Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Pelle di Foca
Pelle di Foca
Pelle di Foca
E-book366 pagine5 ore

Pelle di Foca

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Irlanda, dove il confine tra mito e realtà non è così netto.
Là dove l’acqua può diventare la più acerrima dei nemici e al contempo amica fidata, c’è chi racconta storie di selkie e di mondi nascosti.
Brennalyn ama ascoltarle, poiché sa che il suo destino è quello di tornare all’oceano che l’ha generata: ha le mani palmate, gli occhi e i capelli scuri come le donne-foca delle leggende. Tuttavia il paese diffida di lei, raccolta da Fergus la notte di Ognissanti quando era ancora in fasce. Divisa tra terra e acqua, Brennalyn desidera la libertà che solo il mare può darle.
Attraverso il pregiudizio, la superstizione e la solitudine, imparerà a conoscersi, accettando la pelle di foca che l’accompagna dalla nascita.
LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2018
ISBN9788829549245
Pelle di Foca

Correlato a Pelle di Foca

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Pelle di Foca

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Pelle di Foca - Melania D'Alessandro

    stesse.

    PROLOGO

    Selkie

    Accadevano cose strane a chi si avventurava fuori dall’uscio di casa la vigilia di novembre, disturbando le danze dei defunti ritornati sulla terra.

    La luna piena si specchiava nelle placide acque dell’oceano e l’aria era carica di presagi che non sfuggivano all’animo sensibile di Fergus McNamara: era la notte di Samhain, quando agli spiriti dei morti era concesso di fare ritorno tra i vivi.

    Gli importava poco dei festeggiamenti sull’isola e che non avrebbe dovuto trovarsi lì: adagiò il currach [1]sulla spiaggia, lo sospinse a riva e vi si mise dentro.

    Gli anziani del villaggio narravano storie di ogni sorta intorno al fuoco per intrattenere i giovani e scoraggiare i più spavaldi. Raccontavano che gli abissi fossero popolati da creature pericolose come i capall uisge, cavalli di una bellezza disarmante. Emergevano dalle onde per attirare gli esseri umani, conducendoli poi nelle profondità, dove ne avrebbero straziato i corpi con i loro denti affilati. Anche le sirene, creature tanto graziose quanto temibili, potevano palesare la loro presenza. Inoltre, schiere di spiriti erranti potevano comparire dinnanzi a chi, incautamente, decideva di prendere il largo in notti come quella, marchiando con il sigillo della morte chi osava disturbare il loro viaggio nel mondo dei vivi.

    Nessuno, dunque, si sarebbe azzardato a lasciare la propria casa dopo il tramonto: non era saggio restare all’aperto, allontanarsi dalla riva, poi, era impensabile.

    Fergus iniziò a vogare con tranquillità. Come le influenze lunari determinavano le maree, così lui si lasciava trascinare dai sentimenti e dalle sensazioni che l’oceano gli suscitava, e quella notte non era da meno.

    Lo sciabordio sui fianchi dell'imbarcazione, unito al ritmo lento che aveva deciso di mantenere ai remi, lo fece sprofondare in una sorta di trance. I ricordi riemersero a tradimento dai flutti della sua memoria, dolorosi e taglienti come l’aria autunnale.

    La spiaggia era ormai distante e il mare d’inchiostro parve inghiottire Fergus con la sua scura immensità, ma lui non aveva paura.

    Conosceva l’oceano e i suoi segreti, era per lui come una moglie: doveva assecondarne i capricci, esplorarne i meandri più nascosti e trarre dal suo ventre la vita. Era il mare a permettere a Fergus di vivere, poiché la sua era una famiglia di pescatori da generazioni. In quelle stesse acque, tuttavia, si era consumata una tragedia che aveva cambiato per sempre la sua esistenza. Un giorno di due anni prima, Maire, la sua adorata moglie, era stata inghiottita dalle onde, scomparendo senza lasciare traccia. Eppure il profumo della pelle di lei impregnava ancora le lenzuola e la sua presenza aleggiava nel cottage di cui Fergus era rimasto l’unico abitante.

    Maire, dove sei? pensò mentre continuava a remare verso il largo.

    Era uscito con il currach sperando di trovare lo spirito della moglie e di poterle parlare. Samhain era l’unico momento dell'anno in cui una simile magia avrebbe potuto concretizzarsi e lui voleva tentare.

    Quando si fu allontanato abbastanza, smise di pagaiare e si lasciò cullare dal dondolio della barca. Attorno al currach, immobile nella scia del riflesso lunare, comparve una testa scura, glabra. Subito dopo ne apparvero altre e un brivido percorse la spina dorsale dell'uomo: le foche erano arrivate.

    Fin da bambino aveva udito una grande varietà di storie e leggende su quegli animali, si tramandavano di generazione in generazione e non c’era abitante dell’isola che non le conoscesse.

    Si raccontava che, quando la luna piena era alta nel cielo, si togliessero la pelle per tramutarsi in donne di rara bellezza dai capelli d’ossidiana e le mani palmate. Danzavano nude sulla spiaggia e la tradizione voleva che fossero gli spiriti dei morti annegati. Si diceva anche che l'uomo che avesse rubato la pelle di foca di una selkie avrebbe potuto costringere la donna a restare con lui sulla terra e a giacere nel suo letto.

    Forse Maire si era trasformata in una di quelle creature, o forse era stata accolta da loro in palazzi fatti di conchiglie e ossa di balena. L’unica certezza che aveva, era che quella sarebbe stata la notte giusta per incontrarla. Da quando aveva preso il currach, aveva sentito che sarebbe stata l’ultima sera che avrebbe trascorso sulla terra. Lo aspettava una vita nuova, negli abissi, con la sua bella Maire. Si sarebbe ricongiunto a lei, rivederla anche solo per un istante avrebbe reso più sopportabile l’idea di abbandonarsi all’abbraccio della morte.

    Prese a chiamarla con insistenza, guardando le foche intorno alla barca. Sperava che una di esse, riconoscendo la sua voce e il suo richiamo, si sarebbe sfilata la pelle per salire sul currach insieme a lui, nel corpo non più giovane, ma sempre florido, della moglie. Almeno questo era quello che la sua anima desiderava più di ogni altra cosa.

    «Maire, so che ci sei. Mostrati!»

    A rispondergli fu solo il gorgoglio delle onde contro il currach.

    «Permettetemi di rivederla, ridatemi la mia Maire!» urlò allora, rivolto alle foche.

    Alla luce della luna, Fergus non poteva vedere gli occhi di quelle creature, poiché al loro posto erano disegnate dall’ombra due cavità circolari, pozzi profondi senza fine. Nel buio, le teste delle foche emerse dai flutti sembravano teschi, immagini spettrali e macabre di una notte già carica di mistero.

    Era certo che lo stessero ascoltando, ma la frustrazione del pescatore crebbe quando realizzò che non avrebbe ricevuto alcuna risposta.

    Si sarebbe giocato il tutto per tutto, non valeva più la pena di continuare a vivere e a respirare senza la presenza rassicurante della moglie. Se Maire non poteva andare da lui, sarebbe stato Fergus stesso a raggiungerla. L'avrebbe fatta finita.

    Si alzò in piedi e carezzò un'ultima volta la luna con lo sguardo, poi si lasciò cadere nell'acqua gelida dell'oceano. L'apnea durò attimi che a Fergus parvero un'eternità.

    Ammise a se stesso di aver sperato che, una volta tuffatosi, Maire avrebbe nuotato verso di lui riportandolo a galla, ma non accadde.

    Il freddo intorpidiva il suo corpo, rendendogli difficile il movimento, e il mare era nero come non lo aveva mai visto. Il petto gli bruciò, bisognoso di ossigeno, ma Fergus non cedette all'istinto di tornare in superficie per prendere la boccata d'aria che lo avrebbe salvato. Voleva abbandonarsi al gelo, alla solitudine e alla morte.

    Eppure, qualcosa in lui desiderava lottare per uscire, per porre fine a quella pazzia e riprendere a respirare a pieni polmoni la vita e le possibilità che aveva deciso di ignorare da quando Maire era morta.

    Lottò contro se stesso, pensando di essere un vigliacco, un povero vecchio che non trovava più neppure il coraggio di morire e lasciarsi andare per sempre. L'acqua si era fatta più fredda, o forse era la morte che sopraggiungeva per accoglierlo. Aveva smesso di annaspare, non ne aveva più la forza e anche i pensieri si stavano spegnendo.

    Riusciva a intravedere sotto il velo delle palpebre il volto di Maire, rassicurante e bello come non mai.

    All'improvviso sentì una presenza sfiorarlo, poi spingerlo con decisione dalla schiena e trascinarlo verso l'alto. In un attimo, Fergus raggiunse la superficie e rigettò tutta l'acqua che aveva ingoiato. I polmoni immagazzinarono aria, provocandogli un forte dolore, ma tutto quello che contava era che Maire lo aveva riportato alla vita. Si aggrappò al corpo della moglie, nuotando a fatica insieme alla creatura marina che era diventata. Non aveva il coraggio di guardarla ed era ancora intorpidito e stordito dal tentato suicidio.

    Raggiunsero il currach e venne per Fergus il momento di aprire gli occhi. I raggi argentati della luna gli mostrarono che quello a cui era abbracciato era in realtà il dorso di un delfino, e non quello di Maire, né di una selkie.

    La disperazione si impossessò di lui ancora una volta: il mare non lo voleva, non era il suo momento. Era condannato a vivere ancora, anzi, a sopravvivere.

    Salì a fatica sul currach, scosso dai tremiti e dai singhiozzi disperati, niente poteva più frenare le lacrime.

    Infine, si fece coraggio e afferrò i remi, dirigendosi verso la riva. I suoi movimenti erano convulsi, il freddo gli era penetrato fin dentro le ossa, ma riuscì a far avanzare l'imbarcazione.

    Quando giunse in prossimità del litorale, udì un lamento insistente, forte. Sembrava quello di un neonato.

    Si guardò intorno, pensando che l'acqua che aveva inghiottito lo avesse fatto uscire di senno. In una notte come quella era possibile che ci fosse un bambino sulla spiaggia.

    Remò più in fretta, guadagnando la riva. Scese dal currach e lo tirò in secca, poi seguì il vagito.

    Non ci volle molto per trovare la fonte di quella disperazione: sul bagnasciuga, quasi raggiunto dalla risacca, era stato abbandonato un fagotto. Si avvicinò tremando e scorse il viso di un bimbo contratto dal pianto fare capolino dalle fasce in cui era stato stretto. Fergus non si spiegava come avesse fatto a non bagnarsi e a non morire congelato.

    Lo prese in braccio e lo avvicinò al petto per donargli un po' del suo calore, ma si ricordò di essere bagnato fino al midollo. Doveva correre al cottage, se voleva salvarlo. Si guardò intorno per cercare nelle vicinanze l'artefice dell’abbandono, ma non scorse nessuno.

    Era una morte orribile, quella a cui lo aveva destinato, un gesto crudele. Fergus lanciò uno sguardo veloce nel punto in cui aveva raccolto il neonato e notò delle impronte nella sabbia. Erano piccole, con ogni probabilità appartenevano a una donna; si dirigevano verso il mare, cancellate dall'acqua che andava e veniva.

    Un tremito percorse la schiena del pescatore, ma non era il freddo a farlo rabbrividire. Fergus si sentiva il testimone di un prodigio che avveniva nelle fiabe e nei miti del folclore irlandese, non si aspettava certo che una cosa del genere sarebbe potuta capitare proprio a lui. Prese a tremare ancora di più, ora temeva di guardare il fagotto che stringeva tra le braccia.

    Allargò i panni che cingevano la creatura e scorse una testolina di capelli neri. Deglutì, nervoso. Quella chioma non era un buon segno.

    Aprì ancora la stoffa e il bambino tirò fuori le mani. Fu allora che i timori di Fergus si concretizzarono.

    Alzò gli occhi al cielo, implorante, e sospirò alle stelle tutta la sua apprensione. Il cielo si offuscò dietro la coltre di lacrime che affioravano incontrollabili.

    Perché proprio a me?

    Solo un'ora prima aveva pensato di farla finita, di riabbracciare Maire...

    Maire. Doveva essere stata lei a lasciargli quel dono sulla riva, per dargli un motivo per continuare a vivere.

    Le impronte sulla spiaggia erano le sue, si era tuffata sparendo tra i flutti: Fergus ne era ormai certo.

    Le lacrime rigarono il viso dell'uomo e i singhiozzi tornarono a squassargli il petto.

    Il panno che avvolgeva il bambino si sciolse del tutto, rivelandone il sesso. Era una femmina.

    Si domandò come avrebbe fatto a prendersi cura di una creatura simile.

    Fergus non aveva la risposta a tutte le domande che gli affollavano la mente, ma aveva un'unica certezza: era ancora vivo, l’oceano lo aveva rifiutato e gli era stato fatto un dono importante. Da quel momento, la bambina sarebbe diventata la sua unica ragione di vita, lo sapeva; era stata affidata a lui, quella era la volontà del mare e lui non l'avrebbe ignorata.

    Riavvolse la creatura nella coperta e si diresse verso il cottage.

     Attorno al currach, immobile nella scia del riflesso lunare, comparve una testa scura, glabra. Subito dopo ne apparvero altre e un brivido percorse la spina dorsale dell'uomo: le foche erano arrivate. 

    PARTE PRIMA

    Non so dove i gabbiani abbiano il nido,

    ove trovino pace.

    Io son come loro;

    in perpetuo volo.

    La vita la sfioro

    Com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.

    E come forse anch’essi amo la quiete,

    la gran quiete marina,

    ma il mio destino è vivere

    balenando in burrasca.

    Gabbiani , Vincenzo Cardarelli

    CAPITOLO 1

    Pelle di Foca

    Brennalyn correva sulla spiaggia a piedi nudi, lo sguardo rivolto al cielo. Sopra la sua testa corvina, un gabbiano si lasciava trasportare dal vento come un aquilone.

    «Guardami, Fergus! Sto volando anche io!» urlò, agitando le braccia a mo’ di ali.

    Il pescatore le sorrise: «Ricordati di guardare in basso, ogni tanto: avrai pure le ali, ma i tuoi piedi sono ben ancorati a terra».

    Era stanco per le lunghe ore di lavoro, ma era un piacere guardare la sua Brennalyn giocare spensierata.

    La bambina seguiva il gabbiano, percorrendo la sua stessa rotta dal basso. Quando quello prese la via del mare, Brennalyn smise di agitare le braccia, corse da Fergus e si lasciò cadere accanto a lui.

    «Volare mi stanca» affermò, guardando il padre adottivo con i grandi occhi scuri.

    Fergus sapeva cosa si nascondeva dietro quell’affermazione. Brennalyn faticava ad ammettere di avere dei limiti: non poteva solcare le correnti del cielo e volare via, sopra le nuvole, né poteva lasciarsi cullare dalle onde dell’oceano e nuotare lontano. Non sopportava il fatto di doversi mettere dei freni, era libera e fiera come solo una creatura del mare sapeva essere e, piuttosto che ammettere di non poter raggiungere il gabbiano, aveva giustificato il suo limite dicendo di essere troppo stanca per andare oltre.

    «Non lo metto in dubbio» rispose.

    «Fergus, quando mi insegnerai a nuotare?» domandò, sdraiandosi a pancia in su sulla sabbia.

    «Abbiamo già fatto questo discorso, Brenna. Lo farò quando riterrò che sarà giunto il momento, sai come la penso.»

    Nonostante Brennalyn si stesse avvicinando al suo sesto compleanno, Fergus non si era ancora deciso a portarla con sé in mare. Nel profondo del cuore temeva che, stando a contatto con il suo elemento di appartenenza, la bambina sarebbe scomparsa insieme alle selkie per non fare più ritorno. Non avrebbe sopportato di perderla, anche se sapeva che prima o poi sarebbe successo. Non si poteva tenere al guinzaglio una creatura nata dalle onde e, ogni giorno che passava, la corda che Fergus teneva ben stretta si faceva sempre più fragile.

    «Non vuoi per quello che è successo a Maire, vero?» indagò lei.

    «Non solo, Brenna.»

    «Hai paura che torni tra le selkie

    Fergus non si era fatto scrupoli a raccontare a Brennalyn come fosse entrata nella sua vita. Era meglio così, d’altronde le sue vere origini non potevano rimanere nascoste. I coetanei, con la schiettezza tipica dei bambini, le avrebbero rivelato comunque la sua natura e, in ogni caso, l’avrebbe scoperta da sola osservando le differenze fisiche che la distinguevano dagli altri abitanti del villaggio. Le sue dita erano unite da una sottile membrana che le impediva di aprirle e distanziarle: aveva le mani palmate e solo le creature del mare potevano nascere con simili caratteristiche. I capelli e gli occhi scuri, inoltre, ne confermavano la provenienza. Apparteneva senza ombra di dubbio al popolo dei sidhe [2].

    L’uomo si incupì, lo sguardo perso all’orizzonte. Brennalyn se ne accorse e cercò di rassicurarlo: «Sai che non voglio andare via» disse, poggiandogli la mano sulla guancia coperta dalla barba brizzolata.

    «Sei una piccola imbrogliona! Lo dici solo perché vuoi che ti insegni a nuotare». Fergus le sorrise, bonario.

    «E tu sei un vecchio brontolone! Non ti fidi di me?»

    «Certo, è del mare che non mi fido.»

    «Be’, non lo conosco bene, ma non voglio che diventi triste, per cui quando tornerò tra le foche verrò a trovarti, qualche volta.»

    «Vedremo, Brennalyn. Vedremo. Intanto tra poco comincerai la scuola, non sei curiosa?» tentò di distrarla.

    Questa volta fu lei a rabbuiarsi. Mise le braccia conserte e disse, imbronciata: «Non mi piace stare con gli altri bambini e rimanere seduta per ore. Voglio correre, inseguire i gabbiani e guardare i delfini e le foche, andare alle scogliere e restare vicino al mare. Non potrò più fare tutte queste cose».

    «Non essere tragica, adesso. Non ti mangeranno di certo, potrai farti degli amici, non credi? E potrai giocare sulla spiaggia per tutto il tempo che vorrai, quando non sarai a scuola.»

    Brennalyn scosse la testa, risoluta: «I gabbiani, le foche e i delfini sono i miei amici: non ne voglio altri».

    «Ma ci sarà anche Aiden con te, dovresti essere contenta.»

    «Sì, ma è solo uno dei miei compagni. Tutti gli altri non mi stanno simpatici.»

    C’era una ragione profonda nella chiusura di Brennalyn e nei suoi timori riguardo la scuola. L’unico con cui riuscisse a giocare e a essere se stessa era proprio Aiden, che era come un fratello per lei. Tutti gli altri coetanei del villaggio per lo più la evitavano e, quando la vedevano camminare al fianco di Fergus, le lanciavano strane occhiate e cercavano di non starle intorno.

    I sidhe erano trattati con timore e rispetto, ma il fatto che fosse piombata nella vita di Fergus proprio la notte di Samhain non era un buon segno per gli abitanti del paese. Cercavano di non avere a che fare con lei e di non disturbarla, per evitare di avere spiacevoli sorprese future.

    «Non devi preoccuparti, sono sicuro che farai amicizia e che ti troverai bene.»

    Brennalyn si mise a sedere: «Sai una cosa, Fergus? Non sei bravo a dire bugie».

    «Tu non sei figlia di una selkie, la verità è che sei un folletto dispettoso!»

    L’aria si riempì della risata cristallina di Brennalyn, che finì per contagiare anche Fergus.

    «Andiamo, adesso. Sarà meglio mettere qualcosa sul fuoco, se non vogliamo rimanere a digiuno stasera.»

    Fergus si alzò e Brennalyn fece altrettanto. Gli prese la mano e insieme si avviarono verso il cottage.

    Il momento della giornata che Brennalyn preferiva era la sera. Il sole annegava nell’oceano, all’orizzonte, e cielo e acqua si tingevano di colori mozzafiato. D’inverno godeva delle tinte del tramonto dalla finestra del cottage, nella bella stagione, invece, convinceva Fergus a uscire per ammirare lo spettacolo dalla spiaggia. In quella manciata di ore poteva stare con il pescatore, ridere insieme a lui e addormentarsi cullata dalle storie che, come un rito, Fergus aveva preso a raccontarle. Avevano tutte una caratteristica comune: dovevano avere a che fare con il mare, altrimenti Brennalyn non era interessata ad ascoltarle. La appassionavano i racconti di marinai ammaliati dalle creature degli abissi, le avventure alla ricerca di terre sconosciute, le descrizioni delle profondità dell'oceano, dove sapeva che presto o tardi sarebbe andata. La bambina, poi, riproduceva nei suoi giochi quelle storie, immedesimandosi nei personaggi che amava.

    Anche quella sera era giunto il momento tanto atteso: «Allora che storia vuoi che ti racconti, stasera?» le domandò Fergus, mettendosi comodo.

    «Raccontami ancora una volta del perché il mare è salato.»

    «Ma la conosci a memoria!»

    «Lo so, ma è la più corta e ho tanto sonno.»

    «Molto bene, allora» disse, schiarendosi la voce.

    Un tempo, quando le grandi navi di ferro non esistevano ancora, salpò da un porto non lontano da qui un capitano con il suo bel veliero.

    Era un uomo fiero e ambizioso e, durante i suoi innumerevoli viaggi in lungo e in largo per il pianeta, aveva visto le meraviglie più incredibili. Eppure, non era abbastanza soddisfatto; desiderava fare suo qualche tesoro, qualcosa che nessun altro potesse avere.

    Fu così che un giorno, durante il suo peregrinare, si trovò in una taverna vicino al porto in cui aveva attraccato e lì venne a sapere dell’esistenza di uno stregone. Si diceva vivesse da solo su un’isola sperduta e che possedesse oggetti magici di valore inestimabile, tra cui un mulino delle dimensioni di un tavolo che poteva macinare qualsiasi cosa e addirittura triplicarla. Un oggetto del genere avrebbe arricchito le tasche del capitano, per cui si decise a fare rotta verso quella terra remota e infine, insieme ai suoi uomini di fiducia, vi sbarcò.

    Non fu difficile trovare lo stregone, poiché, come era stato riferito al capitano, il vecchio abitava in completa solitudine. Lo trovarono addormentato con in mano una bottiglia vuota di idromele. Approfittarono dunque dell’occasione, irruppero nella casa e rubarono il mulino insieme ad altri oggetti, li caricarono sulla nave e salparono in tutta fretta.

    Il capitano del veliero era un mercante di sale, un bene che si vendeva a prezzi assai elevati; sulla nave ne aveva numerosi sacchetti e, una volta preso il largo, decise di sperimentare il mulino rubato allo stregone.

    Vi svuotò dentro il contenuto di una borsa e subito quello lo polverizzò, rendendolo fino come la sabbia della più bella delle spiagge. L’uomo restò incantato dallo spettacolo: la polvere bianca non smetteva di uscire dal mulino, riempì con esso quattro sacchi, convinto che presto avrebbe smesso di macinare. Tuttavia ciò non accadde. Il magico strumento tritò il sale ancora e ancora, tanto che i marinai avevano dovuto cominciare a gettarlo fuori dalla nave. Il capitano non sapeva che per fermarlo servissero delle parole magiche di cui solo lo stregone era a conoscenza.

    L’uomo pagò cara la sua ambizione e l’affronto fatto al vecchio: la nave affondò sotto il peso del sale e il mare lo inghiottì insieme al veliero e ai suoi uomini. Per quanto riguarda il mulino, continua ancora oggi il suo lavoro senza sosta sul fondo dell’oceano. Ecco spiegato, dunque, perché le sue acque sono salate. Si dice, inoltre, che quando le onde diventano fosforescenti, il mago cerchi ancora il suo prezioso oggetto, armato di una lanterna magica.

    Brennalyn dormiva profondamente quando Fergus concluse la storia.

    Restò a guardarla con affetto per un po’, poi spense la lampada a olio e la lasciò dormire.

    Come ogni giorno, Fergus fece ritorno con il currach solo dopo aver concluso una ricca pesca e Brennalyn lo accompagnò in paese: «Mi porti in mare con te, qualche volta?» domandò, mentre percorrevano la stradina delimitata da muretti a secco che conduceva al centro abitato.

    «Quando sarai più grande, forse.»

    «Andiamoci domani. Per favore!» lo supplicò, rivolgendogli lo sguardo più irresistibile di cui fosse capace.

    Fergus sospirò, scuotendo la testa: «Non sai nuotare, Brenna: se cadessi dal currach potresti affogare».

    «Dai, Fergus: sono una selkie, so già nuotare, se voglio. Mi basta toccare l’acqua.»

    «Ah sì? E allora perché non ci hai già provato, visto che sei così sicura di te?»

    «Perché te l'ho promesso. Mi hai detto che devo sempre mantenere le promesse, giusto?»

    Fergus annuì: «Ti ho insegnato bene, allora».

    «Comunque non sono in pericolo, se sto con te. Fammi fare almeno un giro sul currach

    «Questo posso concedertelo.»

    A quell’affermazione, l’entusiasmo della bambina si accese: «Quando? Domani?».

    L’uomo rise: «Non essere sempre così precipitosa, Brennalyn. Devi imparare ad avere più pazienza, soprattutto se verrai con me a pescare».

    «Hai ragione, da grande farò il pescatore, dovrei essere come te. Una selkie può diventare pescatore, Fergus?»

    «Quante domande! Non mi lasci tregua, oggi. Be', le selkie sono per metà foche, quindi cacciatrici, non la vedo una cosa del tutto impossibile.»

    Brennalyn ci pensò su: «Però mi serve un maglione come il tuo, quello dei McNamara».

    Fergus indossava quell'indumento ogni giorno. Maire aveva impiegato molto tempo per realizzarlo, aveva usato tutta la sua abilità, lavorando a maglia e intessendo nei punti della lana l'amore che provava per lui. Ogni punto, nodo e intreccio aveva un significato, che aveva ripetuto a Fergus in più di un’occasione. Lo aveva lavorato secondo la tradizione delle isole e il maglione raccontava storie di mare, ma vi erano racchiusi anche simboli di buona fortuna, indispensabili quando si solcavano le onde e ci si abbandonava al volere degli elementi.

    Ogni pescatore del villaggio ne possedeva uno simile, cambiavano i motivi, diversi per ogni clan, ma la funzione era la stessa: riconoscere i corpi degli uomini periti in acqua a seconda dei disegni della lana.

    «Le selkie non ne hanno bisogno, Brenna. Cosa te ne faresti?»

    «Se sono per metà foca e per metà essere umano, quando tornerò tra le selkie avrò bisogno di qualcosa per essere diversa dalle altre, non credi? Con quello mi riconoscerai facilmente» spiegò.

    Il ragionamento di Brennalyn sorprese Fergus; sorrise dell'ingenuità di quel pensiero e allo stesso tempo ne fu colpito.

    «Non posso certo darti torto ed è un’ottima idea!»

    «Quindi ne avrò uno tutto mio?». Lo sguardo di Brennalyn si illuminò.

    «Un giorno, forse. Ora però sarà meglio che ci impegniamo a vendere il pesce, al resto penseremo poi.»

    «Va bene. Mentre tu lo vendi, posso fare un giro?»

    Fergus acconsentì: «Certo, ma non allontanarti troppo: non ci tratterremo a lungo».

    Il paese non era altro che un piccolo agglomerato di cottage, alcuni dei quali adibiti a negozio. Era un centro molto piccolo, eppure riforniva gran parte dell’isola. Dogherty’s, l’unico pub dei dintorni, era sempre animato, anche Fergus lo frequentava, sebbene le sue visite al locale fossero diminuite da quando Brennalyn era entrata nella sua vita.

    Nel paese si teneva anche un piccolo mercato, nel quale i pescatori esponevano la propria merce.

    Fergus si fermò e aprì la cesta contenente i prodotti del suo lavoro, mentre Brennalyn si allontanò per guardarsi intorno. C’era un po’ di viavai e molti bambini si rincorrevano e giocavano insieme nell’attesa che i genitori terminassero le commissioni.

    Brennalyn si sedette poco distante da loro e prese a osservare quelli che presto sarebbero diventati i suoi compagni di scuola.

    Dovette ammettere che una parte di lei avrebbe voluto alzarsi e unirsi a loro, divertendosi altrettanto, ma la consapevolezza che non sarebbe stata gradita glielo impedì. Brennalyn era ancora piccola, ma non abbastanza da non comprendere che la sua presenza era tutt’altro che gradita, nessuno aveva mai voluto dividere il proprio tempo con lei. C’erano stati giorni in cui aveva sofferto per l’esclusione che era costretta a subire, tuttavia con il tempo aveva quasi imparato ad abituarsi alle occhiate che i coetanei le rivolgevano.

    La palla che i bambini stavano rincorrendo si diresse verso di lei e, quando se ne accorsero, rallentarono la corsa, intimoriti. Con un ultimo rimbalzo, il pallone cadde ai piedi di Brennalyn, che l’afferrò con mani malferme.

    Uno di loro, quello con l’aria più strafottente, le si avvicinò con un sorriso di scherno dipinto in volto: «Ehi, ti conosco. Sei Pelle di Foca, vero?» domandò.

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1