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C'ero una volta: la mia vita nel respiro del mistero
C'ero una volta: la mia vita nel respiro del mistero
C'ero una volta: la mia vita nel respiro del mistero
E-book132 pagine2 ore

C'ero una volta: la mia vita nel respiro del mistero

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Info su questo ebook

Benedetta De Vito è una scrittrice e giornalista che, per quanto ancora giovane, ha avuto una vita ricca di esperienze, sentimentali e professionali, che l’hanno segnata sicuramente nel bene. Ma c’era qualcosa in lei che, lo sentiva, non andava, un senso di imperfezione che voleva assolutamente correggere. “La mia vita era in fiamme” scrive.
Così si è messa in viaggio, in cerca di una meta della quale lei stessa non aveva idea. Poi l’incontro con Beata Elisabetta Canori Mora e quindi con Santa Caterina, che l’hanno instradata nella fede, donandole la pace del cuore. 
Questo libro è il racconto della sua ricerca, in un confronto con le due sante che è molto coinvolgente sul piano esistenziale e culturale anche per un non credente. Perché, se è vero che la religione cattolica le ha offerto gli strumenti per condurla alla fede, è anche palese che, come leggeremo attraverso la sua prosa non esente da momenti di alta poesia, l’autrice non la vive come un piatto già pronto e cucinato come per la maggioranza dei fedeli che la seguono, ma in lotta continua col dubbio. 
L’itinerario percorso da Benedetta De Vito, per altro molto colto, presso le bambine di Dio, ci ha dato un libro molto bello proprio per questa lettura personale e profonda che anche il più laico di noi può apprezzare per la luce di verità che trasmette, segnando un cambiamento dopo il quale poter dire, mutuando, per la sua storia, dall’inizio di tutte le favole “C’ero una volta”. 
LinguaItaliano
Data di uscita28 giu 2019
ISBN9788899932534
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    Anteprima del libro

    C'ero una volta - Benedetta de Vito

    COLOPHON

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2019 Oltre edizioni

    http://www.oltre.it

    ISBN 9788899932534

    Collana *edeia - letture del mondo

    Titolo originale dell’opera:

    C'ero una volta

    La mia vita nel respiro del Mistero

    di Benedetta de Vito

    BENEDETTA DE VITO

    Benedetta De Vito, giornalista professionista, scrittrice, traduttrice, è nata e vive a Roma. Ha lavorato nella redazione romana del Gazzettino di Venezia e ha collaborato con quotidiani, settimanali e mensili. Ha scritto il libro di racconti per bambini Il naso Augusto (Moby Dick edizioni) e L’ingegnere e altri racconti (Stampa Alternativa, Millelire). Suoi racconti sono sparsi qui e lì in antologie di piccoli premi letterari. Ha tradotto e curato per Nutrimenti edizioni Lei non sarà mai infedele di Jeanne De Casalis e, per le edizioni Bariletti, L’enigma delle sabbie di Erskine Childers, ristampato dalla Nuova Editrice Berti. E’ moglie e madre.

    Sommario

    Autore

    Nella comunione dei Santi

    Elisabetta. monticiana

    Case nuove, vita nuova

    Elisabetta in Via Rasella

    Piccole cose, di chiesa in chiesa

    Una Santa mi chiama

    Di Caterina

    Gli anni romani di Caterina

    Le Cappelle del Transito

    La seconda Cappella del Transito, a Santa Maria sopra Minerva

    La terza Cappella del Transito, a Magnanapoli

    Caterina in giro per Roma, statue e reliquie

    Una crocerossina di nome Lisetta

    NELLA COMUNIONE DEI SANTI

    Bambina, ho avuto la gioia e il privilegio di avere una nonna, Lisetta, (rimasta un poco bimba anche nel suo nome vezzoso) che, al pomeriggio, quando stanco il dopopranzo sembrava non sciogliersi mai nell’ora di merenda, tirava fuori un gran libro con copertina cartonata dal titolo semplice, I Santi del giorno e leggeva a voce alta, qui e lì. Da lei seppi ad esempio che il termine cappella viene da cappa, ossia mantello: il mantello che San Martino donò a un povero infreddolito e che i re merovingi veneravano in un oratorio di una loro chiesa. Un angolo chiamato per metonimia (cioè una parte per il tutto) col nome di cappella, piccola cappa. Cappella: il luogo dove era custodita la preziosa, reliquia è ora luogo santo in tutte le chiese del mondo.

    San Martino, lo conoscevo appunto, per il suo mantello regalato al povero e perché, all’11 novembre, regalava la sua fragile estate radiosa. Io, piccola, lo vedevo vivo nell’atto del dono. Già conoscevo anche le due Terese, la grande e la piccola, e alla piccola preferivo, non so perché, la grande. Poi c’era Santa Monica che aveva un figlio discolo di nome Agostino, Sant’Agnese coi bei capelli lunghi a coprir le nudità, Santa Caterina, bionda, bellissima, con la ruota e le mistiche nozze col Bambino. Li conoscevo, i Santi, nei racconti della nonna Lisetta, che mi faceva vedere il vermiglio delle loro gote, i piedi innocenti, gli occhi in preghiera.

    Poi gli anni sono passati, la nonna è andata lassù (con pianto mio), io mi sono fatta donna e ho letto molti e molti libri, compresa la Filocalia e l’Imitazione di Cristo e la Salita del Monte Carmelo" e certo ora ne so tanto di più. Eppure l’incanto infantile continua a colorarli di stupore, luminosi, i racconti della nonna Lisetta li restituiscono al mio sguardo e mi sembra quasi di conoscerli meglio, passando attraverso la bimba che sono stata. Mi pareva, allora, nell’età verde smeraldo mia, che la verità che cercavo fosse tutta quanta racchiusa in quelle misteriose esistenze perdute nella lontananza dei secoli passati. Nel leggere i loro scritti, adesso in età matura e sveglia, se ne può ammirare la modernità, il logico ragionare, si può entrare in muto colloquio con loro, sentirli vicini, farli entrare nella nostra vita. Ma, nell’innocenza bambina, con l’amore acceso e il cuore in impeto di petto, li si conosce, diciamo così, per osmosi, come abitando dove abitano loro, con la sapienza tenera del cuore che è la verità…

    Ad esempio, io, tornata piccina pur già donna e mamma, camminando tra il Rione Monti e Trinità dei Monti ho incontrato la Beata Elisabetta Canori Mora, trinitaria scalza, sposa e madre e con lei non ho smesso mai di camminare.

    Ma prima che ciò avvenisse, prima, cioè, che Elisabetta prendesse a camminarmi al fianco, doveva accader altro, un piccolo prodigio che mi s’apparecchiò davanti durante una delle tante mie libere passeggiate romane, in solitaria, in compagnia soltanto del respiro, nel dolce meriggiare d’autunno. Camminavo a passo svelto, io, dimentica dei racconti della nonna, del tutto ignara di che cosa fosse un Santo, immemore del catechismo di San Pio X che pure avevo studiato, io moderna tra i moderni, una qualsiasi signora del Ventunesimo Secolo, a passeggio tra gli scappamenti romani, nel puzzo del traffico e tra i frettolosi che vanno a letto sempre più tardi per cominciare il giorno a mezza mattina.

    Mai e ripeto mai avevo pensato che i Santi fossero vivi, mai mi ero sognata di affidarmi al loro patrocinio e non sapevo certo la differenza che passava tra un Venerabile, un Beato e un Santo. Mi pareva, inoltre, che, nel venerare un uomo, mancassi di rispetto al Signore e scorgevo nel culto dei Santi un qualcosa di pagano, di sbagliato, come affidarsi al genius loci. Così, eccomi, per tanti anni, diritta impalata in chiesa a ripetere a ruscello le parole che mi avevano insegnato nel Credo, quello breve, detto degli apostoli, compresa la Comunione dei Santi, e, dopo l’andate in pace, una genuflessione, un segno della Croce e via per la mia strada.

    Finché un giorno, guidata – credo – dallo Spirito Santo, non mi è capitato di percorrere, quasi correndo, tutta la via degli Annibaldi, con i suoi muraglioni bianchi che sembrano abbracciare la strada, per poi scendere, come al guinzaglio di qualcosa di più grande, fin nella valletta del Colosseo, davanti all’immane meraviglia dell’Anfiteatro Flavio, e di seguitare poi, piegando sulla sinistra, lungo la Via di San Giovanni che conduce al Laterano. Eccomi, non so come né perché, giunta al Celio, ai piedi della Basilica dei Santi Quattro Coronati dove, anni prima, insieme al marito, ancora mio sposo novello, visitammo, cercando casa, un appartamento al pianoterra di un palazzo in via dei Querceti, seduto all’ombra della chiesa e tutto ombre lui pure. Alla fine l’affare non si fece e dalle Querce del Celio passammo ai Serpenti dei Monti, dove poi abitammo e abitiamo, in due prima e poi in tre.

    A guardarla dai Querceti, buttandosi alle spalle la romanità, la chiesa medievale sembra il carapace a ombrello di una grande tartaruga che sonnecchia sotto il sole dell’Urbe, baciata dal firmamento: una gran chioccola color mattone, una tartaruga che dorme il sonno infinito del divino, come se fosse stata gettata lì, nella notte, da un gigante buono, sotto le lenzuola turchine del cielo romano.

    Ma quella prospettiva, pur bella, non mi bastava, io la volevo visitare. Nel contare i passi che conducono all’ingresso, eccola invece cambiar forma e farsi, difesa com’è da alti muraglioni, come una gran fortezza di torri e bastioni: un castello santo, un monastero-fortino, come usava ai tempi del Medio Evo, ed era insieme difesa dei monaci e delle anime che conteneva. Respiro e fermo i piedi, perché è in salita l’andare, ed ecco che, guardando verso il basso, Roma, a poco a poco, col traffico, i rumori, la modernità, diventa piccina, scolora e sparisce come inghiottita dal mistero. Tutt’intorno la strada d’asfalto si fa, come d’incanto, agro romano e soltanto il vento, anzi una brezza leggera, sembra trastullarsi lassù dove il cielo pare scendere sulla terra e affondare nel silenzio sacro della comunità di suore agostiniane di clausura che lì hanno dimora. Luogo d’erbe spettinate, allegre, disordinate, luogo di voli pazzi di merli neri, luogo dell’anima, semplice e solenne insieme, che respira nel creato come cosa viva. Io, seduta sul muricciolo sghembo dell’entrata, i piedi in dondolo, respiro e basta e mi sento come rinata nel silenzio d’oro e per qualche tempo me ne rimango lì, come trasognata, nel mio esicasmo muto.

    Già la posizione della Basilica, seduta com’è come su un piedistallo, in basso la città, è grazia. La Gran Chiesa poi, color mattone, nell’eleganza medievale del cotto romano, non più tartaruga sonnolenta ma viva, splende. Mi alzo. Salgo ancora un poco lungo il crinale del colle, entrando come in un castello e – almeno io – anche verso il Creatore e, ritrovato lo spirito che tutti ci pervade, entro in un vasto cortile dove muto è l’intorno e vuoto di vita il canto della serenità. Sulla destra, per chi lo desidera (ma bisogna chiedere la chiave alla monaca agostiniana che aspetta, immobile, dietro la grata) si può ammirare l’oratorio di San Silvestro e non vi svelo la festa di colori, nel disegno elegante del pavimento cosmatesco! L’oratorio di Papa Silvestro è duecentesco e racconta il primato della Chiesa sull’Impero, perché, sia come sia, su tutti, re, imperatori, presidenti della Repubblica, conti e regine, regnano in secula seculorum il Creatore, il Re dei re, e chi sulla terra è chiamato a rappresentarlo.

    Tiro diritto ed entro nella Basilica che mi accoglie nel suo ventre mariano. Mi accomodo in un banco proprio in fondo, ai piedi dell’entrata, giro lo sguardo intorno e tutto mi pare d’oro come d’oro è la mia anima unita al Suo Signore.

    Poi, alzo gli occhi verso l’abside della Chiesa e, oh meraviglia, ecco, variopinta e allegra, la Comunione dei Santi! Sì, sì, sono proprio loro, i Santi che, tutti insieme, vivono lassù in un cielo di mezzo, tra noi e la Trinità. Camminano insieme, santi e martiri, sì sì, tutti assieme e questi ultimi recano in mano lo strumento del loro sacrificio, offerto al mondo per la verità. Essi, da lassù, tra noi e il Signore, sembrano sorridermi con dolcezza nella loro nuvola d’oro come in un gioco di figurine antiche e mi pare quasi, a chiudere gli occhi, di poter anch’io mettermi con loro in cammino e penso quanto vorrei conoscerli uno per uno, chiamarli per nome, sapere chi erano, quali montagne hanno dovuto scalare, come si sono preparati al supremo incontro.

    E gioco, infatti, a riconoscerli nei loro simboli di testimoni, cuori incendiati dal fuoco d’amore, anime accese dalla grazia divina e con un dito immaginario indico e punto e amo: Santa Caterina d’Alessandria con la sua ruota, Sant’Antonio nel giglio bianco, Santa Rita, col soggolo grigio, Santa Caterina nel suo puro giglio di neve, San Girolamo che medita sul teschio mentre traduce la Bibbia in latino, San Nicola da Tolentino con la stella splendente in petto e ci sono altre belle sante e vescovi e cardinali e martiri che, ahimé, non riconosco... Non è un gioco facile, mi dico, anche perché il collo è torto, la lontananza punge gli occhi stanchi e non tutti i simboli dei santi sono a me noti, anzi, mi rendo conto solo adesso di conoscerne pochi e che poco servono ora le letture della nonna Lisetta.

    Lo sguardo si perde nello splendore color di sole e di meraviglia dell’affresco e salgo, salgo, insieme alle figure alate ed ecco, più su, come di un gradino del Santo Monte interiore, in gloria, vedo in piedi, alto su tutti gli altri, il precursore vestito di pelle di capra, Giovanni Battista, San Giovannino, il cugino di

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