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Il commissario Richard. Le ultime inchieste vol. 6
Il commissario Richard. Le ultime inchieste vol. 6
Il commissario Richard. Le ultime inchieste vol. 6
E-book649 pagine8 ore

Il commissario Richard. Le ultime inchieste vol. 6

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Info su questo ebook

Per Andrea Camilleri, suo estimatore, Ezio D’Errico è un artista “dotato di una genialità rinascimentale”. E certamente unico, più volte imitato, è il suo indimenticabile commissario Richard, che con De Vincenzi è tra i personaggi più originali della storia del giallo italiano (e anche dei “mitici” gialli Mondadori). In questo libro sono raccolte le ultime tre indagini del Commissario nato dalla penna di D'Errico: La tipografia dei Due Orsi, Non avrete la sua testa e La nota della lavandaia. Introduzioni di Loris Rambelli.
LinguaItaliano
Data di uscita22 mar 2019
ISBN9788893041553
Il commissario Richard. Le ultime inchieste vol. 6

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    Anteprima del libro

    Il commissario Richard. Le ultime inchieste vol. 6 - Ezio D'Errico

    2019

    Operaio della penna

    di Loris Rambelli

    Gli estimatori di Ezio D’Errico, «giallista di culto» (Pederiali, 2005), hanno sempre ritenuto riduttivo parlare di gialli a proposito dei romanzi che hanno come protagonista il commissario Richard. «Certi polizieschi di D’Errico» osservava nel 1961 la scrittrice Anna Marisa Recupito «sono dei veri romanzi, degli studi psicologici di non trascurabile valore letterario». L’unico a tenerli in scarsa considerazione era, caso mai, proprio l'autore. «D’Errico si rammaricava che la sua fama di giallista soverchiasse troppo spesso quella a cui teneva molto di drammaturgo e di pittore»: testimonianza di Mario Bonetti, direttore nei primi anni Sessanta del quotidiano «Telesera» di Roma, al quale D’Errico collaborò. «Considerava dunque i suoi romanzi polizieschi come un fatto artigianale che gli aveva permesso di sbarcare il lunario in un certo periodo della vita e al quale tornava qualche volta per necessità di cassetta. Non ne parlava volentieri e quando accadeva coglieva l’occasione per tessere un ennesimo elogio di Simenon che giudicava – e credo a ragione – un grandissimo scrittore»¹.

    Un atteggiamento di sufficienza nei confronti del genere poliziesco emerge anche dalla sua corrispondenza epistolare privata. Il tipografo Guido Modiano il 19 settembre 1939 gli scrive: «Ho scoperto un’altra tua attività: scrittore di gialli; in un fascicolo Mondadori prestatomi da mia madre ho letto con vivo interesse L’uomo dagli occhi malinconici; non sono un competente, ma mi pare ottimo». Risposta di D’Errico (21 settembre): «Non ti ho mai fatto omaggio dei miei gialli perché rappresentano un’attività strettamente commerciale, della quale naturalmente non mi vanto, ma il faut vivre quand même... in novembre ti manderò invece Da Liberati che è un volume di novelle, tipo Parabole, edito questa volta da Guanda di Modena». A questi libri di novelle, o «quasi novelle», come anche le definiva l’autore, D’Errico avrebbe voluto legare il suo nome. Erano i medesimi libri che, vent’anni dopo, diede da leggere a Italo Alighiero Chiusano, accompagnandoli con le parole: «Ecco, D’Errico non era solo quello dei gialli». E furono per Chiusano una folgorazione, perché gli fecero capire che i germi del teatro dell’assurdo di D’Errico, nato apparentemente con la commedia Tempo di cavallette (1956), erano già in quei racconti metafisici e surreali degli anni Trenta².

    Nel 1941, quando la serie di avventure del commissario Richard era giunta al numero quattordici (l'intera saga ne comprende venti), D'Errico comunica a Luigi Rusca di voler tentare un salto di qualità: con il romanzo Il segreto si era posto l'obiettivo di «stabilire un ponte di passaggio fra il giallo e il romanzo letterario». Arnoldo Mondadori, con tutta la sua équipe (Lorenzo Montano, Luigi Rusca, Alberto Tedeschi) cui si deve il lancio della moda del giallo negli anni Trenta presso la media borghesia italiana e gli intellettuali, non riteneva affatto che i gialli fossero romanzi letterari: semplicemente utilizzava a scopo pubblicitario i giudizi compiacenti di scrittori e letterati della sua scuderia (Massimo Bontempelli, Margherita Sarfatti, Alfredo Panzini e altri ancora), che dichiaravano di apprezzare i libri gialli (solo quelli per eccellenza, i gialli Mondadori, cioè), pur non considerandoli qualcosa di più di passatempi, evasioni, giochi di intelligenza³. D'Errico in Qualcuno ha bussato alla porta fa dire al commissario Richard che i romanzi polizieschi appartengono a quella categoria di libri il cui prezzo di copertina è giustificato dai ripetuti colpi di scena somministrati al lettore per scuoterne l'emotività e tenerne desta l'attenzione.

    Sembrerebbe dunque che D'Errico tenesse distinti due tavoli di lavoro, ma, nella pratica della scrittura, i confini fra prodotti artigianali, o commerciali, e prodotti letterari, tendono a scomparire, per lo meno presentano punti di contatto e intersezioni.

    Nel romanzo La casa inabitabile, per esempio, assistiamo a qualcosa di simile al procedimento che Chandler chiamava di «cannibalizzazione»: D’Errico recupera un suo elzeviro, apparso nel 1933 sul «Meridiano di Roma», per riportarlo, pari pari, nel corpo del romanzo, prima parte del capitolo decimo. All'origine si intitolava Madri di città ed era un esempio di bello scrivere, in tempi in cui le riviste letterarie e le terze pagine dei quotidiani pubblicavano le prose di riconosciuti maestri della penna (basti ricordare quelle raffinatissime di Cesare Angelini che uscivano sul «Resto del Carlino» alla fine degli anni Venti, poi raccolte in volume con il titolo I doni del Signore nel 1932). Ebbene, verso l'epilogo del romanzo, si giunge a un punto in cui Geneviève sta aspettando Richard al Jardin des Tuileries, e, siccome il fratello è in ritardo all'appuntamento, nell’attesa, si guarda intorno. Donne, bambini, venditori ambulanti di dolciumi e giocattoli... La scenografia è predisposta per accogliere il pezzo sulle madri di città, per l'occorrenza parigine, e i pensieri di Geneviève si confondono con quelli dell’autore, che potrebbero anche essere gli stessi di Richard, quando, nella disposizione d'animo dei suoi giorni migliori, osserva il mondo circostante con l’aria di avere solo del tempo da perdere. La scena d'ambiente ha funzione di riempitivo: colma un tempo morto nello sviluppo dell'inchiesta e segna una pausa poco prima che la narrazione prenda l'abbrivio per l'impennata finale che porta allo svelamento del mistero, ma si innesta talmente bene nell’ordito del romanzo, si intona così perfettamente con ciò che precede e ciò che segue, si inserisce con tale giustezza, che il lettore non si accorge dell'operazione di forbici e colla che l’autore ha compiùto. C'era Geneviève e c'era il giardino pubblico: bastava cucire la figura allo sfondo: anche Geneviève ha un bambino di cui prendersi cura, un po' cresciuto, che sarà un asso della polizia francese, come dicono i giornali, ma intanto ha bisogno di qualcuno che lo accompagni alle Galeries Lafayette per farsi confezionare un vestito. E lei è lì per questo...

    Nella Tipografia dei Due Orsi D’Errico ripete l’esperimento con esito diverso. Prende un altro elzeviro, intitolato L’omino di fiducia («Meridiano di Roma», 1934), lo spezza in due come fosse un pane e dentro vi inserisce tutta l'inchiesta di Richard sul caso misterioso della rotativa insanguinata, dando così al romanzo una struttura chiusa e circolare, ribadita dalla comparsa, in apertura e in chiusura, del medesimo personaggio, l'omino di fiducia, appunto, il più umile dei lavoranti, che nelle vecchie tipografie aveva il compito di rimettere in ordine nelle rispettive cassettine i caratteri mobili, sparsi sui banconi dopo la composizione delle pagine da stampare.

    Per quel che riguarda Il segreto, cui si è accennato, Mondadori poi lo pubblicò nella collana «I Romanzi della Palma», serie blu, nel 1943. Come in un storia criminale di Simenon senza Maigret, anche qui un assassinio, una realtà da nascondere, una colpa da espiare, ma non c'è investigazione. I personaggi, gli ambienti, le atmosfere sono ben derrichiani, i risvolti surreali trovano più ampio sviluppo rispetto a quanto non fosse consentito in un giallo, eppure il romanzo ha forse perso qualcosa dell'immediatezza e vivacità che il commissario Richard, ingombrante ma così godibile, portava con sé.

    Non si può non essere d’accordo con Ruggero Jacobbi quando afferma: «Io penso, ecco, che D’Errico dovrebbe vincere la tentazione borghese di vergognarsi d’aver scritto anche dei gialli». I suoi famosi collage, costruiti, secondo la tecnica di Max Ernst, incollando illustrazioni ritagliate dai giornali, possono apparire degli artifici, se messi a confronto con il «gusto cinematografico e sbrigativo» con cui nei romanzi polizieschi «inchioda un ubriaco, un cane, un poliziotto a un muro di periferia». «E il suo maglione da operaio – quando manovra massiccio fra i tavoli delle redazioni con pennello e aerografo – è una promessa di arte concreta; di un’arte – voglio dire – che non si vergogni di essere anche artigianato»⁴.

    LA TIPOGRAFIA DEI DUE ORSI

    PARTE PRIMA

    Capitolo primo

    L'omino di fiducia

    Nella soffitta abitata da Modeste Girou, anche quell'alba si annunciò come tutte le altre, col suono stridulo di uno svegliarino marca Stella.

    Una mano, che certo conosceva l'esatta posizione dell'arrogante meccanismo, uscì dal caldo delle coperte, e al buio piombò sull'oggetto che, compresso proprio al campanello, mandò un trillo roco, si zitti al tac della leva di arresto, e finalmente, prima di tacere del tutto, emise ancora un flebile dlin dlin dlin... qualche cosa come l'ultimo andito della suoneria strozzata.

    La stessa mano andò a schiacciare la peretta della luce e la luce fu, o meglio fu un chiarore giallastro che metteva dei bianchi crudi sulle lenzuola, dei grigi sporchi sulla coperta, sulla sedia di paglia, sul tappetino, e lasciava in ombra tutto il resto.

    A quella stessa ora, migliaia di altri svegliarini avevano probabilmente suonato allo stesso modo, migliaia di altre lampade elettriche si erano accese, e per la metropoli ancora avvolta dalla bruma invernale, tutto ciò costituiva il sorgere dell'alba.

    Modeste Girou sbadigliò battendo gli occhietti orlati di rosso, e come faceva tutte le mattine balzò dal letto, e infilato un paio di ciabatte si avvicinò alla stufa dando fuoco a un lembo di carta di giornale. Poi con una breve corsa tornò ad infilarsi sotto le coperte.

    Tutta l'operazione non era durata più di un minuto.

    Ora la carta aveva incominciato a incendiare i pezzetti di legno già disposti a castelletto fin dalla sera precedente, poi la legna avrebbe infiammato la carbonella, e questa a sua volta il coke. Tutto sommato altri quindici minuti, durante i quali l'ideatore di quella piccola organizzazione casalinga se ne sarebbe rimasto accucciato fra le lenzuola.

    La stufa, essendo piccolissima, si arroventava rapidamente, e allora il vecchietto poteva vestirsi (cinque minuti) e lavarsi la faccia (tre minuti). Questi otto minuti erano sufficienti perché la cuccuma sui cerchi di ghisa incominciasse a bollire.

    Da quel momento aveva fine la mezz'ora infausta e incominciava la mezz'ora di delizie.

    Intanto il tepore della stufa aveva già reso più confortevole la soffitta, poi c'era da centellinare il caffè, e finalmente veniva il caricamento della pipetta e la sua accensione.

    Questo era il trionfo finale di tutta l'organizzazione Girou, un trionfo cui le prime boccate di fumo servivano da incenso.

    Allora il vecchietto si avvicinava alla finestra, ripuliva con la manica una porzione di vetro e guardava fuori. Naturalmente non vedeva nulla, perché d'inverno, alle sette del mattino, a Parigi la notte e la nebbia regnano ancora sovrane, ma da certi piccoli segni il vecchio capiva se il tempo voleva mettersi al bello o far la neve.

    Restava qualche minuto immobile a spiare la confusa distesa di tetti e di abbaini come un astronomo alla feritoia della sua specola, poi con una fregatina alle mani se ne andava al lavoro.

    Per andare al lavoro non aveva che da discendere centoventitré scalini, attraversare un cortile, e aprire con un'enorme chiave un piccolissimo usciolo verniciato di verde.

    Ed ecco che Modeste Girou si trovava nel suo regno, e non importa se in questo regno egli era l'ultimo dei sudditi. Dalle sette alle otto era solo, e chi è solo si sente sempre un pochino padrone.

    II locale era una specie di labirinto di stanze e stanzette collegate da corridoi e persino da piccole rampe di scale. Nella stanza più grande c'erano le macchine, nelle più piccole i banconi da lavoro, in un bugigattolo, vetrato la direzione, in un altro stambugio era attrezzata una specie di saletta per ricevere i clienti.

    Un odore pesante di inchiostro e di petrolio gravava dappertutto; poi c'erano gli odori secondari: odor di colla ammuffita dalla parte della rilegatoria, odor di gas nel piccolo locale dove si fondevano le sterco, odor di fanghiglia nell'angolo dove troneggiava un torchio litografico.

    Tutti questi odori messi insieme, hanno per i profani un nome solo: Tipografia. Per chi ci vive dentro, questi odori non esistono nemmeno, sono odori che i grafici portano nei panni, nei capelli, sotto le unghie, nei sapore della saliva... Forse senza quegli odori l'esistenza per essi non avrebbe più senso, e portati in un'aria salubre morirebbero per eccesso di ossigeno.

    Figuriamoci poi Modeste Girou, che in quell'atmosfera, ci viveva da mezzo secolo! Era entrato in tipografia a quattordici anni come apprendista, e in cinquant'anni aveva percorso tutta la parabola... operaio di terza, di seconda, di prima... per un certo periodo aveva persino funzionato da proto... poi con la vecchiaia e con il declinare della vista, lentamente era disceso giù giù a fare i lavori meno impegnativi, più correnti per dirla in gergo, e a sessantaquattro anni suonati s'era ridotto a fare l'omino di fiducia.

    A questo punto, per i lettori non grafici, è necessario che io spieghi che cos'è un omino di fiducia.

    Sotto vari nomi, esso esiste in tutte le tipografie del mondo. La sua età oscilla fra i sessanta e i settantanni, dei quali una cinquantina di servizio effettivo.

    È stato tipografo come tutti gli altri, e soprattutto compositore a mano, come chi dicesse il fante dell’esercito grafico. Divenuto vecchio, logoro, anchilosato per il piombo assorbito a forza di maneggiar caratteri, è stato finalmente licenziato.

    Gran brutto giorno, ma capita a tutti e bisogna rassegnarsi.

    Allora il vecchio operaio se ha dei parenti se ne va a casa sua, se non ha nessuno si confina in una soffitta e dice: «Be’... ho lavorato abbastanza... ora mi voglio riposare».

    Lo dice, ma non lo pensa, e certe volte se anche lo pensasse non lo potrebbe, perché anche a sessantaquattro anni bisogna mangiare due volte al giorno... e poi un po’ di tabacco per la pipa...

    Da principio naturalmente tiene duro, e nei momenti di cattivo umore borbotta: «Qualunque mestiere, ma in quelle sporche tane dove ho consumato la mia esistenza non ci voglio rimettere più piede...»

    Poi, un po’ perché non conosce che quel mestiere, un po’ per nostalgia, incomincia a mostrare la faccia di castagna secca all’uscio degli stampatori.

    In una tipografia non l’hanno voluto perché non ce n’è bisogno, in un’altra l’hanno respinto perché ci si lavora quasi esclusivamente con le linotype (bella porcheria pensa l’omino) e finalmente laggiù nei sobborghi, in quella vecchia tipografia dove si compone tutto a mano, e alla sera i banchi restano ingombri di caratteri e di filetteria che sembrano campi di battaglia, il principale ha detto: «Ma sì... giusto c’è bisogno di un omino di fiducia... vi accontentate di sessanta franchi alla settimana? Sessanta franchi alla settimana non sono molti, ma serviranno sempre a qualche cosa».

    Il vecchietto allarga le braccia come una marionetta rassegnata, poi corre a casa lesto, riesuma il vecchio camiciotto di cotonina (ai suoi tempi non usava la combinazione) ed eccolo puntuale alle sette del mattino al lavoro.

    È diventato omino di fiducia.

    Gira dal mattino alla sera come un topo fra le bielle che vorticano e i carrelli che stantuffano, s’infiltra fra i tavoli e i banconi, passa senza neanche curvarsi, tanto è piccolo, sotto le cinghie della rotativa, e va pazientemente rimettendo a posto nelle cassette i caratteri vagabondi, e nelle caselle delle lingottiere, la filetteria e la spaziatura.

    È una lotta continua e un po’ grottesca fra l’omino di fiducia e il dèmone del disordine.

    I tipografi, quando lavorano, pescano rapidamente caratteri e caratteri di tutte le fogge e misure, compongono, impaginano, legano con i loro spaghi untuosi i blocchi di composizione, e attorno a loro è una baraonda di pezzetti di piombo che qualcuno deve riordinare perché i compositori li ritrovino al posto dovuto.

    Questo qualcuno è l’omino di fiducia. È la massaia occhialuta della tipografia, è il ragno paziente che ritesse mille volte al giorno la tela, è il campione del cruciverba tipografico.

    Piccolo, rinsecchito, tutto rugoso per aver assorbito piombo per cinquantanni, con le spalle deformate dall’abitudine di lavorar gobbo, con le gambe gonfie per la flebite cronica, è il Quasimodo di quella cattedrale ronzante di pulegge e di rulli dove l’inchiostro fa da incenso. In una mano porta il vantaggio, che è una tavoletta su cui ammucchia i caratteri, e poi con quelle sue dita nere e rattrappite, ma agili come quelle di un pianista, li suddivide e li lancia nelle cassettine.

    Gli occhi rimpresciuttiti dalla congiuntivite cronica vedono male, ma i polpastrelli infallibili sentono i caratteri, e non c’è un attimo di esitazione nel suo monotono e durissimo lavoro di formica.

    Nelle soste del frastuono, il tic-tic dei caratteri lanciati dall’omino di fiducia nei cassetti, dà la sensazione di uno stillicidio. Lavoro a gocce, monotono come una condanna.

    L’omino di fiducia non parla mai con nessuno e nessuno gli parla. Non ha bisogno d’ordini, sa quello che deve fare, nessuno gli può insegnare più nulla.

    Pare caricato a molla, e che abbia sotto gli scarponi delle minuscole rotelle. Quando s’alza sulle punte per arrivare agli scomparti più alti delle lingottiere, sembra un picchio alla ricerca d’insetti sulla scorza di un albero.

    Quando una composizione è franata, si chiama l’omino perché la rimetta a posto, e quello, tanto armeggia con le pinzette, che rimette a sesto ogni rigo, inseguendo le virgole e i puntini fino negli interstizi del bancone...

    Alla mensa tipografica egli è il Lazzaro di ogni briciola di piombo.

    Modeste Girou ritornò in cortile per empire d’acqua l’innaffiatoio col quale irrorò i pavimenti, poi procedette a una scopatura sommaria, e finalmente incominciò a mettere un po' d’ordine sui banchi di lavoro.

    Accendeva e spegneva meticolosamente le lampade necessarie per illuminare il luogo dove si esplicava la sua attività, e tutto il resto rimaneva al buio. In quel buio egli evoluzionava con grande sicurezza, esperto com’era di ogni scaffale e di ogni bancone.

    Le prime luci del giorno incominciavano a render visibili le intelaiature polverose delle finestre, e le sirene delle fabbriche ululavano vicine e lontane, mentre dalla strada giungeva lo scalpiccio degli operai avviati agli stabilimenti.

    Alle otto meno cinque, l’omino di fiducia andò ad aprire la porta d’ingresso e dette piena luce a tutta la tipografia.

    Subito dopo incominciò l’afflusso dei tipografi.

    Primo a entrare fu un certo Plisset compositore a mano, poi Oreste Leplat il litografo, e alla spicciolata Fredin, Auer, Guerin, Buisson...

    Il proto⁵ Sébastien Hemard entrando salutò la signorina Héloïse, la figlia del padrone che era giunta nello stesso momento imbacuccata in uno scialle che l’avviluppava fino al naso. Poi arrivò lo stesso principale François Momòro e il pittore bozzettista Jean Guigne.

    Sventolio di camici neri, il solito battibecco fra Leplat e Buisson per via degli stracci unti d’olio buttati sulla lito, i primi scappellotti al ragazzo che non ha pulito i rulli della pedalina, e poi il ronzio delle cinghie e il battito dell’officina, misto a quel frusciare d’alveare che è la somma e la fusione dei mille rumori delle tipografie.

    Ma ecco elevarsi una protesta più vivace delle altre.

    Henry Fraisse, l’operaio addetto alla rotativa, che aveva incominciato l’avviamento, si mette a strillare che è un’indecenza, che gli hanno sporcato d’inchiostro rosso la macchina e che vuol sapere chi è stato...

    Siccome Fraisse è il classico brontolone, gli operai più giovani ridacchiano dietro i banchi di composizione e gli rifanno il verso. Ma il proto Hemard, che funge anche da direttore tecnico, non la intende così, e dal fondo del suo stambugio ha già lanciato un’occhiataccia al di sopra degli occhiali a stanghetta.

    Poi si muove camminando sghembo come un crostaceo e si avvicina alla rotativa.

    «Si può sapere che cosa succede?»

    «Guardate voi stesso signor Hemard... che porcheria è questa!»

    Tutti si curvano, osservano, scrutano.

    Ci sono delle macchie sulla ruota dentata, e da una cinghia di trasmissione cola qualche cosa di viscido che a terra si è coagulato in una pozzetta.

    La scopa dell’omino di fiducia, passando superficialmente in quell’angolo buio, ha appena sfiorato le strane macchie che a prima vista potevano essere confuse con quelle dell’innaffiatoio.

    L’operaio Fredin è il primo che annusa e balbetta: «Ma questo è sangue!» e subito un silenzio profondo grava sull’officina. Chi ha staccato i coltelli dal quadro della corrente? Difficile dirlo, ma il certo si è che anche le macchine si sono fermate.

    Il signor Momòro si guarda intorno e vede una gravità inconsueta dipinta sul viso di tutti i suoi operai.

    La mettifoglio Isa Duphine, discesa dalla pedana di una macchina vicina per curiosare, è diventata pallida e si guarda le mani quasi temendo di scorgere anche sulle sue dita le tracce cruente.

    Poi, nel silenzio immobile irrompe con un urlo il ragazzo, il piccolo Michel Labcy che è sbucato dal sottopalco della carta straccia.

    «C’è un cadavere!... là... là nella carta...»

    Il ragazzo agita il braccio magro verso il ripostiglio, poi scoppia in un pianto convulso e nasconde il viso nel grembiule fangoso del litografo Laplat, che in un gesto inconsciamente paterno ha incrociato le mani sulle spalle esili del piccolo.

    Due, tre operai, si lanciano in quella direzione, e uno di essi afferrando una lampadina scorrevole ne dirige il raggio verso il cassone delle cartacce.

    Il cadavere insanguinato di un uomo giace raggomitolato in quella specie di antro zeppo di ritagli, di stracci, di sacchi vuoti, e il suo viso illividito dalla morte ha un’atroce espressione di terrore, che gli occhi vitrei, spalancati, rendono ancor più allucinante.

    Superato lo sgomento iniziale, tutti si voltarono verso il padrone della tipografia.

    Come avviene nelle collettività, i gregari attendevano dal capo la parola risolutiva, e questa attesa era così intensa, che persino il ragazzo smise di piangere e guardò il principale con la bocca infantile tagliata a pesce e le gote ancora bagnate di lacrime.

    François Momòro era un ometto tozzo e spallato, dai capelli grigi e dal viso energico.

    Lanciò un occhiata verso l’ufficio sperando forse che la figlia fosse uscita, ma se la trovò alle spalle, e allora visto inutile ogni precauzione, e in certo qual modo fiero dell’attitudine tranquilla della ragazza, drizzò il busto e con voce di comando lanciò un interrogativo di cui nessuno notò l’assurdità:

    «Chi è?»

    Di nuovo gli sguardi di tutti si rivolsero verso il ripostiglio della carta straccia.

    Il proto, incoraggiato dall’attitudine del principale, si avvicinò al cadavere aggiustandosi gli occhiali.

    Egli ora si sentiva come il secondo di bordo, e fu lui che dichiarò nettamente: «Non è dei nostri!»

    La frase provocò una specie di generale distensione.

    Il morto non era un tipografo, e questa constatazione, che in realtà non cambiava nulla alla gravità del fatto, chissà perché rincuorò gli animi. Anche i più pavidi incominciarono a muoversi e a parlare, il cerchio dei curiosi si strinse attorno alla cosa, che per magia di quattro parole già non sembrava più un cadavere, ma un oggetto estraneo caduto chissà come nella tipografia.

    Quasi quasi ci si aspettava che un ordine del principale o del proto fosse sufficiente per espellere quell’oggetto dallo stabilimento, e che dopo ciò il lavoro avrebbe potuto riprendere.

    Seguendo una analoga suggestione, François Momòro afferrò un telone di quelli che servono a ricoprire le macchine in riposo, e lo lanciò sul cadavere, con un: «Ecco fatto!» poi batté le mani e col viso severo ordinò: «Al posto, al posto!»

    Era un modo come un altro per uscire dall’incubo, e gli operai aderirono con slancio all’invito, quasi che il rimettersi al lavoro significasse la salvezza per tutti.

    Tuttavia nessuno osò immettere la corrente e far funzionare gli organi di trasmissione. Gli uomini si curvarono sui banchi, ma la tipografia restò silenziosa, paralizzata da quel telone buttato in un angolo, quel telone che aveva nascosto, ma non soppresso, la cosa.

    In quel silenzio, i passi di François Momòro rimbombarono stranamente sull’impiantito di legno, poi si udì lo stacco del microfono, il gorgoglio del numero composto febbrilmente, e la voce del principale (una voce divenuta stranamente rauca) che chiedeva: «Commissariato? Parlo col Commissariato di Polizia? Sì... tipografia dei Due Orsi... rue Versigny... sì, è una traversa fra rue Letort e rue Mont Cenis... come? Ah... sì, c’è un morto... come? Un cadavere insomma! Ma no, non lo so... Oh, bella, se vi dico che non lo so! Come? Momòro... sì, François Momòro... Come Marsiglia... ecco!»

    Riagganciò il microfono sbuffando: «Mucchio d’imbecilli... ci vuole un’ora per farsi capire...»

    Poi ritornò nella sala delle macchine, dette un'occhiata in giro, e quasi per rispondere alla tacita domanda dei suoi operai, borbottò: «Adesso non c’è che aspettare... manderanno qualcuno». Poi, sentendo aprire l’usciolo del cortile, si voltò da quella parte, e vide comparire la figlia che sorreggeva la mettifoglio Isa Duphin che era pallidissima.

    «Che cosa c’è?»

    «Niente papà... le è rimasto il caffè sullo stomaco... L’ho portata in cortile a liberarsi... adesso andiamo a prendere un cognac.»

    «Ecco, sì... portala fuori» e facendo un gesto circolare «anche voialtri se volete andare a bere qualche cosa...»

    Qualche donna del reparto legatoria, approfittò dell’invito, e infilando il paltoncino sgattaiolò fuori.

    Gli uomini per ostentare coraggio rimasero al loro posto, ma non sapevano che contegno prendere.

    Uscite le donne, un silenzio profondo piombò sulla tipografia, un silenzio rotto solo da una specie di stillicidio che partiva dai locali dei compositori. Tic-tic... tic-tic...

    Era l'omino di fiducia che seguitava a scomporre le forme e a lanciare i caratteri nelle cassettine.

    Il commissario Émile Richard, comandante la 2a Brigata Mobile, ebbe la telefonata di rimbalzo dal Commissariato di rue Poissonnière.

    «Parla l’ispettore Boileau... è stato trovato un cadavere in una tipografia in rue Versigny... ho mandato due agenti... io non mi posso muovere perché manca il titolare...»

    «Ho capito, andrò io.»

    Dette un’occhiata ai telegrammi giunti durante la notte, impartì qualche ordine allo scritturale che si era presentato con la cestina dei fonogrammi urgenti, poi, visto che non aveva nemmeno il tempo di togliersi il pastrano, non fece che mettersi il cappello in testa e uscire.

    Lungo i corridoi male illuminati della Casa, prese al volo l’ispettore Harpe che stava uscendo.

    «Hanno trovato un morto dalle parti di rue Versigny, in una tipografia... hai da fare?»

    «Pronto principale!»

    «Prendiamo la metrò Poissonnière.»

    «Certo... È un tipografo?»

    «Non lo so.»

    I due uomini non aprirono più bocca durante tutto il tragitto. Alto, atticciato, col suo cappelluccio sul possente cranio calvo e il volto sbarbato e grassoccio, il vecchio Richard non era molto loquace. L’ispettore Harpe, che lavorava con lui da parecchi anni, pur essendo l’antitesi del commissario, perché piccolo, magro e con pretese d’eleganza, era altrettanto taciturno del suo principale.

    All’angolo di rue Letort con rue Versigny, videro una grande scritta campeggiare su un fabbricato basso: Tipolitografia Davin, e entrarono.

    Un anticamera col pavimento in linoleum, pareti candide, qualche acquaforte appesa ai muri in cornicette di legno grezzo, e un lontano brusio di macchine che giungeva dal fondo di un corridoio vetrato e scintillante come quello di una clinica. Un individuo in camice nero fece capolino da un portello che si aprì scorrendo silenziosamente su invisibili guide.

    «I signori desiderano?»

    «È qui che c’è un cadavere?»

    «Ah... no, no... lor signori sono della Polizia?»

    «Commissario Richard...»

    «Già, già... (e qui un sorrisetto vagamente ironico) ma questa è la tipografia Davin... lor signori devono essersi sbagliati... provino più avanti... in rue Versigny...»

    «C’è un’altra tipografia?»

    «Mio Dio, sì (smorfia come per dire chiamiamola pure una tipografia). È un piccolo stabilimento... lo riconoscerete da un’insegna in ferro battuto che rappresenta due orsi...»

    «Sta bene, grazie tante!»

    Non ebbero che girar l’angolo, e videro l’insegna arrugginita della Tipografia dei Due Orsi.

    II commissario alzò il capo a dar un’occhiata al vecchio casamento miserabile nel cui piano terreno era annidata la tipografia, poi spinse la porta a vetri ed entrò.

    Due agenti con la cappottina invernale, che stavano discutendo col padrone, all’entrata del commissario salutarono militarmente. Richard chiese senza tanti preamboli: «Dov’è il morto... e chi è?»

    «E chi lo sa...»

    «Voi siete?»

    «François Momòro...»

    «Proprietario della tipografia?»

    «Per servirvi.»

    «Conducetemi a veder il cadavere.»

    Attraversarono il piccolo ufficio, poi uno stambugio dove c’erano gli archivi per le composizioni in piedi, e finalmente sfociarono nel camerone delle macchine.

    Il commissario girava i suoi occhietti grifagni per assorbire quanto più poteva di ambiente, e il suo grosso naso aspirava l'odore di inchiostro, di petrolio e di colla.

    Gli operai lo guardavano senza celare la diffidenza che il popolino ha verso la Polizia, e Richard sentì quegli sguardi far blocco con gli odori, con le macchine, con tutta la tipografia, che gli apparve un piccolo fortilizio così impenetrabile, da render superfluo il cartello che aveva visto imbullettato al muro entrando: Vietato l’ingresso agli estranei.

    Ma tutte queste vaghe sensazioni scomparvero, allorché Momòro alzò il telone, e il suo sguardo si agganciò al cadavere con l’intensità di un obbiettivo fotografico.

    Il morto mostrava di avere una quarantina d’anni. piuttosto pingue, panciuto, con baffetti neri e capelli tagliati corti. Vestiva abiti da poco prezzo, ma apparentemente nuovi.

    Mentre l’ispettore Harpe gli frugava in tutte le tasche, il commissario si curvò, e con un gesto naturalissimo, ma che lasciò stupefatto il padrone della tipografia, strappò i baffetti che erano appiccicati con un po’ di mastice, e il volto del cadavere cambiò espressione.

    Nelle tasche del morto, l’ispettore non aveva trovato che pochi spiccioli, un fazzoletto, e qualche foglietto di carta spiegazzato.

    Su ognuno dei fogli erano stampate poche righe, e l’inchiostro era visibilmente fresco: Soldati francesi! Quando il proletariato marcerà sull’Eliseo, rifiutatevi di sparare sui vostri fratelli, ma rivolgete i fucili sugli ufficiali, e fate causa comune coi rivoluzionari!

    I manifestini portavano a guisa di firma la dicitura: Comitato anarchico di agitazione.

    «È roba stampata qui?» chiese il commissario mostrando i foglietti al proprietario della tipografia.

    François Momòro impallidì balbettando: «È un grassetto allungato di corpo 12...»

    «Non m’interessa il tipo di carattere... voglio sapere se e roba vostra...»

    «Li abbiamo anche noi... ma non siamo i soli...»

    «E la carta?»

    François Momòro la palpò, la guardò contro luce, poi con un sospiro di sollievo, esclamò: «La carta non è del nostro magazzino».

    II commissario intascò gli stampati, poi lentamente ritornò verso l’ufficio chiedendo: «Dov’è il telefono?»

    Le teste degli operai ora avevano assunto una fissità drammatica. Il cadavere dello sconosciuto non era più un oggetto estraneo, visto che aveva in tasca della carta stampata nello stabilimento. La minaccia delle perquisizioni, degli arresti, della chiusura della tipografia, apparve subito a tutti incombente come una catastrofe irrimediabile.

    Intanto il commissario si era avvicinato all’apparecchio togliendosi i guanti.

    Uno gli cadde a terra, e curvandosi a raccoglierlo, Richard allungò la mano sotto il tavolo che serviva da scrivania a Héloïse, raccogliendo qualche cosa. Ma il gesto fu così rapido che nemmeno l’ispettore capì quel che il principale aveva raccolto.

    Poi nel silenzio echeggiò la voce pacata: «Pronto... commissario Richard... dammi l’ufficio esperti... pronto? Sei tu Lavis? Sono in una tipografia in rue Versigny... all’insegna dei Due Orsi, bada di non sbagliare con un’altra tipografia che e qui vicino... aspetta... porta con te anche il fotografo... un momento! Fai una telefonata al dottor Milton... se non è in Prefettura cercalo a casa...»

    Poi riagganciò il microfono, e volgendosi s’incontrò con due sguardi che lo fissavano intensamente. Due sguardi diversi e simili, come possono essere quelli di padre e figlia.

    «Voi siete?»

    «Héloïse Momòro...»

    «Figlia del proprietario?»

    «Sissignore...»

    «Impiegata qui?»

    «Sbrigo la contabilità...»

    Dietro i vetri della porta d’ingresso s’era già formata una piccola folla di curiosi, e a tratti s’udivano le voci dei due agenti: «Circolate signori, circolate... non c’è niente da vedere!»

    Dall’interno della tipografia arrivava confusamente il dialogo di altre due voci. L’ispettore Harpe, metodico come una macchina, procedeva all’elenco delle generalità...

    «Voi?»

    «Arthur Plisset, compositore a mano...»

    «Avete documenti?...»

    Capitolo secondo

    All'insegna dei Due Orsi

    Quando arrivarono gli esperti dell'ufficio ricerche, la folla in rue Versigny era diventata considerevole. Il freddo pungente illividiva ad alcuni il viso, ad altri metteva sulle guance chiazze di rosso, e i fiati vaporavano dando l’impressione che dalle gole e dalle narici uscisse del fumo.

    La tipografia s’era trasformata in una specie d’accampamento.

    L’ispettore Harpe aveva riunito tutti gli operai nella rilegatoria, confinando le donne in una specie di soppalco.

    Egli aveva già compilato l’elenco dei presenti con le generalità di ognuno, e il commissario Richard, col foglio-paga alla mano, stava facendo il controllo.

    Il fotografo, che gli specializzati chiamavano familiarmente Bebert, aveva piazzato i suoi riflettori un po’ dappertutto, e spostava qua e là il suo trespolo con la macchina, cercando di puntellarsi come poteva nel breve spazio, per avere un sufficiente campo di presa.

    In quanto al dottor Georges Milton, medico-perito della Sûreté, quando gli fu dato di poter esaminare il cadavere, buttò giù rapidamente uno di quei referti stringati ma completi che erano la sua specialità. Ne togliamo i passi più importanti:

    L’uomo, colpito da un primo colpo di pistola al quarto spazio intercostale destro con fuoriuscita del proiettile a due dita sotto la scapola sinistra, ha compiùto mezzo giro attorno alla rotativa per cercare uno scampo, ma raggiunto da un secondo colpo alla schiena, che ha leso di striscio la quinta vertebra conficcandosi poi nel polmone destro, ha fatto un tentativo per abbrancarsi alla cinghia di trasmissione (che in quel momento era ferma) poi è caduto urtando con la parte inferiore della mandibola nella puleggia di un'altra macchina situata a un metro e cinquanta dalla rotativa. La prima ferita è da considerare grave per probabile emorragia interna, la seconda mortale. Calibro del proiettile 6,5. Arma automatica esplosa la prima volta a bruciapelo, la seconda volta a circa cinquanta centimetri di distanza, il che dimostra che l’aggressore ha inseguito la sua vittima. Il primo proiettile è stato rinvenuto conficcato in un rullo da inchiostro, il secondo è tuttora nel corpo della vittima. Ora probabile della morte, fra la mezzanotte e l’una.

    In quanto agli esperti, essi andavano tamponando col loro batuffoli di ovatta imbibiti di talco, tutte le parti lucide sulle quali era possibile rilevare impronte digitali, e per quanto, dato l’ambiente, la loro fatica apparisse ai profani presso che inutile, vi si applicavano con una pazienza e un’attenzione da certosini. Per lunga esperienza essi sapevano che il rilevamento delle impronte, per discutibile che sia, una volta su cento ha un valore risolutivo, e puntavano su quell’unica probabilità.

    Il commissario Richard, che aveva già ispezionato accuratamente porte e finestre, mosse al proprietario della tipografia le prime contestazioni: «poiché le finestre sono fornite di inferriata, le uniche vie d’accesso allo stabilimento sono l’ingresso e la porticina del cortile. Da che parte secondo voi è entrata la vittima?»

    François Momòro allargò le braccia in un gesto sconsolato. Abituato da più di trent'anni ad essere il padrone assoluto del suo piccolo stabilimento, appariva letteralmente annichilito dalla invasione della Polizia.

    Da principio aveva cercato di collaborare con l’ispettore Harpe nel mantenimento della disciplina fra gli operai, durante la perquisizione personale, ma quando si era sentito dire brutalmente: «Voi restate nell’ufficio di direzione e non muovetevi» quel poco spirito che gli era rimasto era sfumato, per dar luogo a una specie di prostrazione fisica e morale.

    Il commissario che se ne accorse tentò di rincuorarlo.

    «Può darsi benissimo che voi non c’entriate per nulla, ma dovete rendervi conto che il mio dovere è quello di investigare su tutti... dunque... dato che le porte non presentano segni di effrazione, bisogna presumere che la vittima e l’uccisore siano entrati con una chiave, buona o falsa che fosse... Procediamo per ordine... chi aveva le chiavi dello stabilimento?»

    «Io posseggo la chiave dell’ingresso principale e anche quella del cortile, ma non adopero né l’una né l'altra.»

    «E come fate ad entrare?» ,

    «Alle otto del mattino lo stabilimento viene aperto dall’omino di fiducia, il quale entra alle sette dalla parte del cortile, fa la pulizia e poi apre dall’interno l’ingresso principale... beninteso se io volessi entrare in qualunque altro momento, non avrei che da portare con me una delle chiavi che ho a casa.»

    «E chi sarebbe questo omino di fiducia?»

    «Modeste Girou... è un vecchio tipografo... ha lavorato venti anni con me... un uomo che gli si può mettere una fortuna in mano, lasciarlo su di una cantonata di strada e dirgli aspettami un momento... dopo un mese lui è certamente ancora là che aspetta...»

    Il commissario parve riflettere alquanto su questa pittoresca descrizione, poi mandò a chiamare l'omino di fiducia.

    Modeste Girou entrò chiedendo permesso due volte, perché essendo duro d’orecchio non aveva sentito la voce del commissario che gli aveva detto: «Avanti!»

    «Voi siete Modeste Girou?» chiese Richard tenendo sott’occhio gli appunti di Harpe.

    «Sissignore.»

    «Del fu André e della fu Joséphine Leugny... vedovo, di anni sessantaquattro?»

    «Sissignore.»

    «Quali sono le vostre mansioni in tipografia?»

    L’ometto si voltò verso il principale meravigliandosi evidentemente del silenzio di costui, poi borbottò sorridendo: «Eh... sono... sono...»

    Il commissario lo interruppe : «Quello che per il momento mi interessa, è che siete il primo a entrare in tipografia... è vero?»

    «Ah... per questo è vero...»

    «Ed entrate con una chiave che vi è stata consegnata dal principale?»

    «Be’... si capisce... se no chi farebbe la pulizia? E poi abito nella casa...»

    «Benissimo... Quindi nessuno vi impedirebbe di entrare nello stabilimento anche di notte?»

    «Per che fare?»

    «Dico così a titolo d’ipotesi... questa notte per esempio a che ora vi siete ritirato?»

    «Come al solito... alle dieci.»

    «Alle ventidue volete dire? Bene... e avete visto della luce nello stabilimento?»

    «Neanche per sogno...»

    «Raccontatemi tutta la vostra serata...»

    «È facile... ieri sera sono uscito dallo stabilimento alle sette e mezza...»

    «Come mai così tardi? Il lavoro non finisce alle diciotto?»

    «Sì» spiegò Momòro «il lavoro per gli operai termina alle diciotto, ma l'omino di fiducia resta dentro per mettere un po’ d’ordine... la sera, fra l’altro, fa la pulizia nello studio del pittore... lava i piattelli...»

    «C’è anche un pittore?»

    «Jean Guigne... il bozzettista.»

    «Ah, ho capito... insomma quest’ometto è il primo a entrare e l’ultimo ad andarsene?»

    «Proprio così...»

    «Bene... andiamo avanti... dicevate dunque di essere uscito.»

    «Alle diciannove e trenta» continuò Modeste Girou, che avendo finalmente sentito interloquire il principale sembrava avesse preso anche lui più coraggio «e come al solito sono andato a cenare ‘‘Chez Bibi".»

    «Che si trova?»

    «Qui vicino... in fondo a rue Lefort... è un bistro che conosce anche il principale...»

    «Poi?»

    «Poi ho fatto la mia partita alla belote con Roger... il meccanico del garage Moto-Indian e con altri due vecchi clienti del locale... Bertholet e Gervas... poi mi sono ritirato... ho preparato la stufa per averla pronta alla mattina, e sono andato a dormire...»

    «Questa mattina non avete notato niente?»

    «Niente signor commissario... i giovanotti di là, mi hanno preso in giro... mi hanno detto che ci vedo così poco che avrei potuto scopare il cadavere con la mia ramazza senza accorgermene... io ci vedo poco, è vero, ma nel ripostiglio delle cartacce non ci sono andato, se no l’avrei visto anch’io...»

    «Lasciate andare... ditemi piuttosto... fate della politica voi? Badate di dire la verità perché tanto verrei a saperlo lo stesso...»

    «Della politica?»

    L’omino allargò le braccia con un’espressione così comica che anche Momòro sorrise.

    Con quel gesto, che aveva messo in mostra tutte le rappezzature del suo abito, pareva che il vecchietto avesse voluto dire: «Credete che se facessi della politica andrei vestito in questo modo?»

    Licenziato l’operaio, il commissario chiese al principale:

    «A proposito di politica, che cosa potete dirmi degli altri?»

    «Ma... sono tutti iscritti ai Sindacati, naturalmente... la maggior parte ai Sindacati Comunisti come avviene per tutte le categorie dei lavoratori, voi lo sapete bene... ma in quanto ad occuparsene, io non credo... c’è stata qualche discussione alla vigilia del 1° maggio, perché ho due compositori iscritti ai gruppi Nazionalisti, ma discussioni di poco conto... oggi non è più come ai miei tempi... adesso gli operai giovani s’interessano delle partite di calcio più che della politica, e i vecchi non contano.»

    «E voi?»

    «Io?... Ah, be’... io da un pezzo non leggo più giornali...»

    «Perché?»

    «Perché mi disgustano... leggo solo libri di Storia... il mio nome non vi ricorda nulla?»

    Il commissario fece una smorfia d’incertezza che fece sorridere il dottor Milton presente all’interrogatorio.

    Allora François Momòro andò alla scrivania, e staccando dalla parete una vecchia incisione la mostrò al commissario dicendo con una certa fierezza: «Questo è il mio bisnonno!»

    La vignetta rappresentava con l’ingenuità delle stampe popolari, un Giacobino che con gli occhi pateticamente rivolti a una specie di angelo col berretto frigio che gli svolazzava sulla testa, brandiva da una mano una spada e dall’altra un foglio di carta arrotolato.

    Sotto l’immagine, fra molti svolazzi, si poteva leggere: Antoine François Momòro, nato nel 1756 a Besançon, decapitato a Parigi il 24 ventoso dell’anno II. Vice-presidente del Club dei Giacobini, Presidente del Club dei Cordeliers. Commissario Nazionale della Libera Vandea.

    E finalmente in caratteri più grandi "Primo stampatore della libertà nazionale".

    Il dottor Milton che si era avvicinato per osservare la stampa chiese: «È quel Momòro che ha sposato la figlia di Fournier... ossia la Dea Ragione?»

    «Proprio così» rispose il tipografo soddisfatto di aver trovato finalmente qualcuno all’altezza di capire «la mia bisnonna è stata incoronata Dea Ragione a Nôtre Dame...»

    Fu in questo momento che il commissario Richard, il quale non aveva la cultura storica del suo amico Milton ma in compenso era fornito di una sensibilità quasi divinatoria, chiese: «Sicché voi fate parte di una specie di aristocrazia degli stampatori?»

    «Lo potete dire signor commissario...»

    «E quindi stampate meglio di chiunque altro... per esempio dei Davin?»

    «Davin? Avete detto Davin?»

    Il corpo tozzo di François Momòro ebbe un sussulto, e l’uomo parve drizzarsi sulle punte dei piedi come un gallo da combattimento.

    «Volete alludere a quei signori che hanno lo stabilimento verniciato a smalto come un ospedale? Volete alludere a quegli elegantoni che stanno qui vicino? Lasciatemi ridere, signor commissario... lasciatemi ridere... stampatori quelli? Ma se non sanno neanche riconoscere un Elzeviro da un Egiziano... Eh, lo so, lo so... oggi la folla va cercando il nuovo... ed è giusto che quei signori facciano fortuna con il loro novecento... con il loro razionalismo... con il loro surrealismo... ma a me mi fanno appena ridere, capite? Gente che pretende di insegnare a noi vecchi come si stampa... gente che tira in ballo l’architettura dei palazzi a proposito delle pagine, e non sa neanche come si giustifichi una riga...»

    «Be’... sentite...»

    «Ah, no signor commissario... non parliamo di queste cose se no divento una belva... eh, lo capisco, quei signori si stropicceranno le mani adesso... diranno... ecco quel che succede nelle vecchie tipografie! Ci si scanna la gente! Ma io vi dico signor commissario che qui dentro, anche se non abbiamo il linoleum per terra, ci sono fior di galantuomini e di lavoratori che sanno il loro mestiere...»

    François Momòro era diventato rosso come un gallinaccio, e passeggiava avanti

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