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I ricordi degli specchi: L'indagine più oscura del commissario Sensi
I ricordi degli specchi: L'indagine più oscura del commissario Sensi
I ricordi degli specchi: L'indagine più oscura del commissario Sensi
E-book428 pagine8 ore

I ricordi degli specchi: L'indagine più oscura del commissario Sensi

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Info su questo ebook

È una notte umida e il commissario Ermanno Sensi sta scendendo per una delle molte scalinate della parte collinare della città, quando sente un grido. Temendo un’aggressione, il commissario si precipita da quella parte. Per terra c’è quello che somiglia tanto a un cadavere, accucciata lì accanto la donna che ha gridato. In poche parole: lavoro, una cosa che Sensi cerca di evitare il più possibile.
Purtroppo, c’è finito proprio sopra. Per la prima volta in vita sua è accorso tempestivamente sulla scena di un crimine e, anche se si è trattato di un disguido, ormai non può far altro che indagare.
Ma quando Sensi indaga, non sono mai casi aperti e chiusi. Per qualche ignoto motivo le sue indagini si complicano sempre fino a diventare casini immondi.
Questa volta... un altro cadavere scoperto di lì a poco, una ragazza quasi morta di fame in uno sgabuzzino, un traffico internazionale di droga, un’ispettrice salutista, logge massoniche deviate, un brigadiere dei carabinieri con lo sguardo assassino, un’amante dal passato fin troppo simile a quello di Sensi. E lei, la dottoressa dal naso storto, Fiorella, è il mistero più intricato di tutti. Sensi ne è attratto come da una calamita e quasi si dimentica di fuggire dall’amore, ma chi è? E chi è la giovane donna che il commissario continua a vedere negli specchi con la coda dell’occhio?
Mentre Halloween si avvicina e Sensi deve fronteggiare l’enigma più inquietante di tutti: perché la camicia del suo smoking non ha i bottoni sui polsini?
LinguaItaliano
Data di uscita30 ott 2018
ISBN9788829540327
I ricordi degli specchi: L'indagine più oscura del commissario Sensi

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    Anteprima del libro

    I ricordi degli specchi - Susanna Raule

    mai...

    CAPITOLO 1

    La fine di ottobre è un momento particolare. L’estate è finita, eppure, in alcuni momenti, sembra non essersene accorta. Allora arriva la pioggia e ristabilisce le proporzioni. Sono scrosci grigi e tristi, che spiegano a tutti che il sole diventerà sempre più pallido e freddo e che non c’è proprio niente da fare.

    Dopo la pioggia, l’aria è umida e fresca, quasi pulita, e le foglie cadute a terra hanno l’odore di un addio.

    L’autunno è melanconico, se lo ascolti arrivare.

    Ermanno Sensi non aveva alcuna intenzione di farlo. Inizi ad ascoltare l’autunno e finisci ad ascoltare te stesso o altra roba new age. No, grazie. Poteva fare a meno di esplorare la solita insoddisfazione strisciante, la solita irrequietezza, eccetera. Era stanco di quelle cazzate, meglio coprire ogni cosa di rumore.

    Aveva piovuto tutto il pomeriggio e ora l’aria era fresca, bagnata e pulita, ma Sensi cercava di non fare caso neanche a quello. Era piuttosto bravo a ignorare le cose, se si impegnava. Trotterellava giù dalla scalinata Guidoni con le cuffiette del suo lettore mp3 nelle orecchie, deciso a non pensare, punto.

    Come molte altre città liguri, La Spezia sembrava partire dal mare e arrampicarsi sulle colline. Da quelle colline fitte di case scendevano strade strette e serpiginose e scalinate ripide, che tagliavano il paesaggio urbano quasi in verticale.

    A quell’ora della notte, le undici e mezza, sulle strade collinari le auto erano rade, mentre le scalinate erano proprio deserte. Deserte e non molto illuminate, motivo per cui Sensi, mentre scendeva, guardava i gradini ingombri di foglie morte e bagnate e ben poco altro.

    La temperatura era calata insieme alla pioggia e il commissario, nel suo maglione di cotone nero un po’ spelacchiato, aveva quasi freddo.

    Nelle sue orecchie un Robert Smith di vent’anni più giovane gemeva che il lunedì era triste, il martedì e il mercoledì erano grigi, il giovedì non gli importava, ma era al venerdì che si innamorava.

    Era lunedì, non era stata una giornata particolarmente triste e Sensi era piuttosto sicuro che di lì a venerdì non si sarebbe innamorato.

    I suoi piani per il resto della serata, una volta tanto, erano molto lineari: tornarsene a casa, farsi una doccia, ascoltare altra musica, ma sul piatto del suo stereo, alla faccia della vicina del piano di sotto, e infilarsi a letto.

    Avrebbe dovuto immaginare che le potenze cosmiche non avrebbero approvato un progetto così semplice.

    Aveva appena imboccato il tratto di scalinata che andava da via XXVII Marzo a via XX Settembre quando sentì un grido.

    *

    Fu un grido di tutto rispetto. Non un ululato lancinante da film horror, ma neanche un urlo strozzato da pellicola minimalista. Fu un suono modulato e pieno, lanciato, senza dubbio, da una voce femminile, e lo colpì proprio mentre i Cure dicevano che la domenica arrivava sempre troppo tardi, frase che Sensi condivideva con tutto se stesso.

    Proveniva da un punto più in basso rispetto a quello in cui era in quel momento. La scalinata, nel breve tratto iniziale, scendeva parallela a via XXVII Marzo, per poi proseguire in perpendicolare, dritta tra i palazzi, giù fino a via XX Settembre. Dall’alto la vista sulla parte bassa era preclusa dalle fronde di un albero.

    Sensi corse giù più in fretta che poteva. Non gli era mai sembrato che quel posto fosse particolarmente pericoloso, ma un’aggressione, su una scalinata buia e deserta, era pur sempre possibile.

    Se si era trattato di un’aggressione, tuttavia, il suo aiuto era del tutto inutile, come capì un secondo più tardi. Qualche decina di metri più in basso, una donna dai capelli scuri si stava inginocchiando accanto al corpo riverso di un uomo.

    Si stavano anche accendendo delle luci nei palazzi che fiancheggiavano la scalinata e qualcuno stava aprendo una finestra.

    «Tutto a posto?» chiese una voce, dall’alto. «Devo chiamare un’ambulanza?»

    La donna sollevò la testa. «No, chiami la polizia». Lo disse in un tono molto calmo, pensò Sensi, avvicinandosi. La donna spostò lo sguardo su di lui, senza cambiare posizione.

    «Non si avvicini» gli disse. «Credo che quest’uomo sia stato ucciso».

    «Oh, cazzo» disse qualcuno, da una finestra aperta. «Ma è sicura?»

    Mentre tra gli abitanti dei palazzi sui due lati della scalinata iniziava a svilupparsi un vero e proprio dialogo, Sensi si prese un altro secondo per osservare la scena.

    La donna, una tizia più vicina ai trenta che ai quaranta con i capelli scurissimi, restava inginocchiata accanto al cadavere senza dare alcun segno di disgusto. Aveva appoggiato accanto a sé una borsetta minuscola, ma l’abbigliamento non era quello di una serata fuori: una giacca leggera e chiara e dei pantaloni. Sensi non la osservò con attenzione, dato che il dettaglio più rilevante della scena non era lei. Il corpo della vittima era steso a metà tra due gradini, a pancia in su. Che fosse un cadavere era piuttosto evidente, dato che aveva una grossa ferita alla gola e la giacca inzuppata di sangue. Sensi si avvicinò ancora.

    «Davvero, resti dov’è» gli disse la donna «la polizia dovrà fare dei rilievi, potrebbe coprire delle tracce importanti».

    Sensi sorrise. «Più di quanto ha già fatto lei, intende? Non mi preoccuperei». Tirò fuori il portafogli e le mostrò il distintivo. «Sono il commissario Sensi, squadra mobile. È un po’ scioccante, ma credo di essere appena accorso tempestivamente sulla scena del crimine. Lei chi è, invece?»

    La donna aggrottò le sopracciglia e guardò il distintivo. Aveva gli occhi verdi, il naso come la lama di coltello leggermente storta e l’espressione concentrata, non spaventata.

    Sensi mise via il portafogli e si chinò sul cadavere. «Sa, credo che dovrebbe essere lei ad allontanarsi, dopo tutto. Non troppo, però, o dovrò ammanettarla».

    La donna si rialzò, fece un passo indietro e si guardò attorno, come a valutare qualcosa. «La polizia sta arrivando» disse una voce, da un primo piano. La donna ringraziò. La scena ora era ben illuminata dalle luci degli appartamenti al di sopra della scalinata.

    Sensi si accucciò accanto al corpo e lo osservò meglio. Un tizio sulla quarantina, senza capelli ma con dei baffetti scuri, con addosso dei jeans, delle scarpe sportive quasi nuove e una giacchetta beige di qualche marca costosa. Tirò fuori il cellulare e chiamò Tudini.

    «Ciao Max, stavi dormendo?» chiese, come se avesse importanza.

    La donna con i capelli scuri, pochi passi più in là, lo vide fare una smorfia. «Non ci crederai, mi sono appena imbattuto casualmente in una scena del crimine».

    Sensi rimase in silenzio per qualche istante. Quando parlò di nuovo sembrava seccato. «‘Casualmente’ perché, se avessi saputo che poco più in basso c’era un morto ammazzato avrei cambiato strada e sarei andato a farmi una doccia, mi sembra chiaro». Mentre parlava, con il telefono incastrato tra la spalla e l’orecchio, le sue mani stavano tastando sbrigativamente le tasche dei pantaloni del morto. «Non lo so chi è» continuò, sempre più seccato «Non me ne vado in giro con un paio di guanti di lattice in tasca. Aspetta un attimo».

    Si voltò verso la donna, senza chiudere la telefonata. «Ha dei guanti di lattice?».

    La donna scosse la testa.

    «Mh? Sì, la tipa che ha trovato il cadavere. Dev’essere un medico, ma pare che nemmeno loro si portino dietro... Be’, o quello oppure è l’assassina, ma non credo di poter essere così fortunato».

    «Ehi, non sono l’assassina!» strillò la donna, ma non sembrava particolarmente offesa.

    Il commissario le lanciò un breve sorriso, non proprio di scuse, ma nemmeno di scherno.

    «Sì, è meglio se vieni qua» concluse Sensi, rialzandosi e chiudendo la telefonata.

    Più in basso, in via XX Settembre, si stava fermando una macchina della polizia con il lampeggiante acceso.

    *

    Aveva aspettato per un’ora abbondante, ma non le era pesato. Non le sarebbe pesato nemmeno aspettare in equilibrio su un piede solo, con uno zaino pieno di mattoni sulla schiena e con un pompelmo in bocca. Alla fine, l’aveva beccato. Per puro caso.

    Sara Zaccaria, però, non credeva al caso. Credeva a un disegno più grande di lei e al posto che sapeva di dover occupare in quel disegno. Mai nel caso.

    Se, quindi, quella sera, era riuscita in ciò che tentava di fare da quasi tre mesi non era stato per caso. Semplicemente, tutti i pezzi si erano allineati.

    Il cadavere di quel tizio l’aveva aiutata. In realtà, quando l’aveva visto aveva avuto il primo assaggio del sapore dolce della vittoria. Un cadavere, proprio lì, come un sanguinoso regalo da parte del fato. Prima ancora di capire che era morto, era pronta a usarlo per i suoi scopi.

    Lei, in fondo, era una testimone, no? Avrebbe dovuto parlare con il responsabile delle indagini.

    Sara Zaccaria conosceva profondamente la storia e le caratteristiche di Ermanno Sensi. Aveva dovuto informarsi in modo scrupoloso, dopo che con lui aveva fallito. Sapeva che il lavoro di routine non gli interessava – e ne aveva avuto ulteriore prova nei mesi precedenti – ma che aveva un debole per gli omicidi. Dato che quell’uomo era stato chiaramente assassinato, Sensi avrebbe finito per occuparsi del suo caso.

    Tutto questo, tuttavia, in quel momento era puramente accademico. Il fato non le aveva servito su un piatto d’argento soltanto una scusa, ma anche Sensi stesso, facendolo arrivare sul luogo del delitto pochi secondi dopo di lei.

    Distratto dal cadavere, le aveva lanciato soltanto un’occhiata veloce. O così era parso.

    Non aveva importanza e Sara ne era consapevole. Lo sguardo che aveva temuto non era stato quello di Sensi, ma quello dell’essere che aveva dentro. Astaroth dormiva e non si era svegliato. Sara giocherellò con il ciondolo d’osso a forma di ankh che aveva al collo. Era soddisfatta di se stessa. Se aveva funzionato così bene con Astaroth, probabilmente stava funzionando altrettanto bene con Sensi. Doveva solo assecondarne gli effetti.

    Non per la prima volta, si trovò a pensare di essere un genio.

    Riscaldata dal senso interiore di trionfo, per un po’ aveva osservato l’andirivieni delle forze dell’ordine. Erano arrivati degli agenti in divisa, dei tizi dotati di mascherine e guanti di lattice, un uomo corpulento che, al contrario di Sensi, sembrava proprio un poliziotto, un uomo mingherlino che doveva essere il medico legale, dei barellieri... tutte queste persone avevano eseguito una sorta di balletto impreciso e un po’ scoglionato attorno al cadavere. Nessuno si era più interessato di lei e Sara aveva aspettato pazientemente. Non erano loro, a interessarle.

    Visto che non aveva niente da leggere, dopo essersi stancata di guardare la polizia, aveva tirato fuori il cellulare e aveva iniziato una partita a solitario.

    Alla fine, Sensi si era seduto accanto a lei sul gradino. Indossava degli anfibi piuttosto spellati, notò Sara. Sentì anche le pulsazioni che aumentavano e si impose di restare calma. Non doveva sbagliare proprio ora. Il fato era dalla sua parte, non era il caso di sprecare così l’occasione ricevuta.

    «Riproviamoci: lei chi è?» esordì il commissario.

    «Fiorella Torre» disse Sara, senza quasi pensarci. «Una passante» aggiunse, con lieve ironia. «Come faceva a sapere che sono un medico?»

    Il commissario la guardò in silenzio per qualche secondo. Sara ricordava perfettamente il suo viso lungo, pensieroso, e i suoi piccoli occhi grigi, incassati. «E perché passava?» chiese, senza risponderle.

    Sara fece un gesto vago. «Ho parcheggiato qua sopra. Stavo andando a casa».

    «Da dove veniva?»

    Lei si strinse nelle spalle. «Dall’ospedale». Mai mentire alle forze dell’ordine, giusto?

    Il commissario la guardò ancora. «Ma non era al lavoro». Non era una domanda, ma Sara annuì. Era acuto e lei doveva stare molto attenta. «Un mio amico. Sta morendo» spiegò. La voce le si incrinò leggermente. Anche in questo caso, non era del tutto una bugia. L’uomo che era andata a trovare non era un suo amico, ma di certo stava morendo.

    «Che tipo di dottore è?» continuò lui, senza farci caso. Non aveva tirato fuori un taccuino, non stava scrivendo niente.

    «Neurologo» mentì Sara, senza alcuno sforzo. Avrebbe sistemato i dettagli più tardi. Era piuttosto ovvio perché il commissario l’avesse scambiata per un medico. Solo due tipi di persona restano indifferenti davanti a un cadavere: i dottori e gli psicopatici. La soluzione trovata da Sensi era di certo la più pratica.

    «Quindi ha parcheggiato in via XXVII Marzo e poi?»

    Sara sospirò. «Davvero, non potrei farlo domani? Non voglio scappare, voglio solo andarmene a letto». Che era completamente falso, ma era anche la cosa giusta da dire. Lei avrebbe potuto restare su quel gradino in eterno, a patto che ci fosse rimasto anche lui.

    «È stata lei a urlare?»

    «Risponde mai a una domanda?»

    Il commissario sorrise appena. «Un poliziotto gentile le farebbe perdere ancora più tempo. Anch’io voglio andarmene a letto. Mi racconti come è andata, okay?»

    «Niente. Stavo scendendo per la scalinata e ho visto un corpo per terra. Mi sono avvicinata, ma era chiaramente morto. Non me l’aspettavo, ho urlato. Due secondi più tardi è arrivato lei».

    «Non c’era nessun altro?»

    Sara scosse la testa. Ora che ci pensava, era una domanda interessante. Ancora una volta, si trovò a dire la verità. «Non credo. Ma era buio, l’ha visto anche lei. Solo che... via XX Settembre è illuminata. Se qualcuno fosse scappato da quella parte forse ci avrei fatto caso. O forse no, mi ero inginocchiata accanto al corpo. Ma tu sei arrivato subito dopo» aggiunse, un po’ irritata. «Lei» si corresse. Voleva accorciare le distanze, ma non doveva esagerare.

    «Non importa» disse Sensi, alzandosi. «Lasci i suoi dati a un agente. La chiameranno per la deposizione formale. Se le torna in mente qualcosa...»

    «Telefonerò, chiaro».

    «...se la faccia tornare in mente in orario d’ufficio», concluse il commissario, senza ascoltarla.

    Mentre si allontanava, Sara pensò che era all’altezza della sua fama. Completamente all’altezza. Non vedeva l’ora di cominciare.

    Di nuovo, accarezzò distrattamente il pendente d’osso che aveva al collo.

    CAPITOLO 2

    Era riuscito a farsi la famosa doccia solo verso le due del mattino. Al cadavere non pensava già più, era ovvio. Pensava, invece, alla tizia che aveva trovato il cadavere – e non in modo particolarmente professionale.

    Aveva un bel profilo, nella sua imperfezione. Uno sguardo calmo e acuto. Se solo fosse stato più attento, Sensi avrebbe pensato che quella tizia aveva qualcosa di strano: non gli ricordava nessuno.

    Di solito, tutti quelli che conosciamo ci ricordano qualcun altro, in una certa misura. Quella donna, Fiorella Torre, gli era completamente non-familiare.

    Sensi non ci pensò. Neanche il suo cervello disordinato seguiva traiettorie così stravaganti. Pensò per un po’ al fatto che era bella, in quel suo modo particolare, e se ne andò a dormire.

    Dal mattino successivo aveva smesso di pensare anche a lei. Anzi, se l’era praticamente dimenticata, così come il morto ammazzato che aveva avuto la sfortuna di trovare.

    Quando verso le undici arrivò in questura, restò quindi stupito di vedere la sua squadra in piena agitazione.

    «Riunione?» gli chiese Tudini, per prima cosa. A quel punto Sensi si ricordò dell’uomo sgozzato. E naturalmente era martedì e i Cure avevano predetto che sarebbe stato grigio, in tutti i sensi.

    «Red Bull» rispose, di pessimo umore, infilandosi nel suo ufficio perpetuamente in penombra.

    Come aveva potuto essere così sconsiderato da imbattersi in un cadavere per caso? Si lasciò cadere sulla poltroncina dietro alla scrivania ingombra di carte e accese il computer. Torrent riprese alacremente a fare il suo lavoro.

    Circa un mese prima gli avevano regalato un portatile, ma Sensi era convinto che non ci fosse niente di meglio del computer della questura per scaricare illegalmente musica protetta da copyright. Era, come dire... più appropriato.

    In ogni caso, sembrava che al download della raccolta di bootleg dei Christian Death mancassero poco meno di tre ore, quindi andava tutto bene.

    Purtroppo, subito dopo aver constatato che andava tutto bene, nel suo ufficio entrò Tudini. Aveva una lattina di Red Bull in mano, il che era positivo, ma aveva anche l’ispettrice Riu e l’ispettore Mainardi alle spalle, il che non era altrettanto positivo.

    «Non vorrete parlare di cadaveri di prima mattina?» provò a liberarsi di loro Sensi. Non funzionò. O meglio, era chiaro che Mainardi la vedeva esattamente come lui, ma la Riu invece no e la Riu era in grado di riempire Mainardi di terrore come nessun altro al mondo.

    «Credo proprio che dovremo» rispose, infatti, l’ispettrice.

    Sensi la guardò con astio. Se lei non avesse nutrito dei sentimenti inappropriati contro le pozzette d’acqua sul pavimento del suo bagno, Sensi, la sera prima, la doccia l’avrebbe fatta da lei. Sarebbe uscito da casa sua almeno venti minuti più tardi. La dottoressa mora avrebbe trovato il cadavere venti minuti prima che lui passasse di lì. La polizia sarebbe arrivata prima di lui. Lui avrebbe visto i lampeggianti da lontano e avrebbe cambiato strada. Tutto sarebbe stato migliore.

    Sospirò. «Già, be’... non c’è molto da dire, non trovate? Un tizio è stato ucciso con una coltellata alla gola. Purtroppo, l’aggressore dev’essere stato disturbato dal sopraggiungere della dottoressa, lì, e così non ha potuto far scomparire il cadavere».

    «Che cosa ne sai che volesse far scomparire il cadavere?» ribatté l’ispettrice.

    «Non lo so. Lo spero. Spero sempre in un mondo migliore, in cui gli assassini facciano il loro lavoro con discrezione, senza creare disturbo».

    La Riu grugnì, poi spostò una pila di fogli pericolante da una sedia, la mollò sul pavimento e si sedette. Mainardi e Tudini la imitarono.

    Sensi osservò la manovra con vaga apprensione. L’ispettrice era come un virus, un virus dell’efficienza che rischiava di prendere il controllo del suo habitat da un momento all’altro.

    Bevve un sorso di Red Bull e aspettò l’inevitabile rapporto di Tudini.

    «Dunque, come dicevi» attaccò infatti il suo vice un istante dopo, «il cadavere è ancora privo di identificazione. Non aveva un portafogli, o forse gli è stato rubato». Tudini sfogliò qualche pagina del suo taccuino, ma molto velocemente, prima che Sensi gli ordinasse di metterlo via. «Secondo il medico legale la morte è avvenuta pochi minuti prima del ritrovamento del corpo. Il sangue sulla giacca era ancora liquido e il livor non aveva neanche iniziato a instaurarsi».

    «Meno male che i patologi esistono, eh? Qualche altra osservazione che avevamo già fatto da soli? Magari che la causa della morte è che Billy, lì, è stato sgozzato?»

    «Billy?»

    «Preferisci John Doe, per rispettare la tradizione dei film americani?»

    «See, Strina» ridacchiò Mainardi.

    Stranamente, rise anche la Riu.

    Sensi sorrise. «Molto bene, Strina, in onore della città in cui è trapassato».

    Tudini scosse il testone. «Comunque, sì, la causa della morte è la coltellata alla gola».

    «Eccezionale. Quindi abbiamo un tizio sulla quarantina, abbastanza benestante, trovato morto in un punto isolato e buio senza portafogli. Ovviamente, qualcuno ne denuncerà la scomparsa, prima o poi».

    «Per il momento non è ancora successo» disse la Riu.

    «Quindi Strina è single. Oppure la moglie lo odia. È il problema del matrimonio, mi dicono».

    Tudini, che era l’unico sposato nella stanza, non commentò l’ultima affermazione del commissario. Sensi inclinò la testa da un lato, pensieroso. «D’altronde, se nessuno ne denunciasse la scomparsa...» continuò, in tono allusivo.

    «...Noi faremmo comunque tutto il possibile per assicurare l’assassino alla giustizia, anche se non dovesse interessare a nessuno, perché questo è il nostro lavoro... la tua frase finiva così, vero?» sentenziò la Riu, lanciandogli un’occhiata all’azoto liquido.

    Sensi deglutì. «Ma certamente. La stampa è stata informata?»

    «Non l’ho ancora fatto. Una svista a cui rimedierò al più presto».

    Sensi si sporse in avanti. Nella penombra perpetua del suo ufficio, anche la sua ombra si spostò, seguendo il suo movimento. Solo non proprio fedelmente. Nessuno ci fece caso.

    «Lo sai, Rosanna, tu mi dai i brividi. Se tua moglie ti tradisse, ti taglieresti le palle per dispetto».

    «Con tutta la buona volontà...»

    «Lo so, lo so. Quello che non capisco è perché il fatto di non avere delle palle tue debba implicare che tu rompa le mie senza sosta».

    «Ermanno...» lo rimproverò Tudini, bonariamente. Le baruffe tra il capo e l’ispettrice potevano diventare piuttosto cruente. Nessuno dei due lo ascoltò.

    «Ti rompo le palle senza sosta non per carenza di un sistema riproduttivo maschile personale – cosa di cui ringrazio il cielo ogni mattina – ma perché, se non lo facessi, riusciresti a scansare il cento percento dei casi, invece del novanta percento circa, che poi è la tua media».

    Sensi aprì le mani e fece un’espressione innocente. «Non ho forse diritto anch’io a un po’ di felicità?»

    La Riu ci pensò per qualche secondo. «No, se va a scapito delle indagini».

    Lui sospirò. «Oh, come vuoi. Cercate di scoprire chi era Strina, dove viveva, che lavoro faceva e chi l’ha ammazzato. Così va bene?»

    «E il tuo apporto a questa indagine quale sarebbe?»

    «Be’, io...» iniziò Sensi, ma la porta si aprì. Gli occupanti della stanza si voltarono. Sulla soglia c’era una donna sui trentacinque dai capelli molto scuri. La Riu la scansionò velocemente e con la massima precisione, forte del fatto di possedere un apparato riproduttivo femminile. Aveva un viso scuro, duro, con il naso un po’ storto, ma ingentilito da un bel paio di occhi verdi. Una faccia da delinquente, se non fosse stato che tutto il resto parlava di una fashionista all’ultimo stadio: scarpe Louboutin tacco otto, borsa baguette Fendi, pantaloni non catalogabili, coperti da un trench beige probabilmente Burberry.

    «Mi hanno detto che era qua, commissario. Siamo in orario d’ufficio, giusto?» disse la donna, dopo qualche secondo. Era chiaro che non credeva nel bussare alle porte. Ma i suoi occhi, come quelli di chiunque altro, avevano avuto bisogno di un po’ di tempo per abituarsi alla penombra, quindi batté le palpebre un paio di volte.

    «Purtroppo sì. Entri pure, dottoressa» rispose Sensi, che non ricordava il suo nome, sebbene ricordasse eccellentemente tutto il resto.

    La donna chiuse la porta dietro di sé. «Torre, Fiorella Torre» disse, facendo un paio di passi avanti.

    «Sì, certo, Torre. E come mai è qua?»

    Per un istante lei sembrò indecisa. «Ecco... credo di aver trovato delle tracce di sangue».

    Sensi spostò colpevolmente lo sguardo verso il monitor del computer. Mancavano ancora due ore e otto minuti alla fine del download. «Che bello» mormorò, debolmente. Poi sospirò e si alzò. «Be’, ottimo» aggiunse, con un sorriso non molto felice. «Ecco che cosa farò, ispettrice Riu. Controllerò questa segnalazione».

    La Riu inarcò le sopracciglia.

    Sensi guardò di nuovo verso il computer. «Solo...»

    L’ispettrice rise. «Non lo spegneremo, stai tranquillo».

    Il commissario le rivolse un sottile sorriso. «Mancano due ore e sette minuti», spiegò, prendendo la sua consunta giacca di pelle dallo schienale della poltroncina.

    L’ispettrice, stranamente, voltò lo sguardo verso Mainardi. Sensi, scocciato, uscì dalla stanza facendo segno alla dottoressa Torre di precederlo.

    Nell’ufficio in penombra del commissario, ribattezzato da tempo ‘Bat-caverna’, i tre ispettori rimasero in silenzio per qualche secondo.

    Poi Mainardi disse: «Be’, due ore e sette minuti non sono molti. Lo darò cinque a uno e crepi l’avarizia. Max?»

    Tudini scosse la testa.

    «Rosanna?»

    La Riu ci pensò sul serio. «Fossi scema» concluse.

    *

    Sara seguì il commissario verso l’ascensore. Era calma, rilassata, perché il fato le aveva dimostrato ancora una volta di essere dalla sua parte. Osservò la schiena della sua preda, compiaciuta. Certo che non assomigliava per niente a un poliziotto. Aveva dei jeans neri a sigaretta, che cavolo, e ti dava l’impressione di avere un tatuaggio nelle parti intime. Naturalmente, Sara sapeva benissimo che non era così. Aveva un piercing sulla punta del pene e un sigillo sul petto, un sigillo che aveva provveduto personalmente a ripassare, neanche cinque mesi prima.

    Comunque, i poliziotti veri non erano così, e nemmeno gli stregoni. Che, poi, era quello che Sensi era veramente, lo sapesse oppure no.

    «È venuta in macchina?» le chiese lui, in quel momento. Le porte dell’ascensore si chiusero.

    «Sì. Ho parcheggiato qua fuori».

    «Allora può darmi uno strappo. Passo a prendere un paio di sacchetti dal mio bagagliaio» concluse, selezionando il piano del parcheggio sotterraneo.

    «Sa, nel suo ufficio c’era una strana atmosfera di complotto» commentò lei. Familiarizzare, fraternizzare, conoscere l’ambiente.

    Sensi le rivolse un sorriso sottile, ma non disse niente.

    Sara sbuffò. «Lo vede? È snervante. Non mi ha obbligata nessuno a venire qua per aiutare nelle indagini. Potrebbe anche essere un po’ più comunicativo».

    E potrebbe anche incazzarsi, aggiunse mentalmente, ma non credo che lo farà. Qualcosa, comunque, doveva rischiare. Era sempre stata brava a capire le persone e Sensi, in quel momento, era troppo distratto. Fallire prima ancora di tentare sarebbe stato uno smacco troppo difficile da mandar giù, per lei.

    Le porte dell’ascensore si aprirono e Sensi la precedette nel parcheggio. «È una sciocchezza» disse, avvicinandosi a una jeep Wrangler nera e facendo scattare le portiere.

    «Dovreste far sentire ai cittadini che sono utili».

    Sensi sorrise di nuovo. «Oh, ma sono sicuro che sarà utilissima» disse, prendendo una sacca nera dal bagagliaio della macchina. «In ogni caso, l’atmosfera di complotto, come dice lei, riguarda il giro di scommesse dell’ispettore Mainardi. È un po’ imbarazzante».

    Sara mantenne un’espressione di educata curiosità: «Perché?»

    Sensi si caricò la sacca in spalla e tornò verso l’ascensore. «Perché riguarda me. Quanto ci metterò a risolvere un caso, roba del genere. Immagino che sia scaramantico» mentì.

    Sara rise. «Si riferiva a quello, quando ha parlato di... che cos’era? Due ore e sette minuti?» Naturalmente era una palla. Non si riferiva a quello. Si riferiva al giro di scommesse sulle performance erotiche del commissario. Era stata una delle informazioni più facili da procurarsi, su di lui. Praticamente le era caduta addosso senza che la cercasse nemmeno.

    «Qualcosa del genere» rispose Sensi, con notevole faccia di bronzo.

    «Be’, il sangue che ho trovato potrebbe essere un elemento fondamentale. Potrebbe stracciare ogni pronostico. Il suo ispettore perderebbe dei soldi?» insistette Sara. Forse non era prudente, ma la tentazione di vedere come se la cavava era quasi irresistibile.

    Nel frattempo erano arrivati al piano terra e Sensi la stava precedendo fuori dall’edificio. Si voltò appena per lanciarle un sorriso. Sara sorrise a sua volta. «No, li guadagnerebbe. Il banco è sempre a mio favore. Mi parli del suo eccezionale ritrovamento, adesso».

    «Okay, non so se sia veramente eccezionale. Potrebbe essere anche sangue di pollo».

    «Non si preoccupi» disse Sensi, che era assolutamente certo che fosse sangue di pollo. Non credeva nei colpi di fortuna, anche perché non gliene era mai capitato uno, in un’indagine. Colpi di sfiga sì, continuamente, ma colpi di fortuna...

    Sara aprì le portiere di una Mini verde con il tetto a scacchi. «Stavo andando verso la macchina. Se ricorda, ieri sera l’ho parcheggiata in via XXVII Marzo. Parcheggio sempre lì, se torno alla sera, perché in via XX Settembre non c’è mai posto... ci sta?» In effetti, Sensi, nel posto del passeggero, era un po’ rattrappito. Le fece segno di continuare. «E... be’, magari sarà stupido, ma stamattina non volevo passare dalla scalinata Guidoni. Voglio dire, ci saranno ancora i nastri e tutto quanto. Così ho deciso di passare dalla scalinata Fossati, visto che era aperta. Ha presente?»

    In realtà, quella mattina si era messa praticamente con il naso per terra come un cane da tartufi, pur di trovare qualcosa di vagamente utile. Era disposta anche a sacrificare sul serio un pollo, se non trovava niente. Be’, era disposta a sacrificare qualsiasi cosa, dai caproni neri in su, ma non ce n’era stato bisogno. Il fato era dalla sua.

    Si immise nel traffico della tarda mattinata, che poi era l’equivalente del traffico dell’ora di punta in qualsiasi altra città. Guidava in modo calmo e misurato, pensò Sensi. In realtà, sembrava che facesse tutto in modo calmo e misurato.

    «No che non ho presente, sono di Gorizia. Ma immagino che sia la scalinata parallela alla Guidoni» rispose.

    «Non ha per niente un accento friulano» commentò Sara. Personalizzare, quella era la strategia. E fare un po’ l’oca, se serviva.

    Lui sorrise. «Lo so. Quindi, è passata da quest’altra scalinata e...»

    «Giusto, le indagini. Be’, vicino all’imbocco delle scale c’è un bidone della spazzatura. Accanto al bidone ci sono delle macchie di sangue. No, non delle macchie... una specie di pozza, non molto grande. Quindi ho pensato...»

    «...che potrebbe averla lasciata l’assassino. Strina aveva una ferita bella profonda. Se l’assassino era davanti a lui, dev’essersi fatto la doccia».

    «Strina? Il cadavere?»

    «Già. Non sappiamo ancora chi sia e John Doe sembrava banale».

    «Ma che razza di nome è, Strina?»

    Sensi sorrise. «Non vive a Spezia da molto tempo, vero?»

    Lei ammise di no.

    «Strina è una specie di capro espiatorio locale. Quando qualcuno nega di aver fatto qualcosa di sbagliato gli si chiede: ‘E chi è stato? Strina?’. E quando qualcuno non vuole fare il suo lavoro gli si dice: ‘E allora chi lo fa, Strina?’. Ma non so bene da dove venga, in realtà».

    «Ho capito. Ora mi dice come faceva a sapere che sono un medico?» Quella faccenda la preoccupava un po’. Sul momento, confermare la sua tesi le era sembrato un buon modo per non attirare sospetti, ma la cosa non le piaceva. Di neurologia, poi, ne sapeva poco e niente. Comunque, aveva già chiesto a Goffredo di aggiungere il nome di una Fiorella Torre all’albo professionale di un’altra regione.

    Sensi si voltò verso di lei con un largo sorriso sulla faccia. «Non è svenuta. E ha una borsa di marca».

    Sara rise. «Sì, comprata su eBay!» Vero, tra l’altro. Nei suoi piani, lei non era un medico, ma era un’appassionata di moda. Era chiaro che a Sensi della moda non importava niente – come, d’altronde, neanche a Sara – per cui sarebbe stato un elemento caratterizzante senza diventare un possibile elemento di imbarazzo. Prese mentalmente nota di leggere qualcosa di neurologia su Internet.

    «Vede, io non ci capisco niente, di moda» disse, infatti, lui. «Ma una volta ho regalato a qualcuno una borsa simile alla sua e mi è costata tremila euro. Non sapevo che si trovassero anche su eBay. Porca puttana, potevo pagarla la metà, eh?»

    «Un quinto, veramente!» Perché mai Sensi aveva comprato una borsa

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