiarazione di Bukovski
Sindacalismo o utopia?
Cooperative e partecipazione operaia
Vangelo ed evoluzione dei sistemi economici
Coscienza e incoscienza economica nell’Italia d’oggi
Economia senza finanza
Sul concetto di lavoro: teorie e riflessioni
Proprietà umana e proprietà capitalista secondo Mounier
Heidegger, Mounier, Tommaso, Weber, a confronto
Sul debito estero dei Paesi in via di sviluppo
NOTE GIURIDICO-ECONOMICHE
I rapporti economici nella costituzione
Settori pubblici o equiparati
Settori ad economia mista
La pianificazione dal punto di vista economico e giuridico
Conclusioni sull'art. 41 della Costituzione
Legislazione e amministrazione
Alla memoria
di don Luigi Sturzo,
degli Ingg. Sergio Gori e
Giuseppe Taliercio,
del Commissario Alfredo Albanese
(and of my lucky escape.)
Presentazione
Raccolgo dall’archivio dei miei Scritti Vari questa collezione di articoli, lettere e dibattiti, afferenti ai temi economici, iniziatasi quasi per eruzione spontanea nel mezzo della crisi degli anni 1970 – ’80 e proseguita fino ad anni più recenti. Come e con quale intensità quella crisi si sia allora manifestata, lascio ad altri di evocarlo.
L’effetto nei miei confronti fu però quello di provocare in modo alquanto energico la mia assopita professionalità economica, maturata nella pratica del commercio e negli studi a Ca’ Foscari, a uscire allo scoperto in posizione (diciamo) deflazionistica – a livello di concetti e di idee prima ancora che in riferimento ai valori specificamente economico-monetari.
Una situazione di alienazione mentale, di trance generalizzato sembrava essersi determinata, soprattutto fra i giovani. Per le scale di Ca’ Foscari si poteva udir canticchiare «lascia i libri, imbraccia il fucile». Dopo che il verbo scientifico per il giusto assetto dell’umano consorzio era stato pronunciato una volta per tutte, cos’altro mancava, se non l’attuazione? Fu proprio l’estrema elementarietà dei malintesi e del falso ideologico a farmi prendere in mano la penna. Forse vi erano in gioco anche tematiche che andavano al di là di questo livello elementare, ma così determinante per l’orientamento delle maggioranze o delle cosiddette correnti forti.
Non so quanto io possa aver contribuito anche a questo livello ulteriore. Lascio ad altri la valutazione. Mi accontento di aver dato anche soltanto un piccolo contributo a quegli esiti di rasserenamento e – come ebbe a dire una visitatrice dall’America Latina – di irriconoscibilità dell’Italia della metà degli anni ’80, rispetto all’Italia della metà degli anni ’70.
Può essere tuttora istruttivo, a distanza di quindici anni dall’assassinio di Marco Biagi (19 marzo 2002), pubblicare questi miei scritti, anche se questa particolare sezione di essi non mi rappresenta che molto parzialmente nei miei interessi e nella mia ispirazione.
Note
Gli articoli «Vangelo e sistemi economici» e «Coscienza e incoscienza economica nell’Italia d’oggi» da più di un mese giravano per Roma e altrove in cerca di un giornale che li pubblicasse, quando, il 24.1.1978 uscì la famosa intervista del segretario generale della Cgil, Luciano Lama, su La Repubblica. Corse allora voce – così mi fu riferito – che Luciano Lama sarebbe andato a confessarsi da don Chitarin
!! È certo consono a quanto avevo affermato e richiesto, il riconoscimento – espresso da Lama in quell’intervista – che l’Italia stava attraversando «un momento che tutti giudichiamo di gravissima crisi», e frasi come le seguenti: «Se vogliamo essere coerenti con l’obbiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati deve passare in seconda linea». E ancora: «Non possiamo più obbligare le aziende a trattenere alle loro dipendenze un numero di lavoratori che esorbita le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la Cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti… dobbiamo essere intellettualmente onesti: è stata una sciocchezza , perché in un’economia aperta le variabili sono tutte dipendenti, una dall’altra.» Ma fino all’ultimo comizio che Lama aveva tenuto (a Napoli), il tono era stato molto e molto diverso. Che il 1978 sia stato un anno di graduale rasserenamento della situazione generale in Italia e di inizio di ripresa, non lo si può negare, non certo perché la carica sovversiva delle BR si fosse esaurita, ma per la più netta dissociazione espressa nei loro confronti e nei confronti del socialismo utopico dal fronte sindacale, a seguito – si può ben ritenere – della sterzata di Lama.
Le dimissioni del segretario PD Bersani sono state l’ovvia conclusione della campagna elettorale che ha interessato il Nostro Paese nei primi mesi di questo 2013, e che della sinistra italiana ha riproposto una versione prevalentemente tradizionalista.
Economia senza Finanza
– articolo di questa raccolta datato del 1978, ma di attualità più che allora – era giunto in fotocopia sul tavolo di Bersani. I timori che evocava erano seri. Se diventava sempre più difficile pagare le nostre importazioni con le nostre esportazioni (più gli introiti del turismo), forse che non saremmo stati sempre più costretti a vendere partecipazioni industriali, attrezzature alberghiere, beni naturali
per saldare i nostri conti? La risposta di Bersani, pronta e tranquillizzante – riportata dal TG –, fu: Noi lo impediremo !
Ma a ruota e più pertinente era seguita la replica-commento dello stesso TG: Quando anche solo la maggioranza relativa di un pacchetto azionario viene acquistata da un investitore straniero, ecco che già la proprietà intera è passata in mani straniere.
Cosa in realtà implicava quella risposta di Bersani e in quale contesto adeguatamente si collocasse, queste pagine possono aiutare a comprendere, ed è uno dei motivi per cui la campagna elettorale dell’allora segretario Bersani non è allora piaciuta ad una parte consistente del suo stesso partito.
Rispetto alla precedente edizione artigianale dal computer in fotocopie, aggiungo il mio intervento nel dibattito in corso nei primi anni ’80 sulla rivista inglese The Month e una più recente lettera a Gente Veneta del 2014 sul Contenzioso Intraeuropeo. Gli anni del terrorismo rosso a Mestre, con le esecuzioni BR dell’Ing. Sergio Gori (29.1.1980), del Commissario Alfredo Albanese (12.5.1980) e del Direttore del Petrolchimico di Porto Marghera, l’Ing. Giuseppe Taliercio (20.5.1981), sono stati di recente commemorati dalle locali Istituzioni, a conclusione dell’anno giubilare straordinario della misericordia.
Don Luigi Chitarin
LETTERE E DIBATTITI
Sulla Messa aziendale
(La Voce di s. Marco, 20 genn. 1973)
U.M. è certo un cristiano che crede nel valore della Messa e che frequenta – penso – l’Eucarestia nella sua parrocchia; ma proprio per questo egli si pone la questione della Messa aziendale. Altro è celebrare la Messa nella comunità di fede della propria parrocchia, dove la distinzione fra il momento religioso di preghiera e di culto a Dio e tutto il resto è in certo senso scontata (il che non significa soluzione di continuità e separazione), e altro è celebrare la Messa in un ambiente che sembra tale da strumentalizzare la stessa espressione religiosa, compromettendone la genuinità.
Ma leggendo più oltre la lettera di U. M., dove dice che «il messaggio evangelico non viene proposto come condanna della situazione ambientale ma come giustificazione», non si può non cogliere un giudizio che va al di là della questione della Messa aziendale. Anche la nozione di «contesto di disgregazione dei valori umani» sembra evocare una problematica più vasta di quanto sia riconducibile all’ambiente aziendale.
Che pensare nel complesso?
La Chiesa, disse papa Giovanni nel discorso di apertura del Concilio, «ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi mostrando la validità della sua dottrina, piuttosto che rinnovando condanne». Condannare può essere spesso troppo pericolosamente semplice. E se sarebbe stato particolarmente triste che un Concilio si fosse impegnato su questa seconda alternativa, data la sua eccezionale responsabilità, rimane un fatto sempre triste quando, presi dal pessimismo, diamo l’impressione di ridurci, con piccole varianti, alla constatazione che il mondo «giace tutto in potere del maligno» (o suo equivalente secolarizzato).
Le condanne comunque esistono: non pensiamo di porre la nostra prima di quelle del Vangelo. «Non potete servire a Dio e al denaro», e ancora «Chi non ama il suo fratello rimane nella morte», e con s. Paolo: «non sono scusabili perché, dopo aver conosciuto Dio, non gli hanno dato gloria come a Dio, ne gli hanno reso grazie».
La Messa perciò – come diceva U.M. – è «fare comunità in Cristo», ma non direi nel senso di un ritrovarsi fra amici, bensì come l’unico e imprescindibile modo di superare il muro dell’inimicizia che divide gli uomini. Ci chiediamo: il nostro pentimento e conversione a Cristo – certamente riproposti ad ogni celebrazione eucaristica ovunque avvenga – sono tali da vincere l’odio, la superbia, lo spirito di sopraffazione, la strumentalizzazione della religione che sono in noi, e da recuperarci alla solidarietà dell’amore operante? A questo proposito possiamo ricordare che la Chiesa primitiva voleva precise garanzie dai cristiani: escludeva, e riammetteva, solo dopo pubblica penitenza, chi era incorso nelle colpe più gravi; non regalava la sua comunione e il suo segno di pace. Non peccava di irenismo, così da farsi compromettere. Successivamente la forte disciplina della penitenza pubblica (amministrata dal Vescovo) fu lentamente erosa e sostituita dalla sua forma attuale di amministrazione privata, senza confronto più blanda. Ma oggi accetteremmo, ad esempio, di dover uscire di chiesa, su invito del celebrante dopo la recita del credo, qualora non ci trovassimo nelle condizioni di accostarci all’Eucarestia?
Se questo potesse avvenire non ci sarebbe più questione di Messa in parrocchia, sì, in fabbrica, no. Si discriminerebbe alla radice. Sarebbe chiaro a quali condizioni si è cristiani e quindi implicitamente a quali condizioni la Chiesa potrebbe anche dirsi presente in certi ambienti attraverso i cristiani. La collocazione ambientale diverrebbe del tutto secondaria, o meglio ne rimarrebbe solo l’aspetto positivo di un incontro fraterno, di un riconoscersi esplicitamente cristiani nello stesso ambiente dove si deve tradurre autenticamente il proprio cristianesimo, con tutte le difficoltà che questo comporta e nonostante l’opposizione dei non cristiani, dei falsi cristiani (coscienti o incoscienti) e la lentezza causata dai cristiani incoerenti.
Ma sarebbe questo ancora realizzabile come in passato? Lascio ad altri di immaginarne le difficoltà, mentre a qualcuno sembrerà strano il solo aver riproposto la questione in questi termini. Eppure, a parte alcune sottolineature, strano non è, sia perché la prassi della Chiesa primitiva è un fatto, sia perché la questione è molto analoga a quella che si pone quando ci si chiese se le condizioni richieste oggi per l’ammissione ai sacramenti sono così minimali da vanificare la parte che spetta all’uomo di responsabilità, consapevolezza, impegno cristiano autentico a tutti i livelli: condizioni che per quanto minimali, sono però le condizioni di fatto che bisogna accettare come dato di partenza sul quale inserire le realtà sacramentali.
Bisognerebbe in ogni caso ricordare che, pur nell’attenzione ad aguzzare la vista sul «peccato del nostro tempo», non si potrebbe contemporaneamente chiudere gli occhi sulle liste collaudate dei «peccati di sempre», specie dove la s. Scrittura dice: «Non illudetevi: è per questi peccati che viene l’ira di Dio sui figli ribelli» ( Efes. 5,6); sembra che per alcuni di questi peccati non sia proprio la fabbrica l’ambiente più espressamente consono.
È purtroppo certo che noi cristiani siamo in grado a volte di compromettere la Chiesa: questo solo pensiero dovrebbe darci immenso dolore: pensare che qualcuno si senta giustificato a non riconoscersi nella Chiesa perché noi cristiani siamo troppo peccatori. Evitiamo di domandarci se un tale scandalo possa essere sincero: da parte nostra non abbiamo fatto ancora tutto il possibile. Prima di temere o invocare i fulmini del cielo o da qualche altra parte, ricordiamo che il Signore si sarebbe accontentato, per non distruggere Sodoma, che ci fossero dieci giusti, da rendere così colpevoli della mancata «giustizia».
Per i tre peccati dell’industria, menzionati da U. M., avrei solo degli interrogativi da porre. Ad esempio: il tempo relativamente recente da quando è scattato l’allarme al proposito del pericolo di distruzione dell’ambiente naturale, è comunque sufficiente per consentire di parlare di vere responsabilità di omissione? E da parte di chi? Ancora: la sicurezza del posto di lavoro dev’essere garantita da ogni impresa singola o dev’essere trovata nel complesso? Non per negare l’esistenza di condizioni pesanti di lavoro, ma ci sono state, lungo l’industrializzazione, dei progressi nelle condizioni di lavoro che potrebbero essere ingiustamente dimenticati?
La responsabilità che la fabbrica sia «parte della società» rimane comunque di tutti, innanzitutto nel senso che l’orario di fabbrica non è l’unico impiego del proprio tempo, il lavoro non è l’unico valore, le controversie di lavoro l’unico peccato. La fabbrica non è più parte della società, ma distrugge l’uomo, quando diventa un assoluto che assorbe famiglia, società, religione, cultura, tempo libero, quando diventa unico valore e corrispettivamente unico peccato, quando arrivassimo a sentire la Chiesa compromessa col sistema, e per nulla il mondo liberato dal Cristo nella Chiesa.
Chiedo scusa della mia peregrinatio: tutto questo è molto insufficiente, come avrete la bontà di farmi osservare. Utilizzatelo almeno in parte, senza privarmi della vostra amicizia.
Una predica
(a seguito del ciclostilato su Merleau Ponty – primi anni ’70)
Chi vuol essere grande fra voi si farà vostro servo.
(Mc 10,43)
XXIX domenica ciclo B. La condizione, servile soprattutto dal punto di vista del rapporto servo-padrone, è stata oggetto di discussione anche fra i filosofi. Il francese Merleau-Ponty concludeva per la superiorità del servo sul padrone, in quanto che il servo accetta di vivere per gli altri, mentre il padrone – diceva questo filosofo – vive solo per se stesso. È evidente però l’eccessivo schematismo di questa raffigurazione, quasi che al nome servo e al nome padrone corrisponda sempre un unico tipo di realtà, senza variazioni significative – uno schematismo che derivava da una certa ideologia politica, nella quale anche la figura del padre, all’interno del mondo agricolo e a seguito di una lettura materialistica dei rapporti umani, finiva per essere vista come la figura del padre-padrone.
Ma forse che l’apologia che questo filosofo francese faceva del servo, costituiva una gratificazione sufficiente per le classi operaie, perché accettassero la loro condizione? Tuttaltro. Una volta demonizzata la condizione del padrone, l’unica aspirazione che rimaneva era il riscatto dalla condizione servile in una utopica società senza classi, nelle fabbriche statalizzate o nei Kolkoz. Vivere per gli altri rimaneva forse un ideale, ma chi poteva garantire la dignità di una tale condizione, così da farne l’oggetto di una libera scelta? E poi, chi ha detto che vivere per gli altri e servire voglia dire unicamente stare agli ordini altrui, cosicché il ruolo opposto, che si trova a dover ordinare e dare delle direttive, sarebbe da un lato una usurpazione della dignità altrui, ma una usurpazione necessaria, perché altrimenti nessuno avrebbe qualcuno o qualcosa a cui servire?
Certo, perché tutti si trovino nella giusta condizione di servire, è necessario un progetto veramente comune, utile per tutti, al quale tutti servano, e questo progetto in primo luogo è soltanto quello di Dio stesso. Entro questo fondamentale progetto di Dio, valido per tutti, ci potrà essere il posto per tutta una serie di sotto-progetti secondari, lasciati alle determinazioni umane. Ma fino a che non si conosce e riconosce la volontà di Dio e il progetto di Dio, gli sforzi umani necessariamente si pongono, almeno in parte, in alternativa ad esso.
È un grosso conflitto questo fra libertà e necessità, fra un vincolo servile che in modi diversi si rivela necessario, e il naturale anelito alla libertà. Come superare questo conflitto senza cadere in utopie, dove la libertà finisce per essere una promessa illusoria, che alla prova dei fatti cede subito a nuova forme di coartazione?
Un primo gradino per il superamento di questo conflitto sembra essere l’interiorizzazione della