Il Commissario Richard. La casa inabitabile
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Anteprima del libro
Il Commissario Richard. La casa inabitabile - Ezio D'Errico
2018
Operaio della penna
di Loris Rambelli
Gli estimatori di Ezio D’Errico, «giallista di culto» (Pederiali, 2005), hanno sempre ritenuto riduttivo parlare di gialli
a proposito dei romanzi che hanno come protagonista il commissario Richard. «Certi polizieschi di D’Errico» osservava nel 1961 la scrittrice Anna Marisa Recupito «sono dei veri
romanzi, degli studi psicologici di non trascurabile valore letterario». L’unico a tenerli in scarsa considerazione era, caso mai, proprio l'autore. «D’Errico si rammaricava che la sua fama di giallista soverchiasse troppo spesso quella a cui teneva molto di drammaturgo e di pittore»: testimonianza di Mario Bonetti, direttore nei primi anni Sessanta del quotidiano «Telesera» di Roma, al quale D’Errico collaborò. «Considerava dunque i suoi romanzi polizieschi come un fatto artigianale che gli aveva permesso di sbarcare il lunario in un certo periodo della vita e al quale tornava qualche volta per necessità di cassetta. Non ne parlava volentieri e quando accadeva coglieva l’occasione per tessere un ennesimo elogio di Simenon che giudicava – e credo a ragione – un grandissimo scrittore»¹.
Un atteggiamento di sufficienza nei confronti del genere poliziesco emerge anche dalla sua corrispondenza epistolare privata. Il tipografo Guido Modiano il 19 settembre 1939 gli scrive: «Ho scoperto un’altra tua attività: scrittore di gialli
; in un fascicolo Mondadori prestatomi da mia madre ho letto con vivo interesse L’uomo dagli occhi malinconici; non sono un competente, ma mi pare ottimo». Risposta di D’Errico (21 settembre): «Non ti ho mai fatto omaggio dei miei gialli perché rappresentano un’attività strettamente commerciale, della quale naturalmente non mi vanto, ma il faut vivre quand même... in novembre ti manderò invece Da Liberati che è un volume di novelle, tipo Parabole, edito questa volta da Guanda di Modena». A questi libri di novelle, o «quasi novelle», come anche le definiva l’autore, D’Errico avrebbe voluto legare il suo nome. Erano i medesimi libri che, vent’anni dopo, diede da leggere a Italo Alighiero Chiusano, accompagnandoli con le parole: «Ecco, D’Errico non era solo quello dei gialli». E furono per Chiusano una folgorazione, perché gli fecero capire che i germi del teatro dell’assurdo di D’Errico, nato apparentemente con la commedia Tempo di cavallette (1956), erano già in quei racconti metafisici e surreali degli anni Trenta².
Nel 1941, quando la serie di avventure del commissario Richard era giunta al numero quattordici (l'intera saga ne comprende venti), D'Errico comunica a Luigi Rusca di voler tentare un salto di qualità: con il romanzo Il segreto si era posto l'obiettivo di «stabilire un ponte di passaggio fra il giallo e il romanzo letterario». Arnoldo Mondadori, con tutta la sua équipe (Lorenzo Montano, Luigi Rusca, Alberto Tedeschi) cui si deve il lancio della moda del giallo negli anni Trenta presso la media borghesia italiana e gli intellettuali, non riteneva affatto che i gialli fossero romanzi letterari
: semplicemente utilizzava a scopo pubblicitario i giudizi compiacenti di scrittori e letterati della sua scuderia (Massimo Bontempelli, Margherita Sarfatti, Alfredo Panzini e altri ancora), che dichiaravano di apprezzare i libri gialli (solo quelli per eccellenza, i gialli Mondadori, cioè), pur non considerandoli qualcosa di più di passatempi, evasioni, giochi di intelligenza³. D'Errico in Qualcuno ha bussato alla porta fa dire al commissario Richard che i romanzi polizieschi appartengono a quella categoria di libri il cui prezzo di copertina è giustificato dai ripetuti colpi di scena somministrati al lettore per scuoterne l'emotività e tenerne desta l'attenzione.
Sembrerebbe dunque che D'Errico tenesse distinti due tavoli di lavoro, ma, nella pratica della scrittura, i confini fra prodotti artigianali, o commerciali, e prodotti letterari, tendono a scomparire, per lo meno presentano punti di contatto e intersezioni.
Nel romanzo La casa inabitabile, per esempio, assistiamo a qualcosa di simile al procedimento che Chandler chiamava di «cannibalizzazione»: D’Errico recupera un suo elzeviro, apparso nel 1933 sul «Meridiano di Roma», per riportarlo, pari pari, nel corpo del romanzo, prima parte del capitolo decimo. All'origine si intitolava Madri di città ed era un esempio di bello scrivere, in tempi in cui le riviste letterarie e le terze pagine dei quotidiani pubblicavano le prose di riconosciuti maestri della penna (basti ricordare quelle raffinatissime di Cesare Angelini che uscivano sul «Resto del Carlino» alla fine degli anni Venti, poi raccolte in volume con il titolo I doni del Signore nel 1932). Ebbene, verso l'epilogo del romanzo, si giunge a un punto in cui Geneviève sta aspettando Richard al Jardin des Tuileries, e, siccome il fratello è in ritardo all'appuntamento, nell’attesa, si guarda intorno. Donne, bambini, venditori ambulanti di dolciumi e giocattoli... La scenografia è predisposta per accogliere il pezzo sulle madri di città, per l'occorrenza parigine, e i pensieri di Geneviève si confondono con quelli dell’autore, che potrebbero anche essere gli stessi di Richard, quando, nella disposizione d'animo dei suoi giorni migliori, osserva il mondo circostante con l’aria di avere solo del tempo da perdere. La scena d'ambiente ha funzione di riempitivo: colma un tempo morto nello sviluppo dell'inchiesta e segna una pausa poco prima che la narrazione prenda l'abbrivio per l'impennata finale che porta allo svelamento del mistero, ma si intona così bene al ritmo del racconto, e nel montaggio trova posto con tale giustezza, che il lettore non si accorge dell'operazione di forbici e colla. C'era Geneviève e c'era il giardino pubblico, bastava cucire la figura allo sfondo: anche Geneviève ha un bambino di cui prendersi cura, un po' cresciuto, che sarà un asso della polizia francese, come dicono i giornali, ma intanto ha bisogno di qualcuno che lo accompagni alle Galeries Lafayette per farsi confezionare un vestito. E lei è lì per questo...
Nella Tipografia dei Due Orsi D’Errico ripete l’esperimento con esito diverso. Prende un altro elzeviro, intitolato L’omino di fiducia («Meridiano di Roma», 1934), lo spezza in due segmenti e fra l'uno e l'altro dipana tutta l'inchiesta di Richard sul caso misterioso della rotativa insanguinata, dando così al romanzo una struttura chiusa e circolare, ribadita dalla comparsa, in apertura e in chiusura, del medesimo personaggio, l'omino di fiducia, appunto, il più umile dei lavoranti, che nelle vecchie tipografie aveva il compito di rimettere in ordine nelle rispettive cassettine i caratteri mobili, sparsi sui banconi dopo la composizione delle pagine da stampare.
Per quel che riguarda Il segreto, cui si è accennato, Mondadori poi lo pubblicò nella collana «I Romanzi della Palma», serie blu, nel 1943. Come in un storia criminale di Simenon senza Maigret, anche qui un assassinio, una realtà da nascondere, una colpa da espiare, ma non c'è investigazione. I personaggi, gli ambienti, le atmosfere sono ben derrichiani, i risvolti surreali trovano più ampio sviluppo rispetto a quanto non fosse consentito in un giallo, eppure il romanzo ha forse perso qualcosa dell'immediatezza e vivacità che il commissario Richard, ingombrante
ma così godibile, portava con sé.
Non si può non essere d’accordo con Ruggero Jacobbi quando afferma: «Io penso, ecco, che D’Errico dovrebbe vincere la tentazione borghese di vergognarsi d’aver scritto anche dei gialli». I suoi famosi collage, costruiti, secondo la tecnica di Max Ernst, incollando illustrazioni ritagliate dai giornali, possono apparire degli artifici, se messi a confronto con il «gusto cinematografico e sbrigativo» con cui nei romanzi polizieschi «inchioda un ubriaco, un cane, un poliziotto a un muro di periferia». «E il suo maglione da operaio – quando manovra massiccio fra i tavoli delle redazioni con pennello e aerografo – è una promessa di arte concreta; di un’arte – voglio dire – che non si vergogni di essere anche artigianato»⁴.
LA CASA INABITABILE
PARTE PRIMA
Capitolo I
Villa Garnier
Sotto la piccola tettoia fumosa della stazione di Montmirail la gente che aspettava il treno di Parigi era quella di tutti i lunedì mattina, composta in prevalenza di coltivatori e di mercanti di cavalli diretti al mercato di Epernay. Uomini massicci, i cui vestiti di fustagno pesante erano allietati da un fazzoletto di seta colorata avvolto attorno al collo con ingenua civetteria, e donne vestite per lo più di nero, come avviene in campagna dove le parentele sono così estese e i lutti così lunghi che fatalmente s'innestano uno all'altro senza soluzione.
C'erano poi, oltre il personale della stazione, e i soliti rivenditori di bibite e di giornali, il commesso della ricevitoria postale, il padrone della trattoria del Pesce d'Oro
, il bettoliere del Cigno Bianco
, e alcuni militari del distaccamento di artiglieria che, come tutti i soldati di questo mondo, in attesa del treno rosicchiavano del pane, delle castagne secche, dei dolciumi, parte seduti e parte appoggiati a certe casse fornite di maniglia di corda, sulle quali erano impresse delle sigle e delle piccole granate fiammeggianti.
Dire il treno di Parigi, significa fare una concessione alla vanità ferroviaria di Montmirail, perché in realtà il diretto di Parigi segue la linea Meaux-Chateau Thierry-Chalons-sur-Marne, ma al bivio di La Ferté-sous-Jouarre, c'è un trenino che in coincidenza col diretto disserve tutti i paesini sparpagliati fra il Petit-Morin e la Somme, per poi raggiungere a Epernay la gran linea di comunicazione diretta a Nancy, e questo trenino, dato che raccoglie i viaggiatori della capitale, viene chiamato il treno di Parigi.
Montmirail è un paese di tremila abitanti, accovacciato su un promontorio roccioso che domina la vallata del Petit-Morin. Questa situazione eminentemente strategica, soprattutto se messa in relazione con lo sbarramento costituito dalla Somme, gli è valso il privilegio (o la disgrazia se più vi piace) di costituire il perno di manovra per la difesa e per l'attacco in molteplici guerre. Per citare solo le più recenti, è a tutti noto che I'11 febbraio 1814 Napoleone vi riportò la sua grande vittoria sugli Alleati, un secolo più tardi, e precisamente il 5 settembre 1914 vi entrarono i tedeschi, e venticinque anni dopo...
Ma all'epoca in cui si svolgono i fatti che stiamo per narrare, gli abitanti di Montmirail erano ben lungi dal supporre che avrebbero riudito la voce del cannone, con in più il rombo lacerante degli «stuckas», e la loro vita si svolgeva monotona e tranquilla, fra una vendita di cereali e una partita di pesca, con l'unica variante di una fiera di cavalli o della festa del patrono.
Quelli che amavano la vita tumultuosa scendevano due volte al giorno alla stazione per comperare i giornali illustrati provenienti da Parigi.
Quel lunedì mattina, il tempo era freddo ma bello, e Philippe Guillot proprietario del Pesce d'Oro
, una delle più rinomate trattorie di Montmirail, in attesa di certi cesti di cacciagione che dovevano giungergli da Meaux, gironzolava attorno ai soldati per cercar di sapere se anche quell'anno la Scuola di Guerra avrebbe fatto la solita gita nel circondario.
Il sergente che comandava la «corvée» non ne sapeva nulla, il che non gli impedì di accettare un aperitivo offerto dal Guillot al buffet della stazione.
— Quando i signori ufficiali della Scuola di Guerra vengono a Montmirail per le manovre coi quadri, pranzano da me — diceva l'oste del Pesce d'Oro
— ed è una bella responsabilità. L'anno scorso mi sono arrivati all'improvviso, e so io quel che c'è voluto per mettere in piedi una colazione degna del mio locale... perché le derrate principali, come la pasta, il riso, il lardo, l'olio, non mi mancano mai, ma vi rendete conto di quel che significhi improvvisare un fritto misto per cinquantasette persone? E sapete come ho fatto?
Il fischio del treno di Parigi che entrava in quel momento sotto la tettoia, interruppe le elucubrazioni dell'oste e impedì al sergente di farsi un'idea chiara sul modo di moltiplicare un fritto misto per cinquantasette.
Dal convoglio scesero dei contadini, qualche commesso viaggiatore con la borsa di cuoio sotto il braccio, due suore Carmelitane, e un vecchietto rubizzo, dal viso sbarbato e dai capelli candidi, il quale oltre al portare un'enorme valigia e un inverosimile ombrello verde, teneva al guinzaglio un grosso cane lupo.
Un po' di confusione verso i cancelli dell'uscita, poi il gruppo dei nuovi arrivati si sparpagliò sul piazzale antistante la stazione. I contadini s'incamminarono a piedi per il viale fiancheggiato da acacie che a via di giravolte conduce al paese, le suore salirono su una specie di vecchia diligenza che portava scritto sul fianco «Opera Pia del Buon Soccorso» e i commessi viaggiatori presero d'assalto le poche carrozzelle disponibili, di modo che il vecchietto col cane finì per restare appiedato.
— Andate a Montmirail? — gli chiese Gaétan Fournier, iI bettoliere del Cigno Bianco
che era sceso alla stazione col suo biroccino per caricare due damigianette d'olio.
— Dovrei prendere la corriera per Sezanne.
— Parte alle undici, proprio davanti al mio caffè... volete salire?
Il vecchietto che non si aspettava un'offerta così cortese si profuse in ringraziamenti, e afferrata a due mani la valigia che aveva deposto a terra la issò sul biroccino soffiando per lo sforzo.
— Date a me l'ombrello — gli disse il bettoliere accorgendosi che l'altro provava una certa difficoltà a salire, poi gli tese anche una mano, ma il vecchietto si era già arrampicato agilmente al suo posto con un «ah» di soddisfazione.
— E il cane?
— Oh, quello farà la strada a piedi... e gli farà bene, a Parigi si è ingrassato troppo.
Il cavallino attaccò un ambio veloce tirando sulle redini per vincere la salita, e il cane lupo seguì il veicolo con la lingua penzoloni e i fianchi che gli battevano. A metà percorso, Gaétan Fournier fece rallentare l'andatura e portò il quadrupede a dissetarsi all'abbeveratoio municipale. Anche il cane dette qualche linguata nel ruscello volgendosi poi a guardare il padrone con occhi pietosi.
— Coraggio Plum — gli mormorò il vecchietto — un po' di salita ti farà bene.
— Sono bestie resistenti quelle... ne avevo una anch'io qualche anno fa, poi l'ho regalata a mio fratello che sta in campagna e gli fa una guardia al pollaio che nemmeno un paio di gendarmi potrebbe sostituirlo.
Il vecchietto visibilmente lusingato per l'elogio indiretto rivolto al suo cane, raccontò vari episodi nei quali l'intelligenza, il coraggio, e lo spirito di iniziativa di Plum ebbero modo di brillare. Intanto aveva cavato di tasca un paio di sigari, e ne aveva offerto uno al bettoliere che accettò fermando il cavallo per accendere.
Il dialogo continuò cullato dal dondolio del biroccio, mentre la campagna si dilatava sotto di loro, variando di tono a mano a mano che le nebbie mattutine venivano fugate dal sole. In certe vallate perdurava un'ombra azzurrina che metteva in risalto il greto bianco del fiume e sui poggi meglio esposti verdeggiava il grano tenero.
Ogni tanto il vecchietto alzava un braccio a indicare qualche paesino il cui campanile aguzzo luccicava come uno spillo fra i tetti