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CINEREUS: Racconti
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E-book205 pagine2 ore

CINEREUS: Racconti

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Quattro racconti che attraversano i generi letterari e sono, a loro volta, attraversati da una linea di colore grigio cenere, nota tinta e materia di vecchiaia, morte e rinascita che, è anche un’ombra di mistero sugli eventi e, a tratti, può tradirli, con un soffio può sollevarsi e rivelarli alla luce.
La raccolta esplora le differenti apparizioni del colore della cenere attraverso un percorso di psicoanalisi su uno sfondo fantascientifico agli inizi del nuovo millennio, un’indagine per assassinio in un ospizio per anziani in un paesino dell’appennino emiliano, un viaggio in un’immaginaria cittadina Ucraina alla ricerca di una badante scomparsa e il ricordo, infine, degli anni della giovinezza a Dublino.
Senza mai dimenticare che la natura intima di ogni ricerca è il dubbio.
LinguaItaliano
Data di uscita18 mag 2018
ISBN9788828325505
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    Anteprima del libro

    CINEREUS - Barbara Gussoni

    Ringraziamenti

    DUBLINO

    i giorni nella città

    A Liam H.

    Non ho mai letto l'autobiografia di Neruda, 'Confesso che ho vissuto'. Ho sfogliato le prime pagine e ricordo a memoria la frase iniziale: 'La mia vita é una vita fatta di tutte le vite: le vite del poeta.'

    Bello, vero? Avrei voluto scriverlo io. Scriverlo perché l’ho vissuto.

    Da allora mi sono detta che il giorno che la nostalgia mi avrebbe invaso l’anima, che la vecchiaia mi avrebbe ingrigito i capelli e raggrinzito la pelle - cosa, tra l'altro, già avvenuta - come Neruda avrei voluto poter confessare di avere vissuto.

    Perché spesso non ne ho avuto la certezza. Le cose comuni, i fatti normali della vita mi sono sempre scivolati addosso e io, come un'estranea, li ho osservati dal di fuori ostinandomi a non accettare alcun senso di appartenenza, nessun legame con la realtà che mi attorniava.

    Almeno, così mi è parso.

    In questi giorni sto leggendo un libro ambientato a Dublino, dal 1900 al 1914, si intitola ‘Strumpet city’, è una storia di lotta e di amore, come la maggior parte delle storie che piace raccontare a noi scrittori.

    Anch'io ho vissuto a Dublino.

    La mattina che sbarcai al porto di Dun Laghoaire pioveva di sghimbescio sul molo e sulle case. Pioveva dal mare. Il cielo era bigio, cupo ma, dietro le nuvole, s'intravedeva un sole luminoso che si alzava dalle acque, anch’esse scure, come se fossero uno specchio del cielo.

    Eravamo partiti da Liverpool la sera e durante la notte avevamo attraversato il mare dormendo su delle poltrone scomode, di velluto rosso.

    Quando arrivai a Dublino, non avevo ancora compiuto vent’anni e fu in quella città che conobbi il mio primo amore, quello che non si dovrebbe mai scordare, che io invece abbandonai in tutta fretta insieme alle cose che non entravano in valigia- un cappello estivo, dei pantaloni extra-large, una bicicletta blu, delle coperte di lana pelosa e tante cassette di musica rock che avevo comprato nel corso degli anni sull’O’Connell Bridge.

    L’ultima volta che incontrai Liam, accadde per caso in un pub di Grafton Street. Mi guardò amorevolmente e mi chiese come andava, io citai il verso di una canzone degli U2, Still lookin’ for!

    Era una frase di poco senso, lo ammetto, ma siccome eravamo stati insieme per quasi due anni, Liam mi conosceva bene. Annuì sorridendo e non ci fu bisogno di aggiungere altro.

    L’avevo lasciato l’anno precedente, liquidandolo con una breve telefonata dall’Italia. I don't want to see you anymore, gli avevo detto.

    Al pub, Liam mi guardava comprensivo. Aveva un viso dolce e dei bei denti bianchi, piccoli, perfettamente allineati. Mentre sorrideva che sembrava quasi che mi amasse ancora- o forse era ciò che desideravo io- si rigirava un pacchetto di sigarette tra le dita per nascondere l’imbarazzo. Non aveva smesso di fumare, e nemmeno io.

    Liam sapeva che non c’era proprio un bel niente da cercare, che la mia era un’irrequietezza dell’anima, un affanno congenito, ansia, desiderio di assoluto, un bovarismo tardivo di cent’anni.

    Accadde nella primavera del 1989.

    La primavera è bella ovunque, lo so ma, a Dublino, dopo un rigido inverno sotto un cielo nero di carbone, la neve spessa sul lungomare e il freddo delle stanze in affitto, la primavera arrivava che sembrava un sogno, portava con sé i primi soli e l’aria salata del mare.

    A Dublino le strade erano larghe, spaziose, ben areate e la primavera c’entrava perfettamente a suo agio.

    La South Circular Road era la più ampia tra le vie che circondavano il centro della città. La mia camera da letto s’affacciava su quella strada. Sotto c’era la farmacia dei padroni di casa e, di fronte, un newsagent che restava aperto tutta la notte. La mia stanza aveva due grandi finestre luminose, quella di Angela, la mia amica tedesca, ne aveva una soltanto. Ma nella sua, proprio in centro alla parete, di fronte al letto, si apriva un vecchio camino annerito dal fumo, che io le invidiavo, perché dava un’aria romantica alla stanza. Credo che l’abbia acceso una sola volta: non era comodo trasportare dei sacchi di carbone al secondo piano perciò, alla fine preferivamo le stufe elettriche.

    Dormivo con la testa poggiata al muro, dall’altra parte Angela poggiava la sua e di notte, nel silenzio, ci sentivamo respirare. Misi il mio letto sotto una delle due finestre: stando comodamente sdraiata, potevo guardare fuori e vedere chi andava e chi veniva, che era uno dei miei passatempi preferiti.

    La prima volta che io e Angela dormimmo in quella casa era inverno inoltrato. Faceva così freddo che mi sistemai lo scaldino elettrico tra le braccia rischiando di bruciarmi e di dar fuoco alle lenzuola. Poi, piano piano, arrivò la primavera e tutto fu improvvisamente più facile.

    Lo vidi per la prima volta una sera di Marzo. Dovevo essere nel mio pub abituale, il più vecchio d’Irlanda, secondo i proprietari. Il più vecchio di Dublino, dicevano i clienti. Non m’importava granché. Un gruppo di musica celtica ci suonava regolarmente, dal giovedì al sabato sera. M’ingaggiarono per raccogliere i soldi tra il pubblico. I clienti erano generosi e dividevamo equamente la somma raccolta. Devo dire che a Dublino nessuno mi rubò mai una sterlina. Gli unici avari che incontrai erano degli italiani, dei ristoratori che venivano dall’Appennino tosco-emiliano. Dei veri spilorci! Probabilmente era solo un caso che venissero dall’Italia e non vorrei farne una questione nazionale.

    Dapprima mi invaghii di David perché mi ricordava un cantante italiano che adulavo. Anche lui aveva i capelli neri, lisci, lunghi fino a metà schiena. Aveva gli occhi scuri e lo sguardo penetrante. Anche se non aveva lo stesso bel culo fasciato in lucidi pantaloni di pelle nera del mio cantante rock, appena ne ebbi l’occasione, cercai di stabilire un contatto con lui.

    Sedevo a un lato del bancone, lui all’altro. Potevamo osservarci con agio. Ci lanciammo lunghe occhiate persuasive per un’intera serata. I miei sguardi languidi volevano sembrare casuali, si sforzavano di dire e non dire, si stupivano delle sue attenzioni e, di tanto in tanto, s’intimidivano di tanta sfrontatezza. Lui si soffermava su di me lungamente e le sue intenzioni sembravano chiare. Ogni volta che sollevavo gli occhi e incontravo il suo sguardo, ogni volta che mi giravo e lo trovavo ad aspettarmi a pochi metri da me, lo stomaco sobbalzava incontrollato. Tutta quell’energia che passava da me a lui attraversando i clienti come un laser, mi rendeva euforica. Un paio di volte, dall’altro capo del bar, David mi sorrise, ma fui incapace di ricambiare.

    A quei tempi avevo una massa di capelli mossi che amavo cotonare sulla fronte. Mi aggiravo per i locali notturni sorreggendo una torre sbilenca che la lacca teneva in piedi a fatica. Bevevo birra scura, fumavo sigarette leggere, parlavo con Angela e mi aggiustavo i capelli con gesti meccanici, sempre gli stessi.

    Tiravo dietro l’orecchio sinistro le ciocche che cadevano di lato, dall’altra parte invece lasciavo scendere un ciuffo scuro che mi copriva l’occhio e la guancia. Mi sistemavo i capelli lentamente, con cura, usando tutte quante le dita, una dopo l’altra, dall’indice al mignolo, con un rituale preciso che non aveva bisogno di specchi.

    Una sera David mi venne vicino. Molto vicino. Mentre sedevo al solito posto, al bancone del pub, mi si strusciò tra le gambe. Mi confessò che il mio modo di tirarmi i capelli dietro le orecchie l’aveva sedotto. Disse che era ‘sensuale’. Sorrisi imbarazzata. Per giorni la parola ‘sensuale’ mi martellò in testa mentre cercavo di darle un significato concreto. David ricordava perfettamente ogni dettaglio della prima sera che ci eravamo visti. M’intimidii quando accennò agli sguardi che ci eravamo lanciati. Mi ricordò ogni sorriso, ogni cenno del capo, le birre che avevo bevuto, la marca delle sigarette che avevo fumato e il vestito che indossavo quella sera: una camicia viola a disegni stampati. Ma soprattutto, ripeteva di aver notato il modo in cui mi sistemavo i capelli dietro le orecchie. E pensare che l’avevo imparato a fare da bambina!

    Era mio padre a pettinare me e mia sorella. Anche lui aveva i capelli spessi, secchi e ondulati. Eravamo, a tutti gli effetti, le sue creature. Soddisfatto, ci lavava e ci pettinava lasciandoci una grande banana crespa sulla fronte, stile Elvis Presley. Poi, ci tirava i capelli dietro le orecchie con una delicatezza insospettabile per un uomo dal carattere sanguigno, con le mani grandi, i gesti nervosi, uno che s’arrabbiava spesso. Dopo averci pettinate ci sollevava per farci ammirare allo specchio. Era molto orgoglioso di noi: sfoggiavamo delle deliziose orecchiette bianche, invisibili, di panna montata. Per far vedere il viso, ci spiegava commosso. Noi fingevamo che quella messa in piega ci piacesse e andavamo a farci vedere da nostra madre che, intanto, preparava la cena. Ma nel lungo corridoio buio che dal bagno portava alla cucina, cominciavamo a disfare la banana ridendo l’una dell’altra.

    ‘Strumpet city’ me lo regalarono a Dublino. Fu per Natale, o forse per il mio compleanno, non ricordo esattamente. Non lo lessi subito. Qualcuno sorrise quando lo citai in una conversazione. Non capii. Ora so che vuol dire ‘città puttana’,ed é un caso che lo stia leggendo soltanto ora, dopo tanto tempo.

    Sono arrivata al punto in cui Mary scappa da casa dei Bradshaws, dove lavora a servizio, per poter sposare Fitz, il suo amore. Davanti a lei, rivive lo spettro della vecchia Miss Gilchrist, abbandonata dai Bradshaws in un misero ospizio, dopo aver passato la vita a lavorare alle loro dipendenze. Nelle orecchie di Mary risuonano le ultime raccomandazioni della vecchia serva: Stick to service...In this country the ones that don’t fight are not worth your attention and the ones that do bring nothing but heartbreak.

    La Mary del libro di James Plunckett è una donna semplice che vive ogni cosa con sentimento, ma senza grossi patemi d’animo, è libera da sbalzi d’umore, da malinconici dubbi. E se la invidio è perché non sono mai stata come lei.

    Io, ad esempio, non ho mai avuto certezze sull’amore. Non ho mai aspettato il ritorno di un uomo alla finestra, con la cena pronta in tavola, coperta da un tovagliolo bianco, come faceva mia madre aspettando che mio padre tornasse dal lavoro, nelle fredde e buie sere d’inverno.

    La osservavo con gelosia e ammirazione.

    Appena i fari dell’auto di mio padre illuminavano la strada, l’insofferenza svaniva e mamma correva ad aprire la porta, smaniosa come una ragazzina. Forse l’invidiavo, come invidio la Mary di ‘Strumpet city’, perché nemmeno lei sembrava conoscere la solitudine e l’abbandono in cui spesso cadono gli innamorati. Aveva talmente fiducia nell'amore da farmi rabbia!

    Io, al contrario, ho sempre pensato che non valesse la pena di aspettare un uomo. Non so perché. Forse temevo di non essere all’altezza dei grandi amori che osservavo incantata da bambina, di quegli uomini e di quelle donne che sembravano bastarsi a vicenda e tacevano ostinatamente i lati oscuri delle relazioni.

    A quei tempi, a Dublino, volevo vivere da esteta, seguendo gli insegnamenti di Oscar Wilde, il mio primo eroe letterario. Mi piaceva pronunciare il suo nome per esteso, scandendolo bene, e ogni volta era un omaggio che gli rendevo.

    Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde, lo ricordo ancora.

    Il mio scrittore preferito, di nota origine irlandese, visse a lungo a Londra e nel 1900 morì miseramente a Parigi, un anno prima della regina Vittoria.

    Wilde avrebbe meritato di sopravviverle per vederla crepare, pensavo con rancore. A lei si doveva il clima repressivo in cui Wilde fu costretto a vivere. Fu condannato per sodomia e dovette scontare una pena di due anni di lavori forzati. Ma, come mi spiegava il professore d’italiano al liceo quando gli contestavo i voti, la giustizia non è di questo mondo!

    Perciò, già lo sapevo.

    A distanza di un secolo, professavo anch’io l’arte per l’arte.

    Non riconoscendomi nessun talento particolare, decisi che avrei fatto della mia vita un’opera d’arte. Dublino era una città rassicurante e calda per un’adolescente smaniosa di vivere. Volevo godere di tutto ciò che mi attorniava cogliendo ogni attimo fuggente. Volevo dedicarmi esclusivamente alla contemplazione della bellezza, mentre i sentimenti... quelli, preferivo evitarli. Era in fondo a causa loro se Wilde si era ridotto a vivere in solitudine e in miseria. I sentimenti erano una debolezza umana e non volevo prendere in considerazione né i miei, né quelli degli altri. Per me non esistevano. Era tutto molto semplice, allora. Tutto era bianco o nero.

    Quando le emozioni più genuine mi tampinavano, cercando di uscire dalla corazza dentro la quale le avevo relegate, le zittivo con forza per farle stare al loro posto. Impaurite, si sistemavano tra lo stomaco e l’intestino, fingendo di aver capito che dovevano stare immobili e mute. Allora provavo uno strano languore, una carenza fisica, una logorante sensazione di fame e di sete.

    Di tanto in tanto accadeva che il malumore tra i sentimenti relegati crescesse. Si dimenavano, schiamazzavano e mi pulsavano nelle viscere con ostinazione. Senza avere il tempo di pensarci e, spesso indifesa, li vomitavo. Era una soluzione radicale che mi procurava parecchi fastidi. Una mattina finii addirittura all’ospedale. Avevo cercato di espellerli dal mio stomaco per una notte intera. Ero esausta. Quand’ormai non sapevo più che cosa vomitare, rigurgitai dell’acquetta bavosa e insignificante. Gli irlandesi avevano dei metodi spicci e all’ospedale mi consigliarono di bere della gassosa.

    Mi ripresi lentamente.

    Dopo poche settimane lasciai definitivamente Dublino.

    David fu una delle mie prime prede. Con lui, ci provai e ci riprovai in vari modi. Più volte fui sul punto di averlo, come quella prima sera, e di portarmelo a casa come un trofeo, ma la sua ragazza- una rossa, lentigginosa, pallida, alta e snella donna irlandese- credo che non ne sarebbe stata contenta.

    Ma di lei me ne fregavo. Per me quella donna non esisteva ed evitavo ogni pensiero che avesse a che fare con una qualsiasi idea di moralità. La rossa era solo un folkloristico intralcio ai miei progetti d’amore- quand’ero disattenta lo chiamavo così quello strano sussultare dei muscoli addominali. Ma non era amore, era una piccola guerra che avevo dichiarato a me stessa. Morte a chi ama, proclamavo entusiasta attraversando il fiume Liffey dove comperavo le cassette pirata da aitanti giovanotti con gli occhi azzurri e i capelli neri che svolazzavano al vento celtico.

    Vendetti l’anima al diavolo in una notte di luna piena, lui mi promise la testa di David su un piatto d’argento. La verde e magica Irlanda era il posto ideale per un rito satanico e, comunque, nessuna arma mi era stata vietata. Sfidavo il cielo e me e la ridevo.

    Dio non esisteva, ovviamente. Gli umani- gli altri- l’avevano inventato a loro immagine e somiglianza. Chiamavano Dio quel briciolo di umanità che ogni giorno scoprivano in sé stessi e che li turbava, lasciandoli soli e indifesi in un mondo ingiusto, tristemente cattivo. Dio, in tutta la sua misericordia, li proteggeva e li consolava. Se Dio era una nostra invenzione- per convenienza anch’io ogni tanto appartenevo al genere umano- Noi eravamo Dio. Dunque, anch’Io ero Dio. E, comunque, non importava. La vita era quella che mi stava davanti, niente di più, niente di meno.

    Quando David

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