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Ciascuno cresce solo se sognato
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Ciascuno cresce solo se sognato
E-book214 pagine3 ore

Ciascuno cresce solo se sognato

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Info su questo ebook

Francesca, insegnante di lettere, si trova a fare i conti con l’irruzione dell’epidemia nel mondo scolastico, tra obblighi, malesseri e difficoltà, che diventano in lei occasione di riandare alle radici del senso stesso della scuola, e del valore che ancora oggi ha conoscere i grandi autori della nostra civiltà.
Grazie al dialogo con Luca, un’amica e una studentessa speciale, e a uno di quegli incontri sorprendenti che talora la vita riserva, Francesca ritroverà la sua bussola e intravedrà altre possibilità, perché quando non se ne può più, cosa si fa? Si cambia!
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2022
ISBN9788855392266
Ciascuno cresce solo se sognato

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    Anteprima del libro

    Ciascuno cresce solo se sognato - Laura Valera

    CAPITOLO 1

    15 ottobre 2021, ore 7.50

    Cammina lenta, Francesca, con una borsa di stoffa colorata sulla spalla, zeppa di libri, che la sbilanciano, e nell’altra mano la ventiquattrore, col portatile e i quaderni degli alunni; nel pomeriggio ieri ha corretto i loro scritti, per lo più stilati a mano, la gran parte in corsivo, ma alcuni in stampatello, nonostante sappiano quanto a lei dia fastidio.

    Qualcuno invece ha optato per la videoscrittura, in classe c’è chi arriva col computer e lo usa anche per prendere appunti e ogni altra cosa.

    Francesca li lascia liberi, i suoi studenti: scelgano pure loro come scrivere! Lei, però, dichiara le sue preferenze.

    Non è neutrale il mezzo che si usa, influenza e condiziona il modo in cui i pensieri affiorano e si esprimono. Francesca riconosce i vantaggi della videoscrittura, ma non sono un valido motivo, ritiene, per disconoscere quelli della calligrafia, specie del corsivo, che adora, tranne quando è illeggibile e disordinato. Si meraviglia che la gran parte dei suoi studenti, specialmente tra le ragazze, scelgano proprio di scrivere a mano e non sa perché; anzi, ora che le duole la spalla appunto per il peso dei quaderni, pensa che dovrebbe proprio chiederne a loro la ragione, è curiosa.

    Certo, spesso ci si affida all’istinto nelle scelte, mica si può pensare sempre, date le miriadi di azioni che istante dopo istante compiamo; tuttavia, fermarsi ogni tanto e allenarsi a darsi una ragione di quel che si fa, crede sia un’ottima palestra per esercitare le menti a pensare e questo, in buona sostanza, Francesca è convinta sia lo scopo ultimo della sua professione.

    Quindi decide che aprirà con loro questa questione: perché hai scelto di scrivere a mano e cosa hai provato mentre lo facevi, quale differenza credi ci sia tra scrivere gli stessi pensieri a mano o usando la tastiera. Ottimo. Lo farà.

    E così pensando è arrivata alla base della scalinata d’ingresso, gli studenti affollati lì intorno a gruppetti, spontaneamente, le aprono un varco, affinché possa passare tra loro comodamente; è il loro un gesto di rispetto, qualcuno la saluta, ma la gran parte si limita a spostarsi, quasi che il saluto sia un po’ troppo stucchevole, un compiacimento interessato. Lei apprezza sentirsi vista, riconosciuta. Si spostano per farla entrare, non la ostacolano, forse sotto sotto sono contenti che lei sia arrivata, che ci sia. Così almeno è come lei legge il loro gesto, ma sa anche che forse è lei che ha bisogno di figurarselo così, per aver voglia di essere ancora oggi qua.

    C’è un tafferuglio sulla soglia. Antonietta, la bidella, sta piantata ieratica sulla porta semiaperta, ha in mano l’ipad: oggi è giorno di controlli e a Francesca il cuore salta un colpo, se lo sente in petto, battere il ritmo disordinatamente: forse è un suo cenno di stizza e ribellione, chissà. Pensa che non sopporterebbe doversene tornare a casa per riprendere il cellulare, che ha dimenticato spento sul comodino, come d’altronde le succede spesso, ma lì soltanto ha il suo green pass, e ora deve esibirlo, oggi va così. Ieri l’aveva in tasca, ma oggi è un altro giorno e Antonietta non accetta scuse, è il suo momento di rivalsa, il potere è lei qui, l’autorità. In classe no, dietro quella porta no, lì è chiaro chi comanda e quando Antonietta, dopo aver bussato entra, avverte a pelle il fastidio di Francesca a ogni sua incursione, interruzione. Ma ora qui, sulla soglia, il capo è lei.

    Francesca appoggia la ventiquattrore a terra e fruga nella borsa nervosamente, nella speranza di trovarlo lì, quel rettangolo fatale. Se almeno l’avesse stampato! Si rimprovera ora la sua fissa di risparmiare carta, uno dei vantaggi che riconosce alla rivoluzione digitale, per il resto, solo la definizione, le muove dentro una certa agitazione mista ad ansia.

    Alza gli occhi al cielo e allarga le braccia, è inutile, il cellulare non c’è! E incrocia lo sguardo implacabile, d’acciaio scintillante di Antonietta: «Spiacente ma dovrà tornare, so che ce l’ha, ma l’ipad deve registrare che tutto sia in ordine, non scaduto, bisogna lasciare traccia, una tracciatura digitale».

    «Già, certo, immagino. Ovviamente non dipende da lei, sono io la sbadata, ora però qualcuno dovrà sostituirmi, dovrò tornare a casa a prenderlo.»

    «Ma certo, stia tranquilla, ci siamo noi. Vada, vada, oramai il cellulare è come la testa, mai lasciarla in giro, meglio tenersela ben attaccata sulle spalle.»

    E inorridita Francesca visualizza l’immagine di se stessa con il telefono al posto del capo. Un turbinio contrastante di voci le frulla in testa e le si contraggono i muscoli del corpo, raggelandola.

    E no, cara Antonietta, il cellulare non sarà mai come la mia testa, la similitudine non regge, almeno non con me! Ma forse mi sto solo illudendo, abbarbicata come sono all’idea di me come essere pensante, che si avvale criticamente e con consapevolezza dei tanti vantaggi della tecnologia. Mi faccio ridere da sola. Me la canto e me la dico, ma io sono quella che prende in mano quel rettangolino nero in media tre volte all’ora su per giù, mangio con lui affianco, e a lui rivolgo l’ultimo sguardo prima di dormire e, ciò nonostante, mi illudo di farne un uso intelligente, non certo come quello degli altri, ovvero di tutti quelli che non sono me.

    E così pensando, Francesca volta le spalle ad Antonietta, per ripercorrere in discesa la scalinata gremita di studenti. Ma una fitta al torace la rallenta, piega il busto in avanti, trattenendo il respiro.

    È il cuore che piange. Il volto pallido e teso.

    Forse è proprio vero che non ho più la testa, e mi ostino a non volerla rimpiazzare col cellulare, perciò lo scordo a casa. O forse, semplicemente, a lui ho delegato parte dei compiti, lasciando spazio nella mia testa per altri pensieri, eppure oppongo resistenza, non mollo, i suoi servigi li vivo ancora come un esproprio di capacità, mentre forse lui è soltanto uno strumento di libertà? Domande, opposti che in Francesca ancora si guardano in cagnesco.

    Opposti che convivono, e lei, vigile come un arbitro, diplomatica, ascolta le ragioni, modera le parti.

    Ma è solo fugace il suo neutrale, pacifico distacco, parti opposte di lei sono in gioco nella mischia, ed è una lotta persa: sembra vincente la bambina ribelle, capricciosa, poi gira la medaglia e trova la bambina ubbidiente, che esegue gli ordini, quella appunto che docile sta andando a ripescare l’oggetto incriminato, a cui finge di resistere. L’adattata e la ribelle: due facce della stessa medaglia.

    Il dato è che senza non posso nemmeno lavorare.

    Mi serve il cellulare.

    Lì ho scaricato il mio lasciapassare.

    Certo però bastava che lo stampassi, ma tenendolo solo digitale mi sembrava meno reale.

    Qualcosa che c’è e non c’è, inconsistente, evanescente.

    Illusa che potessi dimenticarlo, rimuoverlo, una delle tante cose che si fanno perché da fare e prima le si fa meglio è, così poi si possono dimenticare, mettere da parte, rimuovere per poi continuare.

    Ma adesso l’assenza s’impone.

    «Prof, è da noi la prima ora, giusto? Guardi che questa volta quel testo mi ha proprio preso, nemmeno sono uscito ieri per scrivere il mio commento, glielo ho mandato che era già un po’ tardi, fuori tempo massimo probabilmente, ma l’ho fatto, questa volta l’ho fatto!»

    Un ragazzino basso, smilzo, con un berretto con la visiera girata sul collo e i jeans con due squarci profondi sulle ginocchia, interpella Francesca che è ormai sull’ultimo gradino, con un piede sulla soglia. Forse teme davvero che me ne stia andando e che non ci sia in classe? Allarga gli occhi dallo stupore, Francesca, e li pianta dritti in quelli del ragazzino: «Tranquillo, lo leggerò! Non so se tornerò in tempo, ma potete iniziare a parlare tra di voi anche senza di me delle Operette morali di Leopardi: fatelo, scambiandovi le frasi che più vi hanno colpito. Rileggetele ad alta voce, parlatene! Se non torno in tempo vi mando una traccia con alcune domande di spunto. Bravo Bianchi, bravo!»

    E Francesca si volta verso la strada, fa il passo, ed è fuori, oltre il cancello, sulla via. Oggi è lei quella che bigia, la smemorata che dimentica ciò che serve a casa. Accelera il passo come per sfuggire a un vago senso di colpa, e sente il peso del cuore: se respira a fondo, le duole.

    CAPITOLO 2

    Non c’è nessuno ad accoglierla in casa, ormai i suoi due ragazzi sono uccelli di bosco, è già tanto se tornano il fine settimana, sempre che non abbiano qualcosa di più interessante da fare in città, a Milano, dove studiano. In tal caso, gentilmente, glissano la visita e rinviano il ritorno in Valcuvia, da mamma e papà.

    Luca, invece, il marito di Francesca, rientra a mezzogiorno, giusto il tempo di pranzare insieme e riposarsi un po’, prima di riprendere a lavorare nel suo laboratorio di falegnameria, o continuare i giri per i clienti, che lo chiamano a riparare persiane rotte, infissi, porte o talora anche tavoli e pezzi d’arredo, che non si ha cuore di buttare, per i ricordi e la storia che portano con sé.

    Francesca percorre le stanze vuote con ancora la giacca addosso, va diretta in camera da letto e, come sospettava, trova il telefono ancora spento sul comodino, appoggiato su L’apprendista, di Gian Mario Villalta, il romanzo che sta leggendo in questi giorni. Ecco, ora è sufficiente che lo prenda e può tornare a scuola, lì ha la foto del green pass che accerta l’avvenuta vaccinazione.

    Fa due passi decisi per impossessarsene, ma una fitta improvvisa al petto la blocca. Porta la mano al petto, si piega in avanti, trattiene il respiro per un attimo, poi prova a espirare, lentamente, sperando di sciogliere e far fluire fuori dal suo corpo con l’espiro quel grumo di dolore. Non ha paura, pensa sia un banale dolore intercostale, le capita a volte, quando è tesa, come ora. Si siede sul bordo del letto, toglie le scarpe e appoggia i piedi a terra, quasi a voler trovare un punto fermo, solido, d’appoggio. Il dolore non passa, si attenua soltanto un po’. Sente il battito del suo cuore nel petto, a sbalzi, irregolare. Lo sente anche alle tempie, e la testa le duole, avverte la rigidità del collo, delle spalle, sollevate e chiuse in avanti.

    Nel silenzio assoluto della casa le campane del campanile battono le nove. È tardi. Dovrebbe essere in classe adesso. Si alza di scatto e la fitta le torna: paralizzante. Respira, una, due, tre volte, lentamente, profondamente; il dolore scema, resta il ritmo del cuore che batte disordinato. A malapena, faticosamente, riesce ad allungare il braccio e afferrare il cellulare, pensa che è necessario avvisare che ora non ce la fa a muoversi, a correre a scuola, ma tra poco starà meglio, è solo un dolore intercostale, come è venuto se ne andrà; è il cerchio alla testa che la preoccupa di più; l’emicrania, se comincia, quella sì che è in grado di bloccarla a letto.

    E si stupisce, Francesca, si stupisce di sé, perché, per assurdo, prova un moto di soddisfazione, di gratitudine questa volta per l’emicrania e per il suo cuore che fa le bizze: ora infatti non può proprio muoversi e correre per tornare in classe! Una valida ragione per stare a casa.

    Oggi proprio non ce la fa!

    Avviserà, si scuserà, starà tranquilla per un po’ qui nel suo letto, e poi vedrà, magari si collegherà on line; pensa che potrebbe sempre mandare con internet qualcosa da fare, ormai non è una novità per i ragazzi vedere la sua faccia proiettata sulla lavagna digitale invece che in carne e ossa in piedi, davanti alla cattedra, dove è solita stare, ma oggi no. Oggi il suo corpo le ha detto no.

    Accende il cellulare e avvisa che non sta bene, starà a casa, non ci sarà, forse tra un’ora si collegherà, se ce la farà.

    Appena ha inviato il messaggio alla direzione, sente scemare il dolore al petto. Il mal di testa invece no. Si cambia, si mette comoda e va in cerca di un antidolorifico, per cercare di stroncare sul nascere l’emicrania, che quando la prende può tenerle compagnia anche diversi giorni di fila; ormai conosce bene questa sua compagna abituale, chissà perché poi negli ultimi anni viene a trovarla così di frequente, ma son domande a cui non si sforza più di tanto di dare una risposta, convinta che non per tutto ci siano risposte. In genere quando arriva la combatte con la chimica e spera che si stanchi presto di lei e la lasci tornare alla sua vita abituale, con i suoi ritmi abbastanza frenetici.

    E mentre si prepara una tisana calda pensa ai passi delle Operette morali di Leopardi che ha scelto di far leggere ai suoi alunni di terza. Non c’erano quei brani nella loro antologia, ma non è stato certo difficile procurarsi il testo. In fondo l’insegnante ha una certa libertà, nonostante si senta sul collo la spada di Damocle del programma da completare e delle prove Invalsi da far superare dignitosamente, quale verifica dell’efficacia del proprio metodo di insegnamento e del pregio dell’istituto scolastico, l’azienda per cui lavora.

    Quando pensa alle prove Invalsi, spauracchio di alunni, professori e presidi, Francesca si sente infatti l’impiegata di un’azienda, chiamata a eseguire con competenza una serie di incarichi a lei affidati, come pratiche valutabili oggettivamente, verificabili. Se non tornano i conti qualcosa ci sarà che non va.

    Ma lei come può quantificare quel che hanno imparato i suoi studenti dalla lettura di Leopardi? Servirà a ottenere un miglior risultato nelle prove Invalsi? Ne dubita, ma non le importa. Lei ha ancora il suo margine di libertà, così l’ha speso, scegliendo di fare leggere loro proprio questi passi, e vuole che ne discutano anche, si facciano pure una loro opinione, che, se non sarà oggettiva, quantificabile, valutabile, sarà frutto di un loro sforzo, soggettivo, qualitativo, personalissimo di pensiero.

    E già, perché è una fatica pensare, si può anche sbagliare, e per questo Francesca ci tiene che discutano dei testi tra di loro e con lei, così sono costretti anche a esplicitare i loro pensieri, a renderne ragione, mettendoli in dialogo con quelli degli altri e allora si smussano gli angoli, si confutano errori, spesso si cambia idea o si scoprono sfumature nuove.

    Ma come può quantificare tutto questo processo Francesca? Come può valutare, dare un voto, ai pensieri che i suoi ragazzi hanno elaborato, ragionando insieme sulle Operette morali di Leopardi? In qualche modo ci proverà, sa che è il prezzo da pagare per esercitare la libertà di scegliere cosa insegnare, c’è poi sempre un confine dentro cui stare, regole da rispettare; anche la lingua ha le sue regole, precise, e queste le può valutare, gli errori li può contare. Su questo Francesca non transige, è esigente con i suoi ragazzi, con lei si lavora, si studia e generalmente i suoi alunni, anche se non perdono molto tempo in classe a esercitarsi sui test delle prove Invalsi, ottengono ottimi risultati, segno che i testi li comprendono molto bene e al termine del percorso scolastico vi arrivano con una buona padronanza della scrittura e della lettura: e tale padronanza, in buona sostanza, è per lei il fine del suo lavoro, come ha ben detto Gianni Rodari: Tutti gli usi della parola a tutti, non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo.

    Per Francesca lo scopo ultimo del suo lavoro è rendere più liberi gli uomini grazie alla parola.

    La padronanza della parola, letta, detta, scritta, quanto più è ampia e precisa, tanto più permette di pensare in modo ampio e preciso e dal pensiero passa la libertà: più il pensiero è in grado di cogliere diverse sfumature della realtà e sa esprimerle con chiarezza, più la persona sarà libera nelle sue scelte e nell’agire che ne consegue.

    Questo, pensa Francesca, è il motore del suo entrare ogni giorno in quelle classi, stare con i ragazzi, guardarli negli occhi, proporre loro testi su cui riflettere e poi ascoltarli per comprendere come quei testi stanno agendo in loro, che pensieri muovono, che idee. Per questo, dopo essersi accertata che abbiano colto quel che l’autore volesse dire, immancabile è il momento in cui chiede cosa ha detto a loro quel testo, cosa ne pensano, cosa li ha colpiti di più e perché.

    E chissà Leopardi cosa avrà smosso in loro.

    È contenta che almeno il dolore al petto le stia passando, vorrebbe riuscire a connettersi a distanza con i ragazzi, dargli qualche traccia di riflessione, accertarsi che non sprechino il tempo che, se fosse stata con loro, avrebbe dedicato a discutere del testo.

    In fondo lei con i ragazzi ci sta bene, è a scuola, dentro la struttura, che si sente soffocare.

    Vorrebbe far lezione all’aperto, sotto un albero, seduti sull’erba, pensa che starebbe molto meglio lì e chissà che forse anche queste terribili emicranie la verrebbero a trovare meno.

    CAPITOLO 3

    È suonato da poco mezzogiorno quando Luca varca la porta di casa. C’è silenzio dentro, non sente

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