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Notte Di Nebbia In Pianura
Notte Di Nebbia In Pianura
Notte Di Nebbia In Pianura
E-book141 pagine1 ora

Notte Di Nebbia In Pianura

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Info su questo ebook

È la notte di un 23 dicembre, l’antivigilia di Natale, tra i paesini e le cittadine della provincia lombarda, immersi nel freddo e nella nebbia della pianura padana. Qui si intersecano le vite di un gruppo di personaggi. Un avvocato fallito tiene una televendita di oggetti d’arte fasulli nello studio di una scalcinata televisione locale. Un giovane orfano, dalla mente semplice, si aggira per casa pensando all’infanzia, alla madre morta e alla vita troppo difficile. Un gruppo di amici, arricchiti da affari poco puliti, gioca una partita a poker in un cascinale, in compagnia delle giovani e belle amanti slave che, parlando tra loro, ripercorrono l’odissea della immigrazione e dello sfruttamento. Una giovane e ingenua donna italiana, arruolata a sua insaputa dal convivente arabo in una cellula terroristica islamica, viene condotta dal carcere a un luogo misterioso mentre l’ufficiale dei carabinieri che comanda la scorta rivanga il suo passato di allievo ufficiale. Un piccolo delinquente alcolizzato, in attesa del complice nel freddo della notte, beve bottiglie di Ceres e urla la sua rabbia tra bestemmie, oscenità e deliri di onnipotenza.

Un evento tragico che lentamente prende forma unirà queste storie, questi destini che si compiranno tutti alla fine di una notte di nebbia in pianura.

Notte Di Nebbia In Pianura, già pubblicato in cartaceo dall'editore Manni, completa, assieme a L'Odore Del Riso e a Sette Sono I Re, una potente trilogia della pianura di Angelo Ricci. Uno degli autori noir più interessanti del panorama italiano.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2015
ISBN9788898924509
Notte Di Nebbia In Pianura

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    Notte Di Nebbia In Pianura - Angelo Ricci

    33.

    1.

    «E così, anche per questa sera, abbiamo finito, signori. Come sempre, stare in vostra compagnia, è stata un’occasione unica. Arrivederci e grazie a tutti»

    Il capannone era giallo. Le porte erano di un verde smorto.

    «Eppure è in mezzo alla città. Però sembra in campagna».

    I pensieri te li trascini dentro. Tanto per avere qualche cosa da fare. Tanto per avere qualche cosa che ti distragga. Tanto per avere qualche cosa da dire.

    Dopo.

    Semmai.

    Arrivarci con la nebbia non è un problema. La nebbia la respiri.

    La modelli con il fiato che fai uscire dalla bocca.

    Come da piccoli.

    La nebbia ti piace perché ci sei nato dentro.

    «Osservate con calma questa caratteristica, signori».

    La nebbia ti piace. La nebbia fa la differenza. Perché questa terra esiste? Perché c’è la nebbia! Anche d’estate, quando non si riesce a dormire per l’afa appiccicosa, a cosa pensi? Che tra qualche mese tutto questo umido sarà nebbia. Solo e soltanto nebbia.

    Nebbia, nebbia e nebbia.

    È come a Milano. Ma qua è diverso. Là si fa per finta. Qua si fa per davvero. E quello che là c’è per davvero, qua c’è per finta.

    Il capannone adesso è più giallo. Il verde delle porte è meno smorto.

    «Sono solo trecentonovantanove euro».

    Io mi porto sempre tutto addosso. Tutte le sere. Anche quando non devo lavorare.

    «Ad un certo punto, se fa troppo caldo, fammi un segno, che io faccio accendere i ventilatori».

    Adesso fa freddo. Il freddo umido e pesante che ti ricorda che tra qualche giorno è Natale.

    Io mi porto sempre tutto addosso. Tutte le sere. Anche quando non devo lavorare.

    «Non è possibile che una laurea in legge non ti dia da mangiare!

    È solo che tu di voglia di lavorare non ne hai mai avuta!»

    Io mi porto sempre tutto addosso. Tutte le sere. Anche quando non devo lavorare.

    «Questa sera non ti dico di fare in fretta. È saltato un cavo esterno per il troppo gelo. Stai pure tranquillo. Ci vorrà almeno un quarto d’ora prima di cominciare».

    «Con calma signori. C’è tutto il tempo che volete a disposizione. Sono sempre e solo trecentonovantanove euro».

    Adesso il capannone è proprio giallo. Le porte però sono ancora di un verde troppo smorto.

    «Ricordate che il liceo di questa cittadina, anche se piccolo, ha sempre preparato benissimo tutte le generazioni di studenti che ci sono passate».

    «Con calma signori. C’è tutto il tempo».

    «Io faccio il preside di questa scuola da quasi trent’anni e non ricordo un solo nostro studente, uno solo, che poi all’università non si sia laureato con meno della lode e che poi non abbia trovato almeno un posto da dirigente».

    «Sono solo trecentonovantanove euro».

    C’è così tanta nebbia stasera che non si vede nemmeno il campanile del Duomo. Eppure sarà a duecento metri.

    «Osservate signori, questa nuova proposta che vi facciamo».

    A sinistra c’è solo un buco. Grigio e giallo dove c’è il lampione.

    Più chiaro dove la via finisce e sbuca in piazza ducale.

    Sembra uno sbadiglio.

    Adesso anche il verde troppo smorto delle porte si vede meglio. Basta avvicinarsi. Basta andare più vicino per riuscire ad aprirsi un varco. Un varco tra tutta questa nebbia. Tutta questa nebbia che ti si apre davanti, giusto quel poco di tempo necessario per richiudersi subito alle tue spalle e farti capire che ne sei prigioniero.

    Senza scampo.

    Io mi porto sempre tutto addosso. Tutte le sere. Anche quando non devo lavorare.

    Lo faccio perché è più comodo. Lo faccio perché così non rischio di perdere niente. Niente di quello che sono stato. Niente di quello che forse sarò.

    Con tutta questa nebbia.

    «Coraggio, signori. Sono solo trecentonovantanove euro».

    Il portone dal verde troppo smorto si apre con facilità. Dentro è quasi tutto vuoto. Anche qui c’è posto per la nebbia.

    «Eppure è in mezzo alla città. Però sembra in campagna».

    I pensieri. I pensieri bisogna che vadano da soli. Così tengono compagnia. Così non ne vengono di peggiori.

    «Coraggio, signori. Non potete non approfittare di questa offerta natalizia. Osservate la mano sicura dell’artista. Osservate il fine cesello dell’artigiano».

    Io mi porto sempre tutto addosso. Tutte le sere. Anche quando non devo lavorare.

    È più comodo.

    «Sono sempre e soltanto trecentonovantanove euro. Approfittatene, signori. Dopodomani è Natale».

    2.

    Zio cagnazzo, brutta puttana di una vacca eva, sti cazzi dimmerda, dio bonazzo. Essì, proprio proprio essì. Son proprio cazzacci amari da spompinarsi fino alla golazza profondazza.

    Così dava fuori il cervellino dello Sticazzi. Sissì, oh sissì, oh proprio sissì.

    Che freddo, diobono che freddo. Che gelo. Che nebbia dimmerda, porcacciobbestia, zio cagnazzo.

    Guarda te diobono, zio bonazzo, alle due de las noches come dice quella troiazza che vende i videoporno in tv, che mezza Italia ci si fa le seghe.

    Che freddo, zoccolacciatroia. Alle due di notte davanti alla stazione di questo paesone dimmerda perso in mezzo alle risaie del cazzo, che mi esce la nebbia dal buco del culo e non c’è neanche una nigeriana che batte.

    Così esplodeva il cervellino dello Sticazzi. E giù una ceres, e giù un’altra ceres, e giù la terza ceres.

    Che quel coglionazzo del pizzaiolo, mi fa, chiudo all’unemezza.

    Ma vai a scopare il mare, pigliacazzinculo.

    E allo Sticazzi cominciava a montare su dai piani bassi una certa incazzatura. Che se adesso mi arrivano qui davanti bei belli il maresciallo col brigadiere gli apro la figa e ci sputo dentro.

    E giù anche la quarta ceres, che adesso mi va proprio di spisciazzare giù giù nella fontana merdosa davanti alla stazione del cazzo.

    Che tutte le mattine, diobono, mezzeseghe e culattoni, tutti in fila, papini e mammine, a prenderlo nel culo e a darla via, brutte troie, per lo stipendio del cazzo dimmerda.

    E alle due di notte, davanti a quella stazione persa in mezzo alle risaie del cazzo, con la nebbia e il freddo che gli rimpisellivano l’uccellino, lo Sticazzi spisciazzava e spisciazzava nella fontana.

    Che bel rumorazzo dimmerda. Un bel rimbollimento di acqua e piscia gelata del cazzo, che sembra che nell’acqua c’è il mio buco del culo che sta scoreggiando, oh vacca eva.

    Che freddo, diobono che freddo. E la mia pisciazza bella calda gli scioglie un po’ il ghiaccio dimmerda a sta fontana del cazzo. Che quei coglioni e froci del sindaco e della giunta la fontana la chiudono d’estate che fa caldo e te la tengono aperta d’inverno, che porca troia c’ho il ghiaccio fin dentro alle pallazze solo a vederla. St’acqua dimmerda.

    Sticazzi, la pianti di rompere i coglioni e la quiete pubblica? E i due carramba si sollazzavano la vista da segaioli, sparando il faro dimmerda della loro auto nera del cazzo.

    Allora Sticazzi, pezzo di stronzo, vuoi farti una bella nottata a spese dello stato e prenderlo nel culo da qualche albanese? Tutto compreso s’intende.

    E giù a ridere i due terronazzi, neri neri come i peli del culo della troia pompinara della loro madre.

    Allora Sticazzi? Ci atteggiamo eh? Allora la piantiamo di rompere il cazzo a quest’ora del cazzo, porcoddio?

    Mavvaffanculazzotroiadiunammerda a sti due terroni che l’ho già detto e pensato e spisciazzato col mio bel litrazzo di ceresc’è.

    E giù ancora a ridere ste duemmerde nerazze e puzzolenti, col loro faro che c’illuminassero la figa della loro mamminatroia.

    Non faccio un beato cazzo di niente marescià. Non disturbo la quiete pubblica, marescià. È solo che c’ho la vescica dimmerda da svuotare del mio bel litrazzo di ceres c’è.

    E vacci a quella casa tua del cazzo a pisciare, Sticazzi coglione, e non sul suolo pubblico.

    Ma checcazzaccio di suolo pubblico dimmerda oh marescià oh brigadié, sto spisciazzando nella fontana del cazzo che i froci della giunta mi chiudono d’estate col caldazzo dimmerda e mi tengono aperta adesso che c’è il freddo che mi congela fin dentro il bucio, oh zio scagnino.

    E col piscio che sfluiva dalla sua vescica allo Sticazzi gli sfluiva a poco a poco diobonino anche l’incazzatura dal suo cervellino del cazzo.

    E vabbè, e vabbè oh marescià oh brigadié, adesso calmino calmino ritiro l’uccello nella sua braghetta diobonino e vado fuori dai coglioni, che è solo perché siete due carramba dimmerda che non vi sbrano la facciazza da froci e vi prendo a calci nelle gengive.

    Così stava intensamente rumoreggiando il cervellino dello Sticazzi, che i due terronazzi in divisa saltavano sulla loro alfa dimmerda e spegnevano il loro farazzo del cazzotroiadellaloromammina.

    Perché abbiamo una chiamata urgente alla frazione dopo il sottopasso, se no ti spaccavamo il culo, Sticazzi. E fila a casa!

    E allo Sticazzi l’incazzatura adesso adesso finita nella fontana del cazzo assieme al litrazzo di ceresc’è, improvvisamente ricominciava a tornargli piena dimmerda davanti agli occhi del cazzo.

    Mavvaffanculoporcatroiaevazzadimmerda. Un bel litrazzo di ceres rovinato da ste duemmerde del cazzo di terronazzi in divisa. Ma tutto sommato, oh sissì oh sissì, era poi tutta una gran scena dimmerda, una gran pigliata per finta su per il buco del culazzo, una gran troiata come nei

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