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Meridiana
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E-book250 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Una quieta valle alpina ha assistito, impassibile nelle sue atmosfere cristalline, a un delitto.
Beatrix, bella ragazza belga nota per il suo carattere particolare, sembra scomparsa. Angelo, un montanaro burbero e fragile, sa che la donna giace morta in una buca tra gli abeti, occultata da un lungo inverno. Ma questa è una verità che egli deve a ogni costo nascondere. A tutti: in primis alla moglie Clara, donna dai tanti silenzi enigmatici, poi ai rocciosi abitanti del suo borgo, e naturalmente alla polizia che allertata da François, equivoco fratello della vittima, arriva a indagare.
Ma il passato custodito tra quelle sfavillanti montagne è carico di segreti, e il loro intrecciarsi rende la vicenda molto più ambigua di quanto non appaia.
Negli occhi del commissario Giovanna Altamura, meridionale pratica e dalla acuta sensibilità, prendono a svilupparsi i contorni di un enigma feroce e sottile, i cui protagonisti strisciano nei risvolti di inquietanti tortuosità psicologiche.
Sentimenti in apparenza domati nelle grigie pieghe di un rapporto consolidato si destano improvvisamente e chiedono con veemenza una rivalsa. Nelle arie leggere della montagna si crea allora un delicato equilibrio di sospetto e di minaccia, che in un meccanismo perfetto finisce per serrarsi sui protagonisti, avviluppandoli in un crudele triangolo criminoso.
L’attenta caratterizzazione dei personaggi, la trama affatto scontata e la narrazione in cadenze sapienti regalano un romanzo elegante e complesso, che si inserisce a pieno titolo nella tradizione del miglior giallo italiano.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2020
ISBN9788832927535
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    Anteprima del libro

    Meridiana - Marco Emanuele Pollano

    davvero.

    1

    Riconobbe l’odore del sangue.

    Incapace di seguirne la traccia visiva, ne annusò la presenza, senza stupirsi di non avere sbagliato la ricerca.

    Non sangue qualsiasi, ma piastrine arcinote, abbandonate in quel luogo della sua memoria, buone a sporcare radici e neve per i sei lunghi mesi di quel febbrile inverno.

    Avvicinandosi con circospezione, riconobbe le verdi propaggini primaverili di felce nana, germogliate sul fogliame residuo tardo-autunnale, ne ammirò posizione e tonalità. Ne percepì la non casualità, come se lo accerchiassero di proposito.

    Crebbe sulla sua lingua la sete.

    Mise la destra alla borraccia, frettolosamente, senza distrarre lo sguardo dalla direzione che aveva individuato tra le frasche, strambando con le gambe ma raddrizzando con le pupille, scegliendo per raggiungere la sua meta la linea d’aria come la più naturale delle vie, non solo perché la più breve.

    A dissetarlo fu una golata di cognac malandato, ad affamarlo la preda che iniziò a farsi riconoscere.

    Impiegò qualche istante di troppo per darsi all’azione, forse per un calo di pressione, o peggio di attenzione.

    Ebbe bisogno di almeno un cambio di luce e di qualche giro di lancette per realizzare di dover estrarre dallo zaino la pala da scialpinismo.

    Virò gli occhi all’ovest, non appena vide il disco sorgere. Ma nemmeno volle aprirli, fu solo un fanciullesco bisogno di calore amico sulla nuca, un cercare indietro per trovare avanti.

    Non fu colto neppure un secondo dalla tentazione di regalare alle sue orbite, in quell’alba di metà maggio, la parete nord della montagna.

    Tornò ragazzo, per un istante, ed ebbe un fulgido ma lugubre pensiero. Scavare di mattina presto, per recuperare un’anima in letargo forzato, non è compito di altri se non di un bambino, pensò Angelo.

    E nella foga dettata dalle vangate di terra, nelle perle di sudore che gli affogavano la fronte canuta, in qualche modo tornò inspiegabilmente a sentirsi un uomo.

    Fu il primo dei suoi errori.

    2

    La terra, resa durissima dall’aridità portentosa di quello strano maggio, si rivelava un avversario assai tenace.

    Non tanto per la fatica, chiaramente prevista, pensò Angelo all’ennesima vangata, quanto per la dilatazione temporale che stava raggiungendo il dissotterramento.

    Sguardo circospetto, ansiosi movimenti grandangolari del capo, timore che un volto umano potesse materializzarsi all’improvviso. Un turista, un fungaiolo in cerca di spugnole, un bracconiere, o anche semplicemente un animale.

    L’idea di incappare in un involontario testimone soltanto per avere tenuto in poco conto la durezza del suolo: ecco, questo era il tarlo che gli disturbava i pensieri, ingrovigliandone la sequenza e rallentandone la traduzione in atto.

    Quando la buca fu sufficientemente ampia, si fermò.

    Guardò di sotto. Dentro.

    Gli parve inutile, allora, ogni timore, qualsiasi elucubrazione avuta fino a quel momento.

    Ciò che vide, o meglio rivide, lo sgomentò.

    Il sangue, grazie al freddo dell’inverno alpino, era un tutt’uno con l’ardesia della fossa.

    Grumi rossi, blocchi nerastri di materia terrosa e umore sanguigno.

    Una scia nera lasciata nella concitazione di quella notte di sei mesi prima, e fiotti rossi di esuberanza arteriosa, che aveva temporaneamente rimosso, ma che recuperarono all’istante i livelli più urgenti della sua memoria.

    Quelle consistenze, quelle tonalità gli ricordarono l’isola vulcanica che per molto tempo aveva amato, e che con il suo ammaliante ricordo lo aveva mosso al viaggio in giovinezza.

    Intriso di rimandi mitologici classici, aveva sempre considerato quegli atolli sferzati dal meltemi come corpi vibranti, mucchi di vita su cui attraccare, secondo il punto di vista del mangiatore di loto: viverli avidamente come se ci si cibasse del frutto dell’oblio, poterseli dimenticare non appena lasciati, per ritrovarli l’anno dopo ignoti e remoti.

    Ma quella volta non fu capace di non ricordare, forse perché il vulcano non si trovava, come nelle estati andate, al di fuori del suo corpo, ma dentro.

    Per la prima volta non si vergognò, e lasciò che la mente gli corresse alla domenica di metà ottobre dell’anno passato quando per la prima volta aveva posato uno sguardo alienato su quell’esile cadavere.

    Il ricordo, soffocato per mesi, emerse con un impeto e una chiarezza di dettagli che lo ubriacarono.

    Tornarono a galla nella memoria i passi rapidi che sei mesi prima aveva incasellato sulla ripida mulattiera per salire a quel recondito nascondiglio sull’altopiano.

    Il sentiero che gradualmente si elevava in ombrosi tornanti nel fitto dell’abetina, via via più rada con l’aumentare dell’altitudine, e che di colpo, sul limitare dei duemila metri di quota, terminava, lasciando il campo a tanaceti e grattaculi, recenti inquilini dei pascoli in altura, era l’ultimo segno visibile dell’uomo di lassù, un antico foraggio delle vacche che i malgari avevano pressoché abbandonato. Quasi tutti le avevano vendute per quattro soldi ai francesi, che le portavano in alpeggio sui versanti transalpini dell’Ebaye e dello Chambavron.

    Di qua dal confine la montagna aveva perduto la dimensione umana, piante e animali la stavano rinselvatichendo. Era naturale, aveva in più di un’occasione riflettuto Angelo, che anche i pochi disperati che erano rimasti si allontanassero in qualche modo dall’umano sentire.

    Dopodiché, la mulattiera impennava in mezzo ai prati e in qualche giro toccava il colle di Stavez, segnato dall’antica palina eretta sessant’anni prima dai militari, indicante i duemilaottocento metri di altitudine.

    E ora che stava scendendo, affaticato ma riflessivo, lungo lo stesso pendio di allora, il pensiero si faceva sempre più consapevole, e il ricordo più vivido man mano che dall’alto si avvicinava, con spire avvolgenti, alla sommità del bosco.

    Date n’andi, ch’a marca brüt.

    La voce squarta l’aria di primo autunno: Angelo non realizza subito se a colpirlo di più è stata l’estrema vicinanza, completamente inattesa, del suono, o la certezza che subito ha di chi è stato a emetterlo.

    Tano, sès ti? domanda, gridando verso il punto indefinito da cui proviene la voce.

    Vieni giù Angelo, marca brutto tempo.

    Cristo santo.

    È il suo pensiero ad alta voce, infastidito dall’inaspettato testimone in quel luogo e in quell’ora, un personaggio fino ad allora considerato meno che nulla, che diventava l’Amleto improvvisato del suo destino.

    Di problematico, si è accorto subito Angelo, c’è la posizione. Quella di lui, che è lì che spinge sulle punte, utilizzando quel passo antico appreso dal nonno, che con qualche saltello da danzatore della pietraia lo sapeva portare a valle; e quella di Tano, un vecchio fatto di rughe dure, un solitario per necessità, che intendeva salire, curvo come un asino e ostinato come un mulo, e che, se non interrotto, nel giro di pochi tornanti si sarebbe imbattuto nel segreto di Angelo, e a lui lo avrebbe associato, rivelandolo a tutti in paese.

    Scendendo ha pensato veloce, non bene per forza, ad abbracciare il vecchio come un compagno di vecchia data che incontra un coscritto all’ora del pastis.

    Tano, bèive na volta? Dèuv ciamete ‘n piasì, gli grida da un paio di tornanti a monte.

    Sì va bin, va bin. Na volta, vulentè. Dèuv mac quatè ‘l tume, là dai ciabòt dausìn al Gias del Pèx. A dan brüt e frèid sta neuit, a venta dè el gir ai furmàg.

    Lasa stè. Adess vèn cun mi, deuv parlète, peui ‘t portu mi cun la machina.

    Senza una precisa idea, ma con lo spirito di colui che è avvezzo a utilizzare una parola per evitare un fatto, lo cinge alle spalle ruotandolo di mezzo giro, con finto gesto conviviale eppure impercettibilmente autoritario, per riportarlo giù con lui.

    Sfuggito agli occhi volpini e cerulei dell’amata moglie, scivolato come un fantasma di fronte a ogni sguardo del paese, sarebbe stato davvero da stupidi, gli pare, farsi fottere dallo scemo del villaggio.

    Ti it andasìe per bulè, Gelu?

    Eh si, ma a l’è nen tant buna, e peui i’sun mac d’i furestai, la finansa…

    Gelu, mangiare tutti dobbiamo.

    Lo inquieta quell’espressione in italiano puro, tanto concisa nel giustificare i ragazzi in uniforme quanto libera dall’inflessione dialettale, con cui l’anziano Gaetano vuole concludere quel repentino abboccamento, come per ricordargli che, per quanto ignorante, lo aveva visto nascere, tenendo la mano di sua mamma Rosalba.

    Il rumore di tazzine calde di caffè e macchiate di grappa di vinacce gli saturano le narici poco dopo, appena spinta la porta del bar di Lina.

    I soliti due tavoli di tressette, dei montagnini che narrano la mattina a colpi di vermouth.

    Set ure, l’hai butàie, per muntè alla rocca Bianca, calè giü a Saint Vorem, e muntè tùrna alla Niera. Peui, ‘n toc de furmàg, e via, turna ‘ndarè al pais. Eh, che giurnà.

    Madonna Robi, à smija agust, che prima strana. E però staneuit a smija ch’a grandina.

    Ciao Tano!

    Roberto Lorenzi, medico milanese in pensione precoce, appassionato alpinista per diletto, iniziato dai locals all’uso del dialetto e proprietario di una bella villa del paese, esposta a sud-ovest ma completamente in ombra al piano alto, autore di scorribande mattutine da raccontare al dopopranzo in osteria, non appena vede il vecchio entrare lo invita a bere.

    Vieni qua, Tano. Ci fai compagnia? Lina ci serve un cognac. Anche tu Angelo, accomodati. Oggi sono stato sul Queyras.

    Bravo dottore, digrigna a denti stretti il vecchio, almeno tu sai dove sei andato e perché.

    Il tempo di vuotare con foga adolescenziale il bicchiere precauzionalmente scaldato dalla Lina al vapore della macchina a leva Cimbali, e si dirige verso casa, lasciando il compagno improvvisato Angelo in un leggero imbarazzo, altro non fosse per il senso di disagio che la frase di commiato del vecchio ha diffuso nella sala finto legno.

    Certo che è strano ogni tanto Gaetano, eh Angelo?

    In questa valle è difficile trovarne uno normale, dottore. E poi, cosa vuoi? Da quando due inverni fa è morta Nuccia, Tano non è più lo stesso. Essere vedovo lo ha isolato da tutti e tutto, lo ha come spinto in un mondo suo. A volte parla da solo, a volte non risponde alle domande degli altri. A star troppo da soli si diventa un po’ matti.

    Quello è sicuro. Ma oggi mi sembrava più burbero del solito.

    Lorenzi appoggia le mani sul tavolo come per darsi la spinta, e stancamente si alza. Sarà il tempo, è la sua sentenza. L’estate non finisce più e gli uomini, come la terra, hanno bisogno di freddo, a un certo punto dell’anno, di letargo. Ci vediamo.

    Uscendo dal bar lascia sul bancone la banconota per i tre cognac, più uno pagato, che la Lina lo porti a Angelo più tardi.

    Ora, mesi dopo, di fronte alla buca che aveva scavato, immerso nel ricordo di quel particolare, Angelo si stupì, più di quanto non avesse fatto all’epoca, di come Lorenzi avesse intuito il suo bisogno di un altro bicchiere di liquore.

    La cosa un po’ lo inquietò, come se solo in quell’attimo, dopo molto tempo, avesse realizzato di avere già ostentato un livello anomalo di nervosismo a un medico lombardo in vacanza.

    Il sudore che caldo lo aveva avvolto mentre vangava, si trasformò rapidamente in una rugiada di gocce gelide che gli imperlarono la fronte e gli inzupparono la camicia.

    Doveva calmarsi: iniziava ad avere un gran freddo addosso.

    Bevve un sorso, indossò il maglione di lana.

    Solo dopo diversi minuti riabbassò gli occhi verso il fondo del fosso.

    Tutto era come prima.

    Fino all’ultimo aveva sperato che un sogno a occhi aperti, un desiderio covato per mesi nella sua baita al riparo del generale inverno, avrebbe potuto realizzarsi proprio in quella pausa, in quei minuti di sospensione in cui aveva dato sfogo selvaggio alla memoria.

    Aveva immaginato, invano, di non vedere più quel corpo in decomposizione.

    I capelli erano ancora come li ricordava, lisci e divisi a metà, così come la sagoma del viso allungato sovrastante la mascella volitiva tipica degli occitani non imbastarditi da un incrocio forestiero.

    Persino il vestito era perfettamente impresso negli occhi di Angelo. Era stato proprio lui, il Natale prima, a regalarlo a Beatrice.

    Lo aveva colpito, fin dall’inizio, da quando lo aveva visto in una vetrina di un negozio di Torino, la cruda divergenza tra il taglio antico e umile e la stoffa ricercata, un kashmir indiano cucito a mano in Provenza.

    Aveva sempre amato le dissonanze, il fascino emanato dal contrasto tra la composta signora per cui un capo è pensato e la femmina sensuale che avrebbe potuto indossarlo.

    Alla luce di quella considerazione, l’aveva trovato perfetto per Beatrice e non aveva potuto far altro che acquistarlo, pregustando l’intimità dell’occasione in cui glielo lo avrebbe donato.

    Lei lo aveva amato immediatamente, quell’abito.

    Lo indossava appena poteva, ogni occasione sembrava perfetta per un capo del genere, dal quale si era sentita protetta fin da subito, come da una sorta di trasposizione in tessuto dell’abbraccio del suo uomo, o quanto meno dell’uomo che amava, ma sul cui possesso esclusivo non poteva contare.

    Per Beatrice, quel vestito aveva costituito il surrogato diurno dell’uomo che aveva potuto, neppure frequentemente, avere solo di notte, e non avrebbe più voluto indossare altro.

    Per un tempo indefinito, Angelo fissò la donna, in quel che restava degli occhi ormai decomposti, fino a quando decise che era tempo di ricoprire il buco e tornare con circospezione a valle, seguendo la mulattiera antica dei passeur, in modo che nessuno lo vedesse.

    A un tratto sentì delle gocce sulle sue mani, ma, considerò tra sé e sé, non era sudato e il cielo era ancora limpido.

    Fu allora che si accorse, sollevato e sfinito, di stare piangendo come non gli capitava da anni.

    3

    Il commissario Altamura, all’anagrafe Giovanna Stella Altamura, nata a Otranto il dodici giugno 1974, laureata in Giurisprudenza, una brillante e precoce carriera alla procura di Lecce, era da poco stata trasferita in quell’angolo di nord-ovest così geograficamente antipodale rispetto al tavoliere di sud-est, alla falce di grano e silenzi rotti da dialetti strozzati che si allungava tra lo Ionio e l’Adriatico.

    Gianna, come la chiamavano i colleghi di laggiù, aveva impiegato due giorni a trasferire se stessa e tutti i suoi effetti personali nell’ufficio della procura di Cuneo, lasciando indietro ciò che non riteneva indispensabile, affetti e amicizie inclusi.

    Di indole riflessiva e pacata, ma tenace, era una meridionale atipica per l’immaginario piemontese, ma nient’affatto diversa, per chi ne conosce bene il carattere, dall’anima vera salentina in aria di Grecia, che consiste in una commistione di focosità e di astrazione, un retaggio dell’ellenico dualismo apollineo-dionisiaco, costituente spesso l’ossatura dell’anima della gente di confine.

    Una curiosità vivida e anche un po’ insolente le aveva permesso, nei primi casi affrontati in carriera, di raggiungere brillanti risoluzioni, semplicemente andando a cercare lì dove gli altri, per superficialità o pressapochismo, avevano evitato di guardare.

    Valutare le situazioni, considerare un avvenimento provando a impersonare prima un punto di vista e poi quello esattamente antitetico, era la sua tattica preferita, il suo modo naturale di affrontare una sparizione, un allontanamento, un furto. Anche un omicidio.

    Una volta sola, per la verità, quando ancora lavorava a Lecce, come assistente personale del sostituto procuratore, aveva partecipato all’indagine su un assassinio a carattere passionale.

    Un caso di cui si era anche occupata la stampa nazionale. L’adulterio di una giovane parrucchiera di Gallipoli che, scoperta in flagrante con uno dei clienti più affezionati e danarosi, era stata uccisa dal marito, un sottotenente dei carabinieri di Ugento, con quattro colpi di arma da fuoco provenienti da una pistola non di ordinanza; il reo, non pentito, aveva negato fin da subito il suo coinvolgimento, ma alla fine la tenacia di Gianna aveva raggiunto l’obiettivo. Fece tutto un suo studio sulla tipologia di sparo e sulla traiettoria dei proiettili, una modalità di inquadramento del bersaglio che poteva derivare solo da una formazione professionale e da ore trascorse al poligono di tiro.

    La spiccata emotività del marito e un paio di passi falsi avevano fatto il resto. In pochi giorni, il carabiniere era stato destituito dall’Arma e arrestato. Il caso, di non difficile risoluzione, le aveva comunque procurato una certa fama in procura, quanto meno perché era riuscita a raggiungere l’obiettivo senza fare un lavoro sporco, ma semplicemente partendo da un brillante ragionamento.

    Grazie a una propensione all’astrazione, quasi sillogistica, da quel momento aveva iniziato a specializzarsi in tipologie di casi più legati alla criminologia che al crimine in sé, imperniati sulla ricostruzione, sull’elaborazione deduttiva, sulla psicoanalisi: di persone, identikit, profili. In un’espressione: gestione di situazioni paradossali e criminose.

    Qualche settimana prima era arrivata una strana telefonata alla procura di Cuneo.

    Una voce maschile, di marcato accento francofono, decisamente affannata, come oppressa da uno sforzo fisico appena compiuto, aveva cercato di spiegare all’appuntato Ferrero che da mesi non sentiva né vedeva la sorella; di essere l’unico parente rimastole e che lei, dopo un periodo difficile per la morte del marito, aveva deciso di concedersi una sorta di periodo di isolamento, tornando per qualche tempo nella vecchia baita di famiglia sulle montagne piemontesi.

    François Veyret, così si era presentato l’uomo al telefono, era un architetto, girava l’Europa per lavoro, e spesso capitava che non si sentisse con la sorella per lunghi periodi. Ma ora non riusciva a rintracciarla da mesi, né a contattare telefonicamente quella donna che così tenacemente aveva deciso di distanziarsi dagli altri, per sfuggire a tutti, e forse anche a se medesima.

    Troppe informazioni troppo sconnesse avevano dato a Ferrero l’impressione di avere dall’altro capo della cornetta uno squilibrato, forse un mitomane.

    Stava per riattaccare, quando l’uomo buttò sul tavolo un dettaglio in più, da bravo pokerista.

    Una lama tagliente che era andata a insinuarsi obliqua nel tessuto irregolare di quella telefonata.

    La sorella,

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