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CEO Factor: La leadership gentile dei nuovi imprenditori
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E-book226 pagine2 ore

CEO Factor: La leadership gentile dei nuovi imprenditori

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Info su questo ebook

Dopo il successo di Primo. Non comandare (2021), Pierangelo Soldavini e Frank Pagano tornano a riflettere sul ruolo del CEO e sulla leadership necessaria per cambiare il nostro mondo. Interrogando una nuova generazione di imprenditori, innovatori nei più svariati settori, tracciano il profilo di un leader che ama il cambiamento, sa ascoltare e ha l’umiltà di re-imparare il proprio mestiere ogni singolo giorno. Ne esce un quadro in cui la consapevolezza sociale, ambientale ed etica viene messa sullo stesso livello del risultato economico, e dove tecnologia, sostenibilità e comunicazione sono al servizio di un mindset di assoluta rottura con i passati modelli di business e di comando. Tra le voci raccontate, l’Estetista Cinica Cristina Fogazzi, lo startupper di successo Alberto Dalmasso, l’influencer della grappa Francesca Bardelli Nonino e altri protagonisti dei nuovi mondi virtuali, come Thibault Launay di Exclusible, fino a chiudere con Luca Zingaretti, che ci parla di sacrifici, equilibrio e soprattutto gentilezza.
Con i contributi di: Raffaele Bifulco, Natalia Borri, Marco Di Dio Roccazzella, Fulvio Magni, Giuseppe Stigliano

CEO Factor contiene anche una DAO (Decentralized Autonomous Organization), la prima mai associata ad un libro, dove si invitano nuovi artisti a raffigurare la leadership del futuro in digitale. I migliori lavori, grazie alla blockchain, sono venduti tramite NFT ed i proventi devoluti a Medici Senza Frontiere e al lavoro di nuovi artisti.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mag 2022
ISBN9791254840023
CEO Factor: La leadership gentile dei nuovi imprenditori

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    Anteprima del libro

    CEO Factor - Pierangelo Soldavini

    Prefazione

    Il futuro non è più quello di una volta

    di Giuseppe Stigliano, CEO Spring Studios

    Il futuro non è più quello di una volta. Il domani non si dispiega davanti a noi secondo il lineare incedere del tempo. Un tempo che già nel secolo scorso appariva decisamente velocizzato rispetto al passato. Ma che dal Secondo dopoguerra in poi ha attraversato scatti di accelerazione esponenziale, tali da disarcionare intere generazioni di manager e sconvolgere la lista delle aziende più grandi del mondo. Spesso per enfatizzare questa difficoltà di prevedere la traiettoria del nostro tempo, si fa riferimento alla fatidica frase attribuita al generale Eisenhower poco prima dello sbarco in Normandia: Plans are nothing. Planning is everything. In queste poche parole è condensata la grande consapevolezza di chi sa bene che il numero di variabili che entreranno in gioco durante l’azione rende di fatto impossibile effettuare una reale previsione, un reale piano. In altri termini: si dovrà improvvisare. Tuttavia, come ogni leader sa bene, non esiste forma di improvvisazione migliore della preparazione; non a caso nella letteratura di business lo si definisce precisamente scenario planning. Maggiore sarà il numero di scenari che ipotizzeremo, migliore sarà la reazione estemporanea nel caso che le cose non vadano come previsto, nel caso in cui le ipotesi non si rivelino accurate. Credo che la serena accettazione che non si può calcolare tutto, unita alla conseguente capacità di agire, anche quando non siamo completamente pronti, sia una delle doti principali chi deve guidare oggi le nostre aziende e le nostre istituzioni. Dobbiamo accettare l’idea che oggi in molti casi done is better than perfect, perché molto lo si imparerà strada facendo, improvvisando, appunto. So bene quanto questo sia complicato per aziende strutturate, con molti dipendenti, processi consolidati e azionisti a cui riportare. Ma il contesto in cui queste aziende si trovano a operare è oggettivamente diverso dal passato.

    Il futuro non è più quello di una volta perché in un mondo volatile, incerto, ambiguo, complesso, digitale e post-pandemico, il cambiamento è l’unica vera costante. E questo determina una situazione di instabilità diffusa, in cui il tasso di obsolescenza di molte innovazioni rende praticamente insostenibile qualsiasi vantaggio competitivo. Un tempo le aziende potevano dedicare mesi o anni alla fase di ricerca e sviluppo, e poi lanciare prodotti e servizi innovativi di cui avrebbero raccolto i frutti magari per decenni, potendo contare sulla protezione di imponenti barriere all’ingresso, oltre che su marchi e brevetti. Fino a qualche anno fa si poteva contare sulle efficienze derivanti dalla delocalizzazione produttiva e su supply chain relativamente stabili, che avrebbero consentito alle imprese di perseguire con buona approssimazione importanti economie di scala, di scopo e di apprendimento. E in questo quadro, era considerata accettabile una certa negligenza nei confronti delle condizioni di lavoro nei Paesi emergenti oggetto della delocalizzazione, e dell’impatto ambientale provocato dall’impresa. Le si classificava come esternalità negative, mali necessari per consentire al sistema capitalista di funzionare, e al massimo si sarebbe poi compensato il proprio impatto finanziando progetti socio-culturali o di riforestazione. Oggi tutto questo non è più sufficiente. Il nostro pianeta ce lo sta urlando con forza e segmenti sempre crescenti della popolazione pretendono che aziende e istituzioni si schierino in modo molto più netto rispetto a questi temi.

    Il futuro non è più quello di una volta perché, per effetto dei cambiamenti che per necessità di sintesi ho riepilogato solo brevemente, le aziende di maggior successo hanno spesso caratteristiche molto diverse da quelle del passato. E di conseguenza le competenze di chi è al vertice da anni si dimostrano drammaticamente incomplete, quando non inadeguate. Il risultato di questa accelerazione si traduce in un comportamento d’acquisto e di consumo schizofrenico, e determina una situazione in cui le aspettative delle persone evolvono molto più rapidamente della capacità delle imprese di innovare. Ne deriva una perenne distanza tra bisogni, desideri, aspettative, e prodotti e servizi presenti sul mercato. Una volta si sarebbe detto too big too fail. In realtà, in questo contesto una grande azienda rischia di non riuscire ad agire con la velocità necessaria, di rimanere imbrigliata in lunghe fasi di planning da cui scaturiscono plans che nascono con una data di scadenza troppo breve. Le aziende che si sono sviluppate e hanno prosperato nei decenni precedenti non sono strutturate per convivere con la costante incertezza, con un mondo in cui le istanze legate alla sostenibilità ambientale e sociale sono così urgenti, con stili di leadership e management così profondamente diversi; con un contesto in cui i giovani appaiono più interessati all’idea che si vive una volta sola che a dedicare le loro energie migliori a una carriera in una multinazionale globale in cui si sentono parte di un ingranaggio.

    Non è un caso che un secolo fa la vita media di una grande azienda internazionale fosse di 67 anni, mentre oggi la classifica delle 500 aziende dello S&P cambia con cadenza bisettimanale. E si calcola che nel 2027 quella classifica sarà diversa da quella attuale per il 75%.

    L’opinione di chi scrive è che in questo scenario chi governa imprese e istituzioni, e chi ambisce a governarle, abbiano molto da imparare dal mondo delle startup. La cultura di chi persegue un modello di business scalabile, abilitato da quella stessa rivoluzione tecnologica che ha messo in crisi tante aziende tradizionali; l’attitudine di chi considera l’instabilità semplicemente una delle variabili di cui tener conto e ha la caparbietà di ambire a prosperare nel caos; e l’ambizione di chi vuole fare futuro, unita all’umiltà di chi sa di non avere tante risposte e di dover mettere in discussione molte delle proprie certezze.

    E allora quali sono le competenze necessarie oggi per un leader a capo di un’impresa o di un’organizzazione? Quali sono i tratti costitutivi del CEO Factor? Come si fa a pianificare nella consapevolezza che molto probabilmente dovremo improvvisare, adattare il piano ad un contesto in costante mutazione? Qual è la postura mentale da adottare, la giusta Attitude da anteporre alla propria Aptitude, nella consapevolezza che far leva principalmente sul proprio talento e sulle conoscenze acquisite potrebbe rivelarsi controproducente per leggere il mondo che verrà?

    Trovo che questo libro, magistralmente curato da Frank Pagano e Pierangelo Soldavini, costruito sulle solide fondamenta del precedente e temprato del secondo ciclo di incontri con alcuni dei protagonisti del nostro mercato, risponda perfettamente a queste domande. E lo fa con il pragmatismo di chi è consapevole che viviamo nell’era del trial and error, del fail fast, learn quick e della continua a costante reinvenzione. Qualcuno potrebbe essere tentato di rifugiarsi dietro l’idea che le aziende tradizionali non possono funzionare così; che nelle imprese industriali, nelle grandi società di servizi o nelle organizzazioni complesse sia indispensabile adottare i più tradizionali approcci manageriali all’insegna del command and control e del magagement by walking around, altrimenti i dipendenti non fanno il loro dovere. E io francamente credo che questa posizione sia legittima, che le trasformazioni, in quanto transizioni culturali, abbiano bisogno di tempo per completarsi. Ma credo anche che questa rivoluzione sia irreversibile e che, dati gli eventi di questi ultimi anni, si procederà in questa direzione a velocità doppia rispetto al passato.

    Nelle pagine che seguono trovano spazio i punti di vista di tanti imprenditori e innovatori, appartenenti ai settori più disparati, ma accomunati da quel tratto che costituisce la mia singola pallottola: l’Umbizione (umiltà+ambizione). L’umiltà di mettersi costantemente in discussione e l’ambizione di creare un mondo migliore. Per questa generazione di imprenditori profitto, persone e pianeta sono le tre P che costituiscono la conditio sine qua non per fare impresa e per governare, al pari della tecnologia digitale, concepita come un potente abilitatore di innovazione per consentire ad aziende e istituzioni di essere termometro e termostato del nostro tempo. In altri termini: dobbiamo utilizzare la tecnologia sia per misurare la temperatura delle persone, per comprendere come possiamo migliorarne la quotidianità – siano esse colleghi, clienti o cittadini – sia per determinare la temperatura, incidendo attivamente sulla qualità della vita di quelle stesse persone, nell’intento di creare per tutti un futuro migliore di quello di una volta.

    Prefazione

    Generosità

    di Marco Di Dio Roccazzella,

    General Manager & Shareholder di Jakala MarTech

    generosità s. f. [dal lat. generosĭtas -atis]. – 1. a. Nobiltà d’animo che si manifesta soprattutto come altruismo, disinteresse, prontezza al sacrificio e al perdono, ecc. (v. generoso): g. di sentimenti; dare prova di g.; atto di generosità. b. Nel linguaggio sportivo, con riferimento a un atleta, o anche a un cavallo, l’impegno deciso con cui il concorrente sfrutta tutte le sue forze per conquistare la vittoria in una competizione. 2. Larghezza nel donare: compensare con generosità […].

    Quale sarà secondo me la caratteristica distintiva e cosa ritengo indispensabile per il CEO di domani? Ebbene sì, credo sia la stessa che mi ha caratterizzato fin dagli studi, ossia la generosità. Auguro ai CEO del futuro di sperimentarla e di coltivarla.

    Calando la definizione nella mia carriera professionale e soprattutto dovendo dare un’indicazione ai CEO del futuro, provo a calare nella realtà alcune sfaccettature della definizione sapendo che spesso la generosità implica un sacrificio (cosiddetta larghezza di donare) a fronte di un obiettivo più elevato, collettivo, del Team, dell’Azienda o del sistema complessivo, fino ad arrivare al benessere del pianeta.

    Generosità non significa sempre reciprocità e soprattutto non deve essere intesa come una banca dei favori reciproci perché molte persone che si incontreranno professionalmente potrebbero non avere la stessa generosità, ma questo non importa perché nel lungo periodo tutto ciò che si è seminato genererà un ottimo raccolto. La generosità per me è un dare che ritorna anche in ambito professionale.

    Entrando nello specifico, invece, credo che le dimensioni della generosità siano l’impegno, la caparbietà, la tenacia, tipicamente si parla di atleta generoso quando lo stesso nel rispetto delle regole si impegna con decisione e coraggio per conquistare una vittoria, dando l’esempio e trainando i compagni di squadra.

    Impegno significa lavorare facendo sempre del proprio meglio anche nei compiti più ripetitivi o meno piacevoli. Quando a 23 anni ho iniziato come stagista del Chief Marketing Officer di un’azienda che produceva schede per automazione e robotica, dovevo fare fotocopie e mappare in un foglio Excel i prodotti della concorrenza per analizzare il mercato. Fare in modo eccellente quel lavoro (apparentemente noioso) mi ha permesso di far capire che ero pronto per compiti anche più complessi e di costruirmi una referenza personale che mi ha consentito di entrare in contatto con il fondatore di Value Lab, società di consulenza della quale dieci anni dopo sarei diventato socio.

    Un messaggio per i giovani? La gavetta serve ed è importante farla bene e con qualità, crea competenza ed esperienza. E, anche se si fonda e si è CEO di una startup, serve darsi il tempo dell’esperienza, perché il consolidamento dell’esperienza è essenziale, soprattutto perché si impara dai fallimenti e dagli errori del passato.

    Caparbietà è anche tenacia, ossia tenere duro sia nei momenti negativi, dove onestamente non credo alla positività da infondere a tutti i costi alle proprie persone per motivarle, ma alla capacità di essere pragmatici e realisti, discutendo apertamente dei problemi e cercando di affrontare le difficoltà, con la consapevolezza che se ti circondi di persone brave una soluzione si può sempre trovare.

    Generosità per me è anche disponibilità, mettersi a disposizione, ascoltare, essere empatici, suggerire intuizioni, aiutare e dare tempo (risorsa oggi molto preziosa) non solo a colleghi, collaboratori, dipendenti ma anche alle nuove leve, ai giovani portatori di una nuova sensibilità verso il business e verso il mondo.

    Generosità è la disponibilità a condividere idee con i collaboratori, coinvolgerli nelle relazioni e nei progetti sin dall’inizio. Il coinvolgimento è spesso considerato come una perdita di potere. A mio parere non c’è nulla di più insensato, perché coinvolgere significa motivare e, se serve, cambiare o modificare lo scopo di progetti strategici, valorizzare le relazioni ed ampliare il business velocemente.

    Molte ricerche sui Millennials inoltre raccontano di come le nuove generazioni diano valore alla considerazione, al coinvolgimento, e all’importanza del riconoscimento. Condividere il raggiungimento di obiettivi e risultati e riconoscere l’ottimo lavoro svolto da tutti, tutti i giorni è di rilevanza primaria ricordandosi anche che è sempre il gruppo che vince e che ogni singolo professionista in ogni ruolo è fondamentale.

    Generosità è ricompensare i collaboratori adeguatamente sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista delle possibilità di carriera, è riconoscere il merito di collaboratori che possono addirittura essere più competenti in alcune aree specifiche, è investire sui dipendenti più bravi ma anche sui più bisognosi e sulla comunità. Porto l’esempio del fondatore di Value Lab, Marco Santambrogio, che mi ha insegnato questa generosità, permettendomi di sviluppare alcune sue relazioni, soprattutto quando nel 2001 decise di assegnarmi le prime quote societarie per il lavoro che avevo svolto negli anni precedenti, cedendomi di fatto una parte della sua creatura. Insieme abbiamo poi sviluppato il business di Value Lab ed abbiamo fatto la nostra prima exit insieme, quando è poi confluita in Jakala.

    Essere generosi nelle relazioni significa avere apertura verso il nuovo, il non scontato, e non limitarsi alla cerchia ristretta dei collaboratori più vicini. In Jakala abbiamo strutturato le Morning Breakfast, che mi permettono di dialogare direttamente con ognuno, dagli stagisti ai giovani consulenti, ed avere stimoli su come migliorare l’ambiente di lavoro da un lato, dall’altro di aggiornare tutti sulle strategie aziendali.

    Come dice un caro amico CEO di una rinomata azienda internazionale del largo consumo, generosità significa non rifiutare aprioristicamente di dialogare con gli altri sebbene ricoprano posizioni diverse dalla propria o siano molto giovani. Una chiave di successo della generosità sta secondo me proprio nel cercare di avere quante più relazioni possibili con persone interessanti perché alcune idee innovative o nuove tendenze non sono spesso nella cerchia delle relazioni di un CEO.

    L’ultima definizione di generosità che secondo me un CEO dovrebbe avere è l’attenzione alla comunità affiancando al core business della propria azienda un purpose volto a generare effetti positivi sui propri stakeholder (non solo gli shareholder): azionisti, dipendenti, clienti, fornitori, comunità e ambiente. In questo Jakala, pur essendo una società di servizi, per volontà del fondatore Matteo De Brabant, da maggio 2021, è diventata società benefit con il massimo supporto da parte di Ardian, uno dei fondi di private equity più importanti del mondo, e che oggi rappresenta l’azionista di riferimento.

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