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Il mito della violenza
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E-book386 pagine4 ore

Il mito della violenza

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Info su questo ebook

"Dopo la ricerca di senso sul nostro "essere al mondo" sviluppata nel volume "Fede Laica" e l'esame storico, ne "La Perla dai mille riflessi", del rilevante contributo del messaggio evangelico all'evoluzione della civiltà, la presente opera completa la trilogia soffermandosi sul grande tema della violenza, da sempre mitizzata come lo strumento più diretto per ottenere ciò che si vuole, a prezzo però di contese anche molto sanguinose.

Questo libro - con un'esposizione scorrevole, non retorica e ricca di autorevoli riferimenti - invita a prendere chiara consapevolezza delle tragedie generate nel corso della storia dalla violenza fra nazioni, religioni, etnie, classi sociali, persone fisiche. Consapevolezza essenziale soprattutto per i giovani, che le guerre non le hanno conosciute e che sono cresciuti in questo Occidente falsamente pacifista in cui la violenza, lungi dall'essere bandita, viene nascosta oppure attribuita agli altri ed esibita come uno spettacolo hard da consumarsi sul divano davanti alla TV, facendo perdere ai nostri occhi concretezza alla follia di uomini che uccidono altri uomini. Una follia che però, nonostante tutto, non riesce ad uccidere la speranza. "
LinguaItaliano
Data di uscita16 feb 2018
ISBN9788827812839
Il mito della violenza

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    Anteprima del libro

    Il mito della violenza - Mario Di Stefano

    L’Autore

    Le radici della violenza: la ricchezza senza lavoro, il piacere senza coscienza, la conoscenza senza carattere, il commercio senza etica, la scienza senza umanità, il culto senza sacrificio, la politica senza principi.

    (Mahatma Gandhi)

    I.- MALE E VIOLENZA NELLA CONCEZIONE GRECA E GIUDAICO-CRISTIANA

    Il mito dell’origine e della sconfitta del male

    In natura ogni cosa è misteriosamente intrecciata a tutte le altre. Il buio è legato alla luce poiché offre ad essa le ombre e i contorni che le permettono di renderci visibili le forme di questo mondo. Avvinghiato al bene, come il buio lo è con la luce e la notte con il giorno, il male è un problema sfuggente sul quale i filosofi e i teologi di tutti i tempi hanno confrontato le loro visioni del mondo.

    Qui ci limitiamo a ricordare che per sant’Agostino il male non ha una sua realtà ma è soltanto una mancanza di bene poiché Dio non crea il male, ovvero il non-essere, ma solamente il Bene, ovvero l’essere. La tradizione cristiana però non si accontenta di questa concezione in negativo del male, né d’altra parte può ammettere l’esistenza del male personificato in un vero antagonista di Dio, cioè in un demonio di pari potenza (come è nel Zoroastrismo) poiché ciò metterebbe in discussione l’onnipotenza di Dio stesso.

    L’origine del male

    Secondo le spiegazioni che ne dà la mitologia cristiana, il male avrebbe avuto una doppia origine.

    Prima, con la sua ribellione, l’arcangelo Lucifero si sarebbe trasformato nel demonio Satana, la personificazione del male che perciò non è origine di sé stessa ma è un angelo decaduto creato anch’esso da Dio, a cui quindi tutto viene ricondotto. Successivamente il male sarebbe stato introdotto nel mondo attraverso la trasgressione di Adamo ed Eva allorché, nel cogliere su istigazione del demonio il frutto proibito, essi pretesero di competere con Dio acquisendo la conoscenza del bene e del male. Sia Lucifero che Adamo, non paghi dei privilegi ottenuti da Dio, avrebbero compiuto quindi un analogo peccato di orgoglio, considerato dalla Chiesa all’origine del male nel mondo.

    Diversa è l’interpretazione dello gnosticismo cristiano e del manicheismo, i quali hanno invece soprattutto visto nella trasgressione di Adamo e nella tentazione del serpente-demonio l’origine dell’emancipazione dell’uomo sulla via della conoscenza, contro la volontà del Dio-padre che avrebbe voluto invece mantenerlo in uno stato di felice minorità. Secondo questa interpretazione - che ha trovato echi nell'Illuminismo, nella Massoneria, nel Rosacrocianesimo, ecc. - la libertà dell’uomo non sarebbe stata quindi un dono di Dio ma una conquista dell’uomo stesso avvenuta, con la complicità del demonio, mediante un atto di ribellione verso il loro creatore. Questa idea di Lucifero come principio positivo della libertà e il suo accostamento alla figura di Prometeo, punito per aver donato il fuoco agli uomini, sono motivi ripresi da una lunga tradizione gnostica e recepiti nel Romanticismo di Byron, di Shelley, di Baudelaire.

    Si tratta di un’interpretazione ovviamente non accettata dalla Chiesa, che non ammette assolutamente che dal demonio possa nascere qualcosa di positivo per l’uomo e che non riconosce attenuanti al peccato originale commesso da Adamo e lasciato in eredità a tutti gli uomini. A un così enorme atto di superbia la Chiesa attribuisce infatti la responsabilità di aver introdotto la morte e il male nella Creazione, che di per sé era invece perfetta. Interpretazione questa che la Chiesa stessa ha inoltre rafforzato attribuendo spesso alla trasgressione di Adamo una motivazione di natura sessuale (non legata quindi al suo desiderio di conoscenza del bene e del male di cui parla la Genesi) e ribadendo così, in sostanziale contrasto con il racconto biblico, che la libertà dell’uomo non sarebbe una sua conquista ma un dono di Dio.

    La concezione dualistica fra bene e male è presente pure nella psicanalisi di Freud, secondo cui esisterebbe non già un solo principio, cioè il Bene, ma un antagonismo tra due opposti principi: il Bene e il Male; antagonismo che rispecchia quello fra Dio e la sua ombra, fra pulsioni di vita e pulsioni di morte. Anche la psicanalisi utilizza quindi l’immagine del diavolo, che però è per essa solo una metafora del male. Come dice Freud, Il diavolo non è altro che la personificazione della vita pulsionale inconscia rimossa. Jung riprende invece l’antica spiegazione gnostica di un Dio buono ma non onnipotente poiché limitato da un vero potere antagonista.

    Come noto, il dualismo fra bene e male presente in ogni uomo è stato inoltre magistralmente rappresentato dallo scrittore Robert Stevenson nei suoi celebri personaggi del dottor Jekyll e di Mr. Hyde, personificazioni dello sdoppiamento della coscienza umana fra la componente positiva e quella negativa, in continua lotta fra loro per conquistarne il dominio.

    La lotta finale fra il bene e il male

    L’irriducibile contrasto tra queste due forze ci viene rappresentata con straordinaria drammaticità nel libro profetico dell’Apocalisse, in cui la loro lotta viene proiettata alla fine dei tempi e nelle sue estreme conseguenze. Secondo tale poema visionario, il male prima di essere distrutto dal bene deve emergere in tutto il suo potenziale catastrofico, dopo di che esso potrà venire finalmente sradicato e la Bestia potrà essere annientata. Si avvereranno allora sulla terra (cap. 20) i Mille anni di gloria, pieni di santità, bellezza, pace e prosperità (da cui hanno preso spunto i cosiddetti Movimenti millenaristici) con la promessa di una nuova alleanza tra Dio e gli uomini per il rinnovamento di questo mondo prima della sua fine e nell’attesa del Giudizio Universale. Ciò, anche se ci si potrebbe chiedere come mai Dio onnipotente non distrugga il Demonio subito anziché rimandare la resa dei conti alla fine dei tempi consentendogli di esercitare il male lungo tutta la storia dell’umanità. Ma questa, al pari di tante altre, è una domanda al di fuori della nostra portata.

    Nella storia del Cristianesimo, il Millenarismo è la credenza e l’attesa del Regno di Cristo in terra prima del giudizio finale, regno riservato ai soli giusti e destinato a durare mille anni; visione questa in un certo senso analoga al Messianismo giudaico, che confida nell’attesa di un profeta riformatore o rivoluzionario. Originatisi da quest’ultimo, i Movimenti millenaristici furono assai diffusi nel cristianesimo primitivo e poi ripresi in età moderna da alcune sette riformate, specialmente nel mondo anglosassone. Essi cercano, secondo la radicata aspirazione umana, di vedere il dopo, la vittoria del bene sul male e la fine del mondo, intesa in senso teologico, e alla quale i giusti assisteranno (mentre in senso scientifico la fine del mondo è un evento assai concreto e certo, che avverrà senza spettatori).

    Riguardo a queste visioni sorge però una riflessione. Soggetto concreto della storia del mondo non è né la storia né il mondo ma l’uomo, inteso non nell’accezione collettiva di umanità ma come tanti singoli individui, ciascuno con le sue aspirazioni alla giustizia e alla propria fetta di felicità. Ogni ideale di rinnovamento e di progresso, se vuole anche essere giusto, è quindi all’uomo singolo che dovrebbe concretamente riferirsi, e non genericamente e retoricamente all’ente collettivo che chiamiamo umanità. Che volete infatti che importi in fondo a ciascuno di noi sapere che forse fra 1.000 o 10.000 anni l’umanità sarà migliore e più felice poiché il male verrà sconfitto dal bene? Gli sforzi che molti spiriti generosi compiono per prefigurare tali luminosi lontanissimi traguardi sono sicuramente apprezzabili, ma non riescono a confortare in concreto le speranze di tutti coloro che sono venuti e che verranno in questo mondo prima che tale sogno eventualmente si realizzi. Appare quindi difficilmente comprensibile il miraggio di un Millenarismo che guarda a un’epoca di felicità collocata in un remoto futuro, tanto più che l’orizzonte cristiano va ben al di là di ogni possibile traguardo terreno, sia nostro che dei nostri lontanissimi nipoti.

    Diverso è ovviamente il discorso per quei movimenti di protesta, a volte chiamati anch’essi impropriamente millenaristici, volti al rinnovamento dell’attuale ordine sociale ed animati dalla fede in una età futura di maggiore perfezione e benessere. Tali movimenti - il cui orizzonte temporale, anche se lungo, è comunque alla portata quanto meno della nostra immaginazione - sono di solito l’espressione di un profondo disagio sociale, del quale essi vogliono essere la risposta.

    Secondo Max Weber, convivono in loro i seguenti impulsi:

    - la nostalgia del paradiso perduto e l’aspirazione a trascendere l’esistente;

    - il desiderio di sfuggire alla morsa della realtà, particolarmente intenso nelle situazioni di crisi violenta;

    - la speranza in un futuro migliore da parte delle vittime delle ingiustizie sociali;

    Nel mondo contemporaneo vi rientrano movimenti come quello comunista fondato da Marx e quello nazionalsocialista nato dalle allucinate visioni di Hitler.

    Dolore e peccato

    Senza una colpa che lo provoca, il male è soltanto dolore determinato dal cieco comportamento della natura. Se il male si collega invece ad una responsabilità, allora nasce in chi lo provoca la colpa o, secondo la religione cristiana, il peccato, cioè la colpa verso Dio e agli occhi di Dio. Così, mentre per il mito greco il dolore e la morte facevano inevitabilmente parte dell’ordine della natura, per la concezione giudaico-cristiana tradizionale è la colpa dell’uomo, fatta risalire al peccato originale, che genera il dolore e la morte.

    Questo spostamento del dolore e della morte sul piano etico è alla base dell’idea di salvezza proclamata dal Cristianesimo e, quindi, di quel cammino redentivo che l’Ebraismo vive come attesa che si avveri la promessa divina e il Cristianesimo come evento realizzato con la morte e la risurrezione di Cristo.

    Grandi sensi di colpa e dolorismo sono gli effetti provocati nei secoli passati da un’interpretazione del sacrificio di Cristo come pagamento di un debito per il riscatto dei nostri peccati dovuto a Dio Padre (dottrina della soddisfazione o dell’espiazione) o al Diavolo (dottrina dei diritti del Demonio), e non invece come un immenso atto di amore e di misericordia che, sopravanzando il concetto di giustizia, ha donato agli uomini la speranza della salvezza.

    In ogni caso è umano chiedersi come mai Dio consenta, accanto al bene, anche la possibilità del male e del dolore. La visione giudaico-cristiana tradizionale ha risolto la contraddizione attribuendo la bontà alla natura in quanto creata da Dio e la crudeltà e il male all’uomo che, con il suo peccato originale, avrebbe compromesso l’armonia della creazione. Come osserva il teologo Vito Mancuso¹, con l’elaborazione del peccato originale (iniziata da san Paolo e culminata quattro secoli dopo da sant’Agostino), il Cristianesimo riesce nell’impresa di tenere insieme la bontà originaria della creazione e del Creatore con la realtà di un mondo in preda all’ingiustizia e al disordine (che è, in realtà, un disordine assai ordinato se rapportato al caos primordiale dal quale proviene). Il prezzo pagato, osserva Mamcuso, è stato però altissimo: è l’aver caricato sulle spalle degli uomini (oltreché su una potenza maligna) la responsabilità per il male del mondo, inaugurando una teologia e un’antropologia che hanno introdotto nella storia dei popoli occidentali infiniti sensi di colpa. Ciò, anche a causa di una ossessiva concezione del sesso come occasione di peccato anziché come miracolosa fonte della vita, concezione che ha fra l’altro portato la Chiesa a considerare la verginità come virtù suprema.

    L’atteggiamento sessuofobico della Chiesa cattolica tradizionale deriva pure dall’aver cambiato nel proprio catechismo l’originario comandamento Non commettere adulterio nel generico Non commettere atti impuri, con la conseguenza sia di bollare come peccato ogni atto sessuale al di fuori del matrimonio, allargando grandemente il perimetro di questo genere di peccato, considerato con evidente esagerazione fra i più riprovevoli.

    Ciò ha portato molti sacerdoti a porre nei confessionali puntigliose domande in materia di comportamento sessuale, soprattutto ai ragazzi alle prese con le loro prime esuberanze ormonali, creando loro assurdi e spesso dolorosi sensi di colpa e deformandone spesso per tutta la vita la scala dei valori morali con una visione del sesso come cosa sporca - gli atti impuri - anziché come sorgente del miracolo della vita.

    Si è già osservato che secondo il Cristianesimo tradizionale il dolore viene considerato (pur senza il cinico estremismo dei cattolici più integralisti), un’occasione di purificazione per i nostri peccati e una prova a cui veniamo sottoposti per acquisire meriti in questo mondo a beneficio dell’aldilà. Esso cioè dovrebbe essere non solo sopportato come pensavano gli antichi stoici (substine et abstine)² ma addirittura accolto con gioia: Considerate perfetta letizia, fratelli miei, quando subite ogni sorta di prove scriveva Giacomo (Gc 1,2). Detta concezione, che considera lo spirito come antitesi della carne, se da un lato allevia il dolore considerandolo un male provvisorio e in un certo senso anche fruttuoso, dall’altro tende però a sminuire la bellezza e i piaceri della vita terrena, considerata una valle di lacrime inevitabilmente destinata al dolore, al quale converrebbe quindi rassegnarsi. Concezione questa che, pure se oggi in parte superata, ha intristito pesantemente l’esistenza di moltissime generazioni di cristiani.

    Al riguardo, Umberto Galimberti osserva³ che la morale della Chiesa romana, l’etica dei calvinisti, il pietismo dei luterani, il puritanesimo dei metodisti, il moralismo degli anabattisti hanno diffuso quella spiritualità asfittica che, guardata da vicino, sembra custodire come suo malcelato segreto null’altro che la delimitazione del desiderio. Fu così che milioni di uomini hanno vissuto la loro vita sulla terra in un inferno di desideri rimossi, di angosce profonde, di colpe immaginarie, di mutilazioni di vite senza eros, per avere identificato l’eros con la carne, la carne con il peccato, lo spirito con la purezza e l’innocenza.

    Su questa linea, il filosofo greco Christos Yannaras afferma: Separato dalla carne, lo spirito divenne esangue, quasi una morte strisciante. Il messaggio del Vangelo viene così sostanzialmente tradito poiché a coloro che l’hanno seguita, questa regola e i suoi rigidi princìpi non negoziabili hanno tarpato le ali agli slanci del cuore, mentre è lo stesso Gesù a mettere in guardia contro tale rischio laddove dice: Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato (Mc 2,27). In realtà l’eros può congiungere lo spirito con la carne e, al riguardo, Yannaras scrive ancora che esso è la sola degustazione del Regno, il solo superamento della morte perché solo se esci dal tuo io, sia pure per gli occhi belli di una zingara, sai cosa domandi a Dio e perché corri dietro a Lui.

    Inoltre, la concezione del dolore come espiazione di colpe reali o presunte, se può essere accettata da chi è colpito da mali di non grande portata, mal si concilia però con la misericordia di Dio quando riguarda disgrazie insopportabili e ingiuste. Non si può consolare una madre che ha perso il figlio oppure un figlio che ha perso la madre dicendo loro che questo serve a purificarli delle loro colpe e ad accumulare meriti per il paradiso.

    _____________________

    ¹ Vito Mancuso, Il principio passione, Garzanti, Milano 2013, p.75

    ² Alla domanda sul perché il male colpisca anche i virtuosi, nel 60 d.C. Seneca, in linea con la tradizione stoica, rispondeva nel suo De Providentia che i mali sono prove alle quali la provvidenza sottopone anche i boni viri affinché essi esercitino la virtù. Il saggio non deve infatti considerare le sventure, le calamità, i lutti come cose moralmente cattive, ma come indifferenda, come aspetti di una realtà mondana creata e voluta da Dio. Astenendosi da ogni valutazione, diventa così possibile per lui accettare gli accadimenti negativi (incommoda) come occasioni per perfezionare la propria virtù, controllando le passioni e avvicinandosi a Dio, concezione questa a cui probabilmente si ispirarono le prime teodicee cristiane, fra cui quella di Paolo.

    ³ Umberto Galimberti, Cristianesimo, la religione dal cielo vuoto, Feltrinelli, Milano.

    II. - IL MALE E IL SILENZIO DI DIO

    L’esistenza del male, oltre ai nefasti effetti sulla vita pratica degli uomini, rappresenta come noto anche un problema teologico assai arduo (la cosiddetta teodicea), che si pone in contraddizione con la fede in un Dio giusto, misericordioso e onnipotente.

    Per cercare di approfondire tale difficile argomento è innanzitutto necessaria la distinzione fra il male prodotto dai comportamenti umani materialmente o psicologicamente violenti e il male causato dalla violenza cieca dei disastri naturali, epidemie, malattie ed altri flagelli non riconducibili a tali comportamenti.

    Il male prodotto dall’uomo

    I mali provocati direttamente o indirettamente dall’uomo generano sempre violenza. Essi possono essere fatti risalire, in tutte le loro svariate manifestazioni, a tre matrici principali: l’egoismo, il fanatismo e la paura-odio del diverso, le ultime due essendo comunque pur sempre espressioni di un egoismo esaltato e irrazionale.

    L’egoismo fonte della violenza

    L’egoismo, cioè l’amore incondizionato per sé stessi, è il più potente dei sentimenti, che, andando molto al di là di un sano amor proprio, è praticamente la fonte di tutte le ingiustizie e le crudeltà del mondo. Esso trova la rappresentazione più profonda nel mito di Narciso, incapace di vedere e di amare veramente nessun’altro al di fuori di sé stesso e, quindi, aperto alla tentazione della violenza..

    Per una persona, la conseguenza forse più deleteria prodotta dall’egoismo e dal narcisismo è la grande difficoltà a prendere atto dei propri errori. L’uomo è per sua natura portato a sbagliare, cosa che non è così grave se poi riconosce l’errore e si corregge. Il vero problema nasce quando egli, non trovando in sé stesso il coraggio dell’umiltà e della sincerità, pur di non smentire il suo vanitoso ego persevera nell’errore fino alle peggiori conseguenze. E’ questo sostanzialmente il perverso meccanismo da cui nascono i maggiori problemi e i più orribili crimini. Hitler, Stalin e Mao, i più grandi fabbricanti di morte della storia, non erano degli stupidi, e quindi a un certo punto debbono essersi resi certamente conto della tragica china nella quale i loro folli progetti di conquista e di riforma sociale li stavano spingendo. Però lo smisurato orgoglio che li animava ha impedito loro di fare autocritica e di fermarsi, trascinandoli assieme ai rispettivi disgraziati popoli in vortici di orrore senza fine. Come dice il proverbio, sbagliare è umano e quindi scusabile; quello che però è certamente diabolico e imperdonabile è procedere consapevolmente e ostinatamente sulla strada sbagliata. E’ questa la vera colpa.

    L’egoismo è un ingrediente che, spesso mascherato di moralismo intollerante, in varie dosi entra in tutti i nostri atteggiamenti nei confronti degli altri, riconducendoli più o meno alle seguenti tipologie di base:

    - la sopraffazione: quello che è mio è mio e, se posso, metto le mani anche su quello che è tuo;

    - l’egoismo cieco: quello che è mio è mio e degli altri non me ne importa niente, anzi, non li vedo nemmeno;

    - la solidarietà: quello che è mio sono disposto a condividerlo con chi ha meno di me.

    Sono questi i tre colori fondamentali che in varie dosi si mischiano nella tavolozza dei nostri comportamenti sociali, determinandone - a seconda del loro maggiore o minore tasso di egoismo - l’assai variegato spettro: dalla rapacità violenta, al razzismo, all’indifferenza, alla generosità, al sacrificio. Ma, mentre gli ultimi due comportamenti nascono dall’impulso a condividere i nostri beni (soldi, tempo o altro) quando vediamo che essi sarebbero molto più utili al prossimo che a noi, invece negli altri due atteggiamenti del prossimo non ci importa niente o addirittura non lo consideriamo nemmeno (come faceva il ricco epulone con Lazzaro). All’interno di questi atteggiamenti di base si manifestano con le più diverse sfumature gli svariati travestimenti dell’egoismo, quali: la cupidigia, in cui esso presenta allo stato puro come brama di ricchezza e di potere; il moralismo e il fanatismo ideologico e religioso, che rendono il proprio ristretto punto di vista impermeabile alle ragioni altrui; le pulsioni del razzismo, del classismo e dell’omofobia, generate dalla paura inconscia del diverso; la gelosia, cioè la paura di perdere la persona che è oggetto (nel senso letterale del termine) del proprio amore; la crudeltà (la più disumana delle passioni, l’antitesi esatta della carità cristiana) alimentata dall’invidia, dalla vendetta o dal sadismo, il peggiore degli istinti che fa compiere il male per il piacere di dominare gli altri ed assistere allo spettacolo della loro sofferenza.

    E’ assai difficile che i sadici ammettano di essere tali e, se scoperti, cercheranno di giustificarsi come fanno i bambini sorpresi dalla mamma mentre sfogano il loro sadismo infantile (inconsapevole e per fortuna transitorio) a spese di piccoli animali indifesi. Viene in mente quel marmocchio che, chino su una processione di formiche, ne adocchia una e, mentre la schiaccia con un dito, esclama con finta compassione: Poveretta, ma quanto sei sfortunata!.

    Vi è infine da osservare che molte di queste forme di egoismo sono scatenate da quella potente e ambivalente passione umana che è l’ambizione, una medaglia a due facce che, come osservava Edmund Burke (Lettere su una pace regicida), o striscia o vola.

    In sostanza, tutte le forme di violenza dell’uomo sull’uomo derivano più o meno direttamente dalla volontà di favorire sé stessi a scapito del prossimo e dei suoi diritti naturali o giuridici. Derivano cioè dalle tante forme di egoismo che - usando le armi della violenza, della prevaricazione fisica e verbale, del raggiro, della calunnia, della menzogna, dell’ipocrisia - si sostanziano in un modo o nell’altro in veri e propri furti dei beni, della reputazione, dei meriti, delle speranze, della fiducia, della salute e perfino della vita degli altri. Furti che vengono di solito perpetrati con tanta maggiore sfrontatezza quanto minori sono le capacità del derubato di reagire e maggiori quindi le possibilità del ladro di farla franca.

    Si va così dai soprusi sulle donne, sui bambini, sui deboli e sui diversi, agli imbrogli a scapito degli ingenui; dall’evasione fiscale a danno dei contribuenti onesti, alla cialtroneria dei politici e alla loro presunzione di candidarsi e battersi per incarichi assai più grandi di loro. E ancora, si va dal furto della dignità altrui mediante la calunnia, a quello della libertà e della stessa vita attraverso le moderne forme di schiavismo presenti anche in Italia (caporalato, lavoro sottopagato, sfruttamento della prostituzione, commercio di bambini e di organi, ecc.) fino ad arrivare, con dosi crescenti di vigliaccheria e di cinismo, alle grandi rapine a danno dei più indifesi, come i popoli arretrati sfruttati dal colonialismo di ieri e dal neocolonialismo di oggi, gli immigrati disperati derubati anche della speranza cercata in paesi che non li vogliono, gli animali trattati come oggetti, e persino i nostri figli da noi stessi rapinati vivendo al di sopra delle risorse e lasciando loro in eredità enormi debiti pubblici e un ecosistema degradato. E’ il dilagare dell’egoismo rapace, spesso talmente sfacciato che per smascherare l’arroganza di chi lo pratica o lo sostiene basta contestargli di fare agli altri proprio ciò che egli mai tollererebbe fosse fatto a sé stesso (cioè l’esatto contrario della nota massima evangelica) e di ascoltarne poi le di solito ridicole giustificazioni.

    Comportamenti questi che molte persone mascherano con un ostentato perbenismo formale e una finta devozione religiosa. Uno degli aspetti che più colpiscono nel Vangelo è la grande insistenza con la quale Gesù condanna e disprezza l’ipocrisia dei farisei, di coloro cioè che dovrebbero essere i custodi della legge e della moralità ma che sono invece i primi a infrangere. Gesù ne condanna il comportamento un numero eccezionalmente elevato di volte facendone la metafora di tutte le doppiezze con cui l’uomo tradisce i valori che dovrebbe invece difendere. Al riguardo, papa Francesco, durante la sua storica visita pastorale-diplomatica al Cairo nell’aprile 2017, dopo aver sottolineato ancora una vota che la fede si misura dalla misericordia verso il prossimo, ha affermato che Per Dio è meglio non credere che essere un falso credente e un ipocrita.

    Il pensiero corre ai tanti cristiani di facciata e ai sepolcri imbiancati dei nostri tempi che tradiscono i doveri a cui sono chiamati: a quei politici capaci di mentire anche a sé stessi; agli avvocati che rinnegano la giustizia facendo assolvere i malfattori da cui sono pagati; ai medici che dimenticando il giuramento di Ippocrate antepongono i loro interessi venali a quelli dei pazienti; ai giornalisti che trincerandosi pretestuosamente dietro la libertà di stampa fanno della calunnia e della menzogna un business ben remunerato dai loro padroni; ai corrotti e ai corruttori di ogni risma che mettono la loro avidità di denaro, di notorietà e di carriera

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