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Avrà gli occhi come il mare
Avrà gli occhi come il mare
Avrà gli occhi come il mare
E-book227 pagine3 ore

Avrà gli occhi come il mare

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Info su questo ebook

La prima ecografia rivela impietosamente a Ines e Marco che il battito del bambino non c’è mai stato.
Inizia per loro una dolorosa odissea di nuove gravidanze, aborti spontanei e pellegrinaggi da un medico all’altro.
Ines si sottopone ad ogni terapia anche contro il parere di Marco, che fatica a riconoscere in lei la donna che ha sposato ma che non può non assecondarla. Pensando a se stessa come a una donna a metà, Ines si annulla pur di avere un figlio, a volte mettendo a rischio l’unione con Marco.
Una storia d’amore, di dolore ma anche di speranza, dove il lieto fine non è scontato ma sicuramente auspicato da tutti coloro che si commuoveranno nel leggerla.
Una storia che, tra tutti i colori dell’arcobaleno, sceglie di tingersi di azzurro. Proprio come il mare.


 
LinguaItaliano
Data di uscita8 nov 2018
ISBN9788868227289
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    Anteprima del libro

    Avrà gli occhi come il mare - Antonella La Rosa

    Neruda

    Prologo

    «Mi spiace, non c’è battito, la camera gestazionale è vuota.»

    La frase risuonò nell’aria come un’eco e l’ultima parola la colpì con la violenza di uno schiaffo.

    Vuota… Ines non capiva, non sentiva, non voleva ascoltare. Dov’era finito il suo bambino? Perché non c’era più? E soprattutto… quando era accaduto?

    Quelle parole, in un solo istante, ebbero lo stesso effetto di una coltellata al cuore e riuscirono a far svanire tutti i progetti fatti fino a quel momento. Il dolore, sordo e violento, aumentava sempre più, a mano a mano che si rendeva conto di non poter fare nulla. Pensò a come potesse essere accaduto e milioni di pensieri entrarono nella sua testa tutti insieme.

    «Mi spiace» proseguì il ginecologo, «ma purtroppo la gravidanza si è fermata. È come se si fosse formato il nido, ma non il bimbo a cui il nido era destinato, riesco a spiegarmi?»

    «Ines, amore, ti prego parla, di’ qualcosa…» Marco, per quanto sconvolto, cercava di darle sostegno.

    Lei avvertiva i suoni, sentiva le persone parlare, ma non percepiva alcun significato. La luce, i rumori, gli odori, tutto si era spento, perché si erano spenti i suoi occhi, il suo cuore, il suo bimbo. Lei.

    Che importanza avevano, in quel momento, gli inutili tentativi, da parte del medico, di spiegarle scientificamente l’accaduto? A cosa serviva sottolinearle la differenza esistente fra camera gestazionale ed embrione e tentare di convincerla che quel bimbo, in realtà, non si era mai formato?

    A nulla. Perché lei, da quando aveva visto apparire quella flebile linea rosa sul test di gravidanza, quel bimbo lo aveva immaginato, sognato, desiderato e amato più di se stessa.

    Un sogno infranto

    Non era passato neppure un anno dal 14 aprile del 1994, data del loro matrimonio e Ines e Marco non avevano ancora programmato di avere un figlio. Erano giovani, impegnati e pieni di aspettative. Una gravidanza non era ancora la loro priorità.

    Ines stava studiando per diventare procuratore legale quando, in una fredda giornata di gennaio, capì che il profumo che le aveva regalato Marco la nauseava, non perché non fosse di suo gradimento, ma perché era incinta. Lo chiamò al telefono e, non riuscendo a contenere l’emozione, gli disse tutto d’un fiato: «Amore, aspettiamo un bambino, tra un po’ saremo in tre.»

    Marco, che in quel momento si trovava alla cassa di un supermercato, lasciò la spesa nel carrello e, dopo aver chiesto scusa a una cassiera incredula e contrariata, corse da Ines e l’abbracciò felice, ringraziandola per quella grande gioia.

    Passato lo stupore iniziale, fu un entusiasmo in crescendo. Lo spumante, le telefonate ad amici e parenti e tanti progetti per quel fagiolino che, ogni giorno di più, cresceva nella sua pancia.

    La notte, quando non riusciva a dormire, si chiedeva spesso come sarebbero stati i suoi occhi, le sue mani, i suoi piedini, e sorrideva: probabilmente non sarebbero stati perfetti, visti quelli di Marco e i suoi.

    «E se avesse le orecchie a sventola?» gli chiese una sera nel letto mentre, seppure a tarda ora, sgranocchiava patatine e cipsters, spinta da una fame irrefrenabile.

    «Sarà bellissimo» rispose lui stringendola forte a sé e ridendo divertito «proprio come me!»

    In un giorno di festa che avrebbero voluto rendere ancora più gioioso per tutti, Ines e Marco erano andati a fare la seconda ecografia di controllo. Nessun dolore, nessuna perdita, nessun sintomo.

    In quella uggiosa giornata di febbraio, le previsioni, le speranze, i progetti, non avevano più importanza. Restava soltanto quella camera gestazionale vuota, il dolore al basso ventre dopo il raschiamento, quella morsa in mezzo al petto e quell’odore di anestetico che Ines sperava restasse per sempre, per dormire ancora a lungo e, forse, per non svegliarsi mai più.

    I giorni successivi passarono lenti. Ines rimase a lungo in uno stato di torpore, amplificato dall’uso quasi quotidiano di blandi ansiolitici e, quando recuperava la sua lucidità, piangeva disperatamente. Il dolore era troppo forte e spesso era aggravato da mille sensi di colpa: E se non avessi guidato la macchina? E se non avessi fatto l’amore? E se non avessi lavorato? E se non mi fossi stressata troppo per l’esame?. Poi si sentiva vuota, inutile e monca senza le sue nausee mattutine, il seno dolorante, il suo bambino.

    Marco, dal canto suo, soffriva in silenzio, da solo, ma in maniera diversa.

    «Ines, amore, stai soffrendo, lo so, ma non puoi abbatterti così. Un aborto può capitare a tutte, a noi è capitato, ma non devi arrenderti.» E ancora: «Non era ancora formato, te l’ha detto anche il ginecologo, c’era soltanto la camera gestazionale, null’altro» proseguiva Marco calandosi nella sua competenza medica e staccandosi, in una sorta di autodifesa, dal suo ruolo di padre e marito.

    Ines non rispondeva, ma pensava che quel sacco vuoto, come qualcuno l’aveva definito, per lei era il suo bambino. E Marco, il suo Marco? L’uomo che amava da quando era una ragazzina? Da quando tutto questo era accaduto, era lontanissimo.

    «Bentornata, ci sei mancata tanto.»

    Ines sorrise e pensò che, tutto sommato, aveva fatto bene a riprendere a lavorare. Si trovava bene con i colleghi e anche il suo lavoro era entusiasmante. Si sedette alla scrivania e accese il computer. La sera prima, dopo un mese dalla perdita del bambino, aveva deciso che avrebbe reagito: aveva abbracciato forte suo marito e, insieme, si erano ripromessi che avrebbero ricominciato tutto daccapo. Ora era lì e doveva riuscire a concentrarsi e spazzare via quel magone che l’accompagnava da giorni. Ci riuscì quel giorno, e anche i giorni successivi, ma la sera, quando tornava a casa… non riusciva a controllarsi e scoppiava a piangere. Marco la guardava e non la capiva più. Non capiva perché quella ragazza forte e coraggiosa, che l’aveva fatto innamorare tanto da decidere di sposarla senza esitazione, stava piegandosi così, alla prima difficoltà.

    Erano ancora le nove di sera quando lei gli disse: «Marco, io vado a letto, buonanotte.»

    «A letto?» si stupì lui. «A quest’ora? Ma perché non resti un po’ con me a guardare la tv? C’è Massimo Troisi, c’è Ricomincio da tre

    «No, grazie Marco» rispose tenendo gli occhi bassi per non incrociare il suo sguardo.

    «Ma non ti piaceva?»

    «Sono stanca e ho un forte mal di testa. Ho bisogno di dormire.»

    Ecco, era accaduto, qualcosa si era incrinato. Ma, presi ognuno dal proprio dolore e dalle proprie sensazioni, preferivano far finta di niente.

    I mesi trascorsero in fretta, passarono l’estate, l’autunno e tornò il Natale. La gente per la strada era frenetica in una Cosenza ridente e illuminata. Ines e Marco, davanti alle bancarelle della Villa Nuova, sceglievano con cura le nuove luci per l’albero di Natale. Avevano fretta, dovevano completare gli addobbi nel più breve tempo possibile perché, di lì a due giorni, sarebbero partiti per la settimana bianca.

    «Amore, che ne dici di un viaggetto? Una settimana bianca, magari?» Gliel’aveva chiesto così Marco, senza pensarci più di tanto. Forse allontanarsi un po’ avrebbe potuto aiutare Ines a distrarsi.

    «Mi piacerebbe, pensandoci bene non sono mai andata in settimana bianca.»

    Lo aveva abbracciato entusiasta. Per rivedere quel sorriso, Marco non avrebbe badato a spese. Decisero così di andare in Trentino, a Selva di Val Gardena, un popoloso comune in provincia di Bolzano circondato dalle imponenti Dolomiti. Più tardi, mentre Ines appendeva le palline ai rami del grande abete bianco, cercò di regalare al marito una serata piacevole. Fecero l’amore quella notte, come non succedeva più da mesi e si addormentarono abbracciati come due bambini.

    Selva era bellissima. Gli abeti secolari, addobbati per Natale, splendevano di una luce particolare in mezzo a tanta neve. L’hotel Stern, situato al centro del paese, era caldo e accogliente, nonché ottimo punto di partenza per le piste da sci più importanti della Sella Ronda e per passeggiate da sogno nel cuore delle Dolomiti. Dotato di sauna, bagno turco e ogni tipo di confort, era la cornice ideale per una vacanza che si preannunciava meravigliosa.

    Ines, durante i primi giorni, cercò di imparare a sciare e, quando capì che questo sport non era fatto per lei, accompagnò comunque Marco sulle piste, godendo del panorama. Tutto sembrava perfetto e Marco era sereno, perché Ines aveva ricominciato a vivere e ad apprezzare le piccole cose. La sera, di fronte al camino, sorseggiavano, stando abbracciati, la vodka ai frutti di bosco offerta dalla titolare dell’albergo, ridendo e scherzando come un tempo e sentendosi più innamorati che mai.

    Alla ricerca di un perché

    Era passato un altro anno e Ines si era ripresa. Il lavoro andava bene, la sua vita procedeva tranquillamente e con Marco era tornato il sereno. Ed era di nuovo intenta a completare l’albero di Natale quando, all’improvviso, si accorse di avere la nausea. Da poco più di un mese avevano ricominciato a desiderare un bambino e, per quanto fosse trascorso così poco tempo, capì di essere in attesa.

    Infilò il cappotto e uscì di corsa, vestita così come si trovava e indossando soltanto gli stivali sulla tuta di ciniglia da casa, per andare in farmacia e acquistare un test. Era alla cassa, alle prese con la carta bancomat, quando il telefonino cominciò a squillare.

    «Amore» le disse Marco dall’altra parte, «dove sei? Sono arrivato a casa e non ti ho trovata. Ma non stavi addobbando l’albero?»

    «Sto tornando, sono in farmacia a comprare una crema. Sai, mi sono accorta di aver finito l’idratante e sapevo che qui lo avrei trovato in offerta.»

    «Ok, mi ero soltanto preoccupato un po’. Ti aspetto a casa. A tra poco.»

    Una volta arrivata a casa lo salutò di fretta, prese un bicchiere di carta e si chiuse in bagno, simulando un forte mal di stomaco. Urinò nel bicchiere e, sopraffatta da un’ansia incontrollabile, immerse lo stick nel liquido. Chiuse gli occhi e cominciò a contare, seduta sul water. Dovevano passare 10 lunghissimi minuti, che sembrarono eterni.

    Dio, ti prego, fa’ che io sia incinta, fa’ che sia positivo.

    Prese lo stick con le mani sudate, il viso rosso e il cuore a mille.

    Uscì dal bagno e raggiunse velocemente Marco che, ignaro, era intento a leggere un quotidiano.

    «Amore, devo dirti una cosa.»

    «Dimmi.»

    «Una cosa bella.»

    «Che è successo? Dai, non farmi stare in ansia!»

    «Siediti!»

    «Sono già seduto.»

    «Ecco, io… sono incinta!»

    Marco rimase incredulo, ma solo per un attimo, poi l’abbracciò. «Amore mio, vita mia, stavolta sarà diverso.»

    «Sì» disse lei baciandolo dietro un orecchio, «ma non voglio dirlo a nessuno, ok? Almeno per il momento.»

    La gravidanza proseguiva normalmente, le nausee erano presenti più che mai e il seno sembrava voler scoppiare in quel reggiseno che, fino a quel momento, era stato più che capiente. Ines era serena, ma non aveva voglia di parlarne. Aveva troppa paura che anche questa volta qualcosa andasse a finire male.

    Era alla nona settimana di gestazione quando una mattina, mentre stava preparando la colazione, si accorse che qualche particolare era cambiato. Non aveva più le nausee e il seno, che fino alla sera prima sembrava voler debordare, stava di nuovo comodo nella sua solita taglia. Sentiva freddo, nel corpo e nell’anima.

    Il ginecologo continuava a muovere disperatamente la sonda sul suo addome, cercando il battito. Marco le teneva stretta la mano nella sua, ma Ines era annientata dal dolore.

    Perché? Perché? Perché è successo un’altra volta? Perché proprio a me che desidero un bambino con tutta me stessa? Perché ancora?

    Non riusciva a parlare ma soltanto a ripetere, mentalmente, quelle inutili domande. Aborto ritenuto, lo definirono: il feto era appena formato, quindi era piccolissimo e questa volta non ci sarebbe stato bisogno neppure del raschiamento.

    «Cosa vuol dire? Che dovrò tenere il bambino in grembo fino a non so quando? No, per favore, non ce la faccio così.»

    «Ines» disse il dottore, «se posso evitarti il trauma del raschiamento è meglio, credimi. Sono sicuro che lo eliminerai presto e che neanche te ne accorgerai in quanto, dall’ecografia, è evidente che si è già staccato.»

    Tornò a casa in trance, come un automa, e si lasciò cadere sul letto, inerme. Il telefono squillava ripetutamente, ma Ines non aveva la forza di parlare. Troppe spiegazioni da dare a chi, all’improvviso, aveva saputo contestualmente che aspettava un bambino e che l’aveva già perso. Chiese a Marco di darle uno Xanax o un altro ansiolitico e ne prese due compresse in una volta sola. Poi cadde in un sonno profondo.

    Il risveglio fu terribile: alla disperazione dell’aborto si univa la consapevolezza di dover convivere, fino a data da destinarsi, con il bambino morto dentro di sé. Tante volte stava lì, con le mani sulla pancia e pregava: «Ti prego Gesù, fallo rivivere, non togliermelo, ti prego non togliermelo. Tu, che fai tanti miracoli, fanne uno anche per me.»

    E allora si palpava il seno, sperando di trovarlo turgido e dolorante come quando era ancora incinta e cercava i segnali ben noti. Poi, nel rendersi conto che erano scomparsi definitivamente, ricominciava a piangere a dirotto fino a prender sonno per lo sfinimento. Nulla riusciva a distrarla e le visite della famiglia la infastidivano. Voleva stare sola, con il suo bambino e con il suo dolore inconsolabile. E quel dolore, che spesso diventava anche fisico, dopo qualche giorno le scese fino alle viscere, insopportabile come non mai e la costrinse ad andare con urgenza in bagno. Abbassò lo slip e vide del sangue. Sentiva un forte bisogno di spingere forte e capì, improvvisamente, ciò che stava per accadere. Istintivamente, in maniera quasi inconsapevole, prese della carta assorbente e si tamponò e, d’un tratto, si trovò tra le mani quel feto di cui tutti parlavano. Rimase immobile a guardarlo: era lì, un girino, indifeso e bellissimo. Era un pezzo di carne, le avrebbero detto, soltanto un embrione. No, non era vero, per lei era il suo bambino. Non resse all’emozione e svenne.

    Un’altra delusione, un’altra perdita, un altro lutto da affrontare. Un altro bambino mai nato. Lacrime, disperazione, dolore e tanta voglia di dormire. Per circa una settimana non uscì di casa, alternando lunghe dormite a momenti di forte sconforto. Dormì tanto consapevole che, ancora una volta, si sarebbe dovuta svegliare e avrebbe dovuto ricominciare tutto daccapo.

    «Dobbiamo fare qualcosa, non è normale» disse un giorno a Marco, mentre lui era impegnato a mangiare con la solita voracità un abbondante piatto di spaghetti. «Un altro aborto, non è normale, ma… mi ascolti?» Marco aveva sentito, ma faceva orecchie da mercante.

    «Marco ascolta» continuò Ines, «io voglio farmi visitare, c’è qualcosa che non va. Ho trent’anni, sono giovane e voglio sapere perché sta succedendo tutto questo.»

    Marco continuava a non rispondere.

    «Sono giovane, sto bene e due aborti di seguito non sono normali. Voglio capire perché. Ma… mi ascolti, maledizione?»

    Marco la guardò e stancamente le disse: «Non cominciare a drammatizzare come al tuo solito, due aborti nella vita di una donna possono essere fisiologici. Non facciamo drammi.»

    «Il dramma c’è già stato» replicò Ines. «E io mi sento vuota, dilaniata, inutile. E se proprio vuoi saperlo, ferita da questa tua indifferenza. Ma ora ti prego di lasciarmi da sola e di sparire dalla mia vista!»

    Non alzava mai i toni, neanche quando litigavano con veemenza, ma questa volta era proprio scoppiata. Uscì di casa sbattendo la porta, lasciando Marco ad inveire contro di lei. Ma già non lo ascoltava più, non sentiva più nulla, voleva solo sparire. Guidò per circa un’ora, senza meta, senza sapere dove fosse diretta. Pensò di andare da sua madre, ma cambiò subito idea: la signora Marcella, pur essendo stata ed essendo tuttora una madre affettuosa, aveva un carattere un po’ pessimista e non sarebbe stata in grado, in quel difficile momento, di incoraggiarla più di tanto. Poi, in tale circostanza, era molto preoccupata per questa figlia che non era in grado di mettere al mondo un bambino, tanto da inventare con gli altri che il bambino l’aveva perso a causa di un brutto incidente stradale. Tutto pur di parlarne il meno possibile, non riuscendo ad affrontare l’argomento con freddezza e razionalità.

    Non le sembrò il caso di coinvolgere neanche Francesca, sua sorella maggiore. Senza dubbio era alle prese con la piccola Eva, di appena tre anni e poi Ines, piuttosto che farsi ascoltare, era abituata per lo più a essere quella sempre pronta a dare una parola di conforto. E non voleva che questa inversione di ruoli accadesse proprio adesso. Di Aurora, la più piccola, meglio non parlarne. Troppo presa dai suoi amori impossibili e dai suoi problemi adolescenziali. E poi, era ancora una ragazzina e non sarebbe riuscita a calarsi nella situazione da donna adulta

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