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La trappola dei Balcani: La giustizia della vendetta
La trappola dei Balcani: La giustizia della vendetta
La trappola dei Balcani: La giustizia della vendetta
E-book746 pagine6 ore

La trappola dei Balcani: La giustizia della vendetta

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Info su questo ebook

Max, al ritorno da un'operazione sotto copertura nei territori in cui dopo poco sarebbe scoppiata la guerra dei Balcani, si rifugia sui monti carnici, dove sente i primi colpi bellici sparati alla frontiera. Dopo essersi liberato dallo stress, e tornato alla vita “normale”, scopre quanto di terribile è stato fatto alla sua compagna Criss, convincendolo a programmare una serie di vendette per fare giustizia. Per mettere in piedi il sistema, Max si fa aiutare da Tom, amico fraterno nonché esperto informatico e tessitore di molte trame ignote al grande pubblico, e con un'assalto nel porto di Chioggia pone sotto scacco la più potente organizzazione mafiosa del nord Italia. Questo gli consentirà di mettere in ginocchio i suoi nemici, che cadranno uno alla volta sotto la sua vendetta, anche se i loro colpi di coda si faranno sentire fin nel centro di Milano.
Un libro d'azione che vede il protagonista utilizzare tecniche d'assalto e di intelligence prese dal mondo reale, con uno sguardo al clima dello spionaggio internazionale attuale, gettando ombre molto oscure su ciò che ci circonda, anche attualmente. Una conferma della grande capacità narrativa di Giampaolo Pavanello.
LinguaItaliano
Data di uscita27 nov 2018
ISBN9788893781404
La trappola dei Balcani: La giustizia della vendetta

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    Anteprima del libro

    La trappola dei Balcani - Giampaolo Pavanello

    ANTEFATTO¹

    Rientrati in albergo, ciascuno di noi si preoccupò di controllare le proprie armi e l’attrezzatura di registrazione. Quest’ultima ero certo di saperla usare, ma la pistola che mi aveva dato Criss non ne ero proprio sicuro. Dalle stanze dell’albergo dovevamo far sparire ogni possibile traccia che potesse identificarci, i vestiti che non potevamo portarci appresso li avevamo gettati nei cassonetti dell’immondizia.

    Dopo aver completato i preparativi, mi sedetti sulla poltrona vicino alla porta finestra e con lo sguardo vagavo dentro uno stupendo tramonto rosso vermiglio. La mia mente rivangava quanto avevo visto e sentito nella mattinata, non trovavo ragione a quanto ero stato testimone, il coinvolgimento della stessa chiesa in un traffico che armava un esercito sul baratro di una guerra fratricida, con l’avvallo e la copertura dei governi utilizzando la criminalità organizzata. Il cinico comportamento delle istituzioni non rispettava nemmeno i suoi più fedeli servitori, anzi, era pronto a immolarli e infangarli pur di coprire le porcherie degli interessi del potere.

    Poco prima delle venti Max mi bussò alla porta: era arrivato il momento. Criss era dietro di lui ed entrambi avevano un piglio molto concentrato, erano decisi e attenti a ogni più piccolo dettaglio.

    Controllarono attentamente la mia apparecchiatura e la mia pistola, riprendendomi perché non avevo messo il colpo in canna, dicendomi che l’attimo che perdevo per caricarla poteva costarmi la vita.

    Criss si pose alla guida della Mercedes, Max al suo fianco e io sul sedile posteriore. Prese subito la direzione della provinciale che costeggiava la costa e, giunti al distributore dove avevamo appuntamento, Max disse di proseguire e di fare alcuni giri prima di fermarsi, perché voleva essere certo di non trovare sorprese.

    Dopo aver percorso le strade adiacenti all’area di servizio, la invitò a fermarsi all’inizio dell’area, con la vettura accesa, pronta a partire in direzione della statale.

    Max scese ed entrò da solo nel bar. Erano passati pochi attimi quando uscì in compagnia di Rafik, dirigendosi velocemente verso di noi: – Sono già qui, scendete.

    – Salve, Criss, tutto bene?

    – Certo, Rafik.

    – Criss e tu, – Max mi indicò con il dito, – andate a controllare i furgoni, a bordo non deve esserci nessuno.

    Con passo veloce ci portammo dietro la costruzione del ristorante, dove erano parcheggiati dodici furgoni completamente vuoti. Nessuno era nei pressi o dentro i mezzi.

    – Tutto a posto, Max, – disse Criss.

    – Bene.

    Max si allontanò di qualche metro e con il cellulare telefonò a Gasparre, un ex legionario francese che da diversi anni era diventato il braccio destro di Gian Antonio Ligabue, capo indiscusso del clan Sposetti, dicendogli che i mezzi erano pronti e di venirli a prendere.

    Dopo qualche minuto giunse Gasparre, seguito da tre macchine, scesero velocemente numerosi uomini che si posero alla guida dei furgoni partendo velocemente verso l’area portuale. Noi ci accodammo al gruppo, Rafik era sulla nostra autovettura e non manifestava alcun segno di nervosismo: tutto stava andando per il verso giusto. Anche Max non era particolarmente teso. Giunti nella zona portuale i furgoni e tutte le autovetture, compresa la nostra, entrarono senza alcuna sosta o controllo direttamente in un capannone. Subito dopo il nostro ingresso venne chiuso.

    Gli autisti dei furgoni, senza che proferissero parola, uscirono dal capannone e pochi attimi dopo si sentirono i rombi di alcuni motoscafi che stavano prendendo il largo.

    Noi ci accomodammo in una stanza, dove era allestito un piccolo bar con una signorina addetta a servire eventuali consumazioni.

    – Gasparre, – cominciò Max, – vieni che ti presento Rafik, un mio carissimo amico.

    – Piacere, io sono Gasparre. Se qualcosa va storto, tu sarai il primo a morire. Augurati che tutto vada bene.

    – Tutto andrà bene, glielo assicuro, parola di Rafik.

    – Buono, Gasparre, Rafik è una persona corretta. Dai, beviamoci su.

    – Lo sai Max che io non bevo quando sono al lavoro.

    Gasparre aveva cambiato completamente atteggiamento sia nei confronti di Max sia nel nostro. Sembrava che nemmeno si accorgesse della nostra presenza. Aveva le cuffie e il microfono della radio sulla testa, era in costante ascolto dei messaggi che i motoscafi trasmettevano. Quando doveva dare indicazioni sulla rotta da seguire per raggiungere la nave, si allontanava da noi e dava sintetiche e precise disposizioni.

    La tensione era altissima, gli occhi di Max e Criss erano in continuo movimento, pronti a percepire il più piccolo pericolo. Ad allentarla ci pensò Rafik: – Max, ti ho portato un regalo da parte di Ismail, tieni –. Allungò a Max un libro dalla copertina in pelle e da quanto potevo vedere mi dava l’impressione che fosse molto antico.

    – Cos’è? – chiese Max.

    – È una bibbia del 1600 regalata dalla regina Cristina di Svezia alla chiesa cattolica croata. È di valore inestimabile.

    – E come mai la vuole regalare proprio a me?

    – Ti considera un uomo di grande coraggio e leale, è un dono che ti deve rendere orgoglioso, credimi.

    – Ringrazialo da parte mia, sono fiero di questo regalo.

    – Attento Max, non fartela trovare addosso dai croati, ti ammazzerebbero subito, il furto di quella bibbia lo considerano un vero e proprio atto di oltraggio contro il loro intero popolo.

    – Grazie dell’avvertimento.

    – Andiamo a vedere l’eroina, Max?

    – Dove?

    – È su otto furgoni che sono qui dentro, bisognerà scaricarla.

    – Sei impazzito? Qui?

    – Certo, la manderemo in Italia con la stessa nave che scaricherà le armi. L’italiano che ti ha dato i soldi è riuscito a convincere il comandante della nave a fare il trasporto. Qualche problema? Tu volevi la merce in Italia e noi te la consegneremo in un porto italiano.

    – Quale porto?

    – Lo saprai al momento giusto, ora controlliamo la merce. Anche Rafik aveva assunto un atteggiamento molto più professionale e severo, non era più accondiscendente e sottomesso al carattere prepotente e arrogante di Max. Si stavano delineando i connotati dei vari personaggi, criminali pronti a uccidere per salvare i loro affari. Max non cambiò minimamente atteggiamento, anche se dall’espressione si poteva capire che stava elaborando qualche escamotage per uscire da quella situazione.

    – Gasparre, vieni con noi, vieni a vedere cosa ho comprato dall’Aga Khan.

    – Non dirmi che l’hanno portata qui?

    – Proprio così, non erano questi gli accordi, ma loro vogliono lavorare di testa loro e creano solo casini. Andiamo a vedere.

    Aprì uno dopo l’altro otto furgoni e sollevò i pianali in legno del pavimento. Nei doppifondi erano sistemati pacchi da mezzo chilo l’uno di eroina, sigillati con nastro adesivo di vari colori. Con la mia telecamera nascosta riuscii a filmare tutti e otto i carichi. Gasparre fece arrivare alcune persone che provvedettero a scaricare la droga depositandola dentro delle casse in legno; poi, fece cercare delle borse sportive o da viaggio per sistemarla in maniera più adatta al trasbordo in mare.

    Finita la preparazione dell’eroina, che riuscii a filmare quasi completamente, Gasparre chiamò vicino a sé uno dei suoi uomini e gli diede degli ordini. Immediatamente l’uomo si allontanò e si sentì che alcune autovetture partivano dal deposito. Io, Criss e Max ci guardammo negli occhi e tutti capimmo che qualcosa stava succedendo, qualcosa che non era stato programmato.

    Max si avvicinò alle borse e sotto alcune delle confezioni nascose la bibbia, dicendo che avrebbe raggiunto l’Italia più tranquillamente.

    Erano passate almeno tre ore dalla partenza dei motoscafi e fra di noi non c’era alcuna conversazione. Eravamo tutti attenti a quello che stava avvenendo, anche Max non rivolgeva più alcuna parola a Gasparre, nonostante sino a poche ore prima si scambiassero delicate confidenze. La cupa atmosfera venne interrotta dallo spalancarsi del portone del capannone e dall’entrata di una decina di uomini che immediatamente si diressero verso i furgoni, mettendoli in moto.

    – Sono arrivate le armi? – chiese Rafik a Gasparre.

    – No, i furgoni non servono più.

    Rafik non fece in tempo a chiedere altro, ché Gasparre aveva estratto la pistola e gli sparò un solo colpo alla fronte. Rimise via l’arma e fece un cenno ai suoi uomini che caricarono il corpo su un furgone portandolo via assieme a tutti gli altri mezzi.

    La ragazza che ci serviva il caffè con apatia prese uno straccio e pulì la chiazza di sangue lasciata da Rafik sul pavimento. Con lo sguardo cercavo di capire cosa pensassero di fare Max e Criss. Purtroppo anche il loro atteggiamento non aveva subito alcun cambiamento. Mi sentivo isolato, un estraneo, sentivo che lo stomaco si stava ribellando, avevo voglia di urlare forse di vomitare, un uomo era stato ucciso davanti a me senza che il fatto avesse creato il minimo disagio nei presenti.

    L’arrivo di Gian Antonio Ligabue mi fece ritornare l’adrenalina necessaria per reagire e assumere un atteggiamento più attento.

    – Ciao, Max. Mi hanno avvisato che le cose stanno andando per il meglio. Sono contento per te, te lo meriti.

    – Ciao, Gian Antonio. Adesso presumo che dobbiamo contrattare fra di noi, visto che i turchi sono usciti di scena.

    – Sei sempre molto precipitoso Max. Ti devo dire che non pensavo che fossero così fessi questi trafficanti, li indicavano come la mafia dei Balcani. Però! Vedo che ne hanno ancora di strada da fare.

    – Non sono fessi: si fidavano di me, avevo fatto una buona impressione nei lavori precedenti. Peccato, mi hai rovinato un buon canale di rifornimento.

    – Non piangere sempre, Max. Vieni, prendiamoci un caffè e concludiamo noi un buon affare assieme.

    – Che affare dovremmo fare assieme? Dividiamoci tutta la merce, tu ti prendi le armi e io la droga: un ottimo affare per tutti e due.

    – Vedi, Max, io non sono diventato quello che sono raccogliendo le briciole, io ho sempre voluto tutto e il meglio.

    – L’eroina e anche le armi? E allora che affare dovremmo fare io e te? Io non ti pagherò mai una partita di eroina rubata davanti ai miei occhi.

    – Tu come al solito non capisci, – Ligabue era tremendamente calmo, – io voglio anche il deposito di Aga Khan e Dragovic, hai capito? Tu dovrai convincerli a venire qui. Se ci riuscirai avrai la tua partita di eroina senza spendere una lira.

    – E se non vengono?

    – Peggio per te. Se sei bravo come dici, verranno. Inoltre hai la forza di fargli credere che hai le armi e l’eroina… verranno, stai tranquillo ché verranno.

    – Hai intenzione di ucciderli?

    – Dipenderà da loro. O mi consegneranno tutta l’eroina e la morfina che hanno depositate a Slavonski Brod o me la prenderò senza di loro, – si stava rivelando un criminale cinico e spietato, eravamo arrivati veramente al capolinea.

    – D’accordo, – disse freddamente Max, – prima salda il tuo debito nei miei confronti e lascia andare Criss e il mio uomo, poi prepareremo il benvenuto all’Aga Khan e Dragovic.

    – Così mi piaci, Max, io salderò subito il mio debito, – era diventato nuovamente gioviale e gentile, peggio di un camaleonte: mi ricordava Max e i suoi repentini cambi d’umore.

    – Non cercare di fare il furbo con me, Gian Antonio. Dammi la tua parola davanti a Gasparre: lui darebbe la vita per te, perché sa che sei un uomo d’onore e non ti perdonerebbe mai di aver mancato al tuo giuramento, – anche Max stava riportando in alto il suo onore, era una sfida fra uomini veri, nonostante le due opposte posizioni, quella del criminale e del poliziotto.

    – Max, siamo amici. Non tradirei mai la nostra amicizia.

    – Giuralo!

    Ligabue guardò Gasparre negli occhi e gli disse che io e Criss dovevamo raggiungere l’Italia senza alcun problema. Subito dopo fece entrare nella stanza tre uomini armati di fucili mitragliatori. Il sangue mi si raggelò nelle vene e uno strano formicolio invase tutto il mio corpo: ero convinto che Ligabue volesse dimostrare la sua potenza uccidendoci davanti agli occhi di Max. La sua voce fu come una frustata in piena faccia: – Bene, signorina Criss, signore, – rivolgendosi a me, – non abbiamo più bisogno della vostra presenza, potete ritornare in Italia, nessuno vi torcerà un capello.

    Criss fissava Max in attesa di un cenno, era pronta a scattare, ma la voce del Condor fermò il suo tentativo: – No, Criss, ti faresti solo uccidere. Gian Antonio è un uomo d’onore, la sua parola è sacra.

    – Per me è solo un figlio di puttana, – non finì la frase che Gasparre aveva già estratto la pistola. Fortunatamente, prima che riuscisse a puntarla contro Criss, Max si era frapposto tra i due: – Adesso basta! Andate!

    Uscimmo da quella stanza senza avere il coraggio di guardarlo in faccia. Forse era l’ultima volta che lo vedevamo vivo, aveva sacrificato la sua vita per salvare la nostra. Tutto attorno alla zona del capannone brulicavano uomini armati. Anche se avessimo reagito con le nostre armi, nessuno di noi sarebbe sopravvissuto.

    Criss non se la sentiva di guidare, pertanto mi posi io alla guida della Mercedes. Durante quasi tutto il tragitto mi tormentò talmente tanto con il suo singhiozzare che fra di noi non ci fu alcuno scambio di parole. Passammo il confine senza alcun problema, nessun’auto ci aveva seguito. Accompagnai Criss a casa sua, ma non salii. Proseguii per Bergamo per incontrare un certo Tom, un amico speciale di Max per metterlo al corrente dell'accaduto, lei sarebbe andata in questura la mattina successiva. L’avrei chiamata all’indomani verso sera per sapere com’era andata. Se invece ci fossero stati problemi mi avrebbe chiamato lei.

    Raggiunsi l’indirizzo di Bergamo verso le cinque del mattino: era una bellissima villa alla periferia della città. Mi venne ad aprire un uomo sulla cinquantina, mi fece parcheggiare la macchina nel seminterrato senza fare domande, poi ci accomodavamo in salotto davanti a una bollente tazza di caffè preparato dalla moglie. Mi sentivo obbligato a dare qualche spiegazione nonostante loro non chiedessero nulla, perciò decisi di parlare: – Mi chiamo Gregori e sono… – Subito l’uomo mi interruppe: – Sappiamo tutto, ci ha chiamato Max alcuni giorni fa, avvisandoci di un tuo probabile arrivo. Vogliamo solo sapere se è ancora vivo.

    Un nodo mi salì alla gola. Non sapevo cosa dire, sentii il mio viso accalorarsi e scoppiai in un pianto liberatorio, ritrovandomi fra le braccia di quell’uomo che non conoscevo.

    CAPITOLO I

    LA TRAPPOLA BALCANICA

    1. Dubrovnik, Croazia

    Max osservava allontanarsi Criss e Gregori dall’hangar scortati dagli uomini di Gasparre. Dentro di lui cercava la conferma che sarebbero riusciti a rientrare in Italia sani e salvi, sperava in un piccolo ritaglio di riconoscenza da parte del boss Ligabue, per quanto aveva fatto per lui e la sua famiglia, tuttavia gli ultimi accadimenti non gli potevano dare alcuna certezza.

    Li guardava mentre con passo sicuro si avvicinavano all’uscita. Non dovevano girarsi a guardarlo, sarebbe stato un atto di debolezza e un saluto verso chi non avrebbero mai più rivisto; dovevano fino all’ultimo dimostrare che non temevano nessuno e che prima o poi avrebbero saldato il conto.

    Si allontanarono dalla struttura senza mai voltarsi e senza alcuna indecisione. Pochi attimi dopo sentì che alcune vetture venivano messe in moto e se ne andavano dal piazzale portuale di fronte al magazzino.

    Max rimase immobile a fissare il vuoto. Si sentiva impotente e smarrito come mai prima di allora e questo lo stava rendendo fragile: doveva cercare dentro di sé il vero Max, sempre presente e pronto a reagire d’istinto a situazioni impreviste e non programmate, ma il vuoto che si era creato in lui era diventato incolmabile.

    Mentre riaffioravano ricordi che subito cercava di allontanare, sentì un colpo violentissimo alla testa e un dolore indescrivibile che lo fece piegare sulle ginocchia, facendole sbattere violentemente sul pavimento. La vista cominciò ad annebbiarsi, tutto era sfuocato. Sentiva le voci affievolirsi fino a risultare incomprensibili, poi divenne buio e cadde in avanti.

    Non sapeva quanto tempo fosse passato, ma il dolore che provava alla testa era tremendo. Cercò di mettere insieme quel poco di lucidità che gli rimaneva per capire in che situazione si trovasse: l’odore acre della benzina, il buio e il sussultare del veicolo gli fecero capire che era all’interno di un bagagliaio, legato e imbavagliato, una premessa che non faceva presagire nulla di buono.

    Quando una persona si trova in quella situazione, il tempo e le distanze percorse sono incalcolabili, l’orientamento sparisce e viene annientata psicologicamente, non ha alcuna capacità di elaborazione mentale, è un essere umano in completa balia dei suoi aguzzini, non può avere alcuna capacità costruttiva di reazione.

    Dopo un lasso di tempo che gli sembrò interminabile, l’automobile rallentò sino a fermarsi e il motore si spense. In quel momento seppe che il suo destino era segnato e che, molto probabilmente, la sua vita era giunta al capolinea, prima ancora che iniziasse a raccomandare la sua anima a Dio, nonostante non fosse mai stato un grande praticante. Il cofano del bagagliaio si aprì e due uomini lo sollevarono di peso, scaraventandolo sul ciglio della strada.

    Uno di loro si avvicinò accucciandosi vicino alla sua faccia, e con voce perentoria gli disse: – Non muoverti da qui, fra un po’ qualcuno verrà a prenderti.

    Si rialzò in piedi e, senza più guardarlo, si allontanò salendo sulla sua Audi A4 di colore bianco, allontanandosi a tutta velocità nella direzione opposta a quella da cui erano arrivati.

    Max non rispose, anche perché era imbavagliato e legato mani e piedi. Dove sarebbe potuto andare in quelle condizioni, senza contare il dolore alla testa che non lo abbandonava un secondo?

    Non si sa quanto tempo rimase intontito sul ciglio della strada prima di perdere i sensi del tutto; rinvenì nuovamente in un bagagliaio, ma questa volta di un’altra macchina, molto più piccola rispetto alla precedente, visto che stava stretto e dal nuovo forte odore di carburante. Il continuo sussultare gli faceva sbattere la testa producendogli delle lancinanti fitte alla testa che poi si espandevano a tutto il corpo intorpidito.

    Nonostante la situazione drammatica in cui si trovava, cominciava ad avere qualche speranza sulla sua permanenza in quella terra, quel trasbordo da una vettura all’altra con cambio dei carcerieri gli faceva pensare che aveva uno scopo, altrimenti lo avrebbero eliminato subito senza rischiare di girare per i Balcani con un prigioniero nel bagagliaio della macchina.

    Il respirare i fumi del carburante lo portò ad assopirsi nuovamente.

    Riprese leggermente lucidità mentre lo tiravano fuori dal bagagliaio: poteva intravvedere che si trovavano in un garage, o comunque in luogo chiuso, e che due individui lo stavano trascinando all’interno di una casa. Fu adagiato su un tappeto, o forse una coperta, poi i due si spostarono in una stanza vicino, li sentiva parlare ma non comprendeva nulla di quello che dicevano e non riusciva a determinare quante persone ci fossero.

    Max non riusciva ad accettare la propria inerzia, così tentava in tutte le maniere di vincere quello stato soporifero. Doveva trovare il filo della sopravvivenza che in ogni essere umano si cela nel profondo dell’anima.

    Il filo di speranza lo trovò pensando a Criss e Lucio Gregori. Non sapeva nulla di loro dopo che avevano lasciato l’hangar: si era fidato della parola data da un criminale mafioso, Gian Antonio Ligabue e dal suo braccio destro Gasparre, ma era stata mantenuta? Erano effettivamente giunti in Italia sani e salvi o erano stati eliminati in quanto testimoni pericolosi?

    Tutti questi interrogativi gli fornirono la ragione per sopravvivere. Non poteva abbandonarli al loro destino e, qualora fosse successo l’irreparabile, lui avrebbe vendicato la loro morte.

    Di colpo si aprì la porta della stanza dove erano chiusi a parlare. Uscirono due uomini che lo slegarono e, prima di togliergli il bavaglio dalla bocca, gli ordinarono di non parlare, tantomeno di urlare. Seguì le loro indicazioni, anche perché non era nelle condizioni di reagire.

    Lo accompagnarono in bagno e aprirono l’acqua calda della vasca, adagiandolo comodamente all’interno dopo averlo spogliato.

    Rimasero qualche minuto a guardarlo senza proferire parola, poi il più alto dei due disse: – Tranquillo, Max, ora sei al sicuro. Fatti un lungo bagno caldo e rilassati, noi ti prepariamo una ricca colazione.

    Senza aggiungere altro o aspettare una sua risposta, uscirono dal bagno e richiusero la porta dietro di loro.

    A quel punto si immerse completamente sotto l’acqua e vi rimase per quanto fiato aveva in corpo. Quando riemerse vide la vasca completamente colorata di sangue. Cercò di capire da dove veniva tutto quel sangue e, senza pensarci, si toccò la nuca: si accorse di avere un profondo squarcio sulla testa.

    Non voleva pensare in quel momento, voleva solo riprendere possesso di se stesso, sia fisicamente che mentalmente. Cambiò l’acqua della vasca e rimase in ammollo per tutto il tempo necessario a far riprendere elasticità alle gambe e alle braccia, a tutto il corpo, cervello compreso.

    Il torpore cominciò a dissolversi quando poté finalmente osservare e rendersi conto di quanto fosse bello ed elegante quel bagno, tutto in marmo bianco con finiture arrotondate in marmo rosa, con accessori e rubinetteria di design.

    Dopo aver passato le ultime ventiquattro ore fra hangar marittimi, capannoni, bagagliai di macchine, fossati sul ciglio della strada, convinto di trovarsi ormai al capolinea, ora si ritrovava in una vasca con acqua calda addolcita da essenze profumate. Nonostante l’enorme cambiamento, sapeva benissimo che non doveva assolutamente abbassare la guardia: quella era sicuramente una forma di condizionamento mentale per indebolirlo ancora di più e per raggiungere i loro scopi, che ancora non conosceva.

    Uscì dalla vasca e si avvolse in un morbido accappatoio bianco bordato in azzurro, cercò i suoi vestiti, ma non li trovò. Sicuramente, senza che se ne fosse accorto, i due uomini se li erano portati via.

    Aperta la porta del bagno e percorso un corridoio con luci soffuse, si ritrovò in un grande salone con un pavimento in marmo bianco e venature dorate. Era arredato in stile moderno con alcuni pregiati pezzi d’antiquariato, tra cui un enorme e massiccio tavolo fratino che ben troneggiava di fronte a una grande vetrata che affacciava su un giardino all’inglese curatissimo.

    Sparsi per la sala, ma ben organizzati, vi erano alcuni salottini formati da divani e poltrone di vari colori e tessuti, con tavolini in cristallo che ne completavano l’armonia. Nella parte in fondo capeggiava una maestosa libreria in noce con piccole finiture in oro, ricca di una collezione di volumi antichi e ben conservati. Alle pareti erano presenti quadri di artisti contemporanei e classici. Era una casa sfarzosa, di una persona che voleva mettere in bella mostra la sua ricchezza.

    Mentre era intento a cercare qualche particolare che gli facesse intuire chi fosse il proprietario di quella casa e per quale ragione si trovasse lì, una voce esotica lo riportò alla realtà: – Prego, signore, posso servire la colazione?

    Max si girò di scatto e si trovò di fronte un ragazzo cinese poco più che ventenne. Alto, atletico, parlava perfettamente l’italiano. La sua divisa bordeaux non riusciva a nascondere che si trattava di una guardia del corpo più che di un maggiordomo, per cui l’interpellato lo guardò attentamente e gli rispose: – Certamente.

    Max si accomodò a capotavola, sul lato più lontano dalla cucina, in maniera tale da poter osservare l’arrivo del cameriere cinese, mentre sul suo lato destro poteva controllare l’arrivo di eventuali altre persone dal giardino.

    Gli venne servita un’abbondante e succulenta colazione all’inglese, con bacon, uova strapazzate, croissant caldi, vari tipi di marmellate, frutta, spremuta, tè e caffè. Le pietanze vennero servite con maestria e gentilezza e Max le consumò con molta calma, cercando di riappropriarsi delle forze e della sua riconosciuta lucidità operativa.

    Il cameriere cinese, mentre sparecchiava la tavola dagli avanzi della colazione, nel prendere il vassoio della frutta si scoprì l’avambraccio destro: in quell’istante Max scorse un tatuaggio, un cerchio rosso con all’interno la sigla W88, un tatuaggio e una sigla che ben conosceva; infatti qualche anno addietro aveva avuto a che fare con alcuni esponenti cinesi che riciclavano ingenti somme di denaro per conto della camorra sulla piazza di Torino.

    In quell’occasione vide per la prima volta la sigla W88, che indicava la triade che aveva sede a Hong Kong ed era attiva a livello internazionale, la seconda triade più grande della Cina con circa 25.000 membri affiliati, divisi in 28 sottogruppi. Era coinvolta in traffici di droga su larga scala, per lo più eroina e oppio, gioco d’azzardo illegale, riciclaggio di denaro, omicidi, traffici di armi, prostituzione, traffico di esseri umani, contraffazione di qualsiasi cosa ed estorsioni.

    La triade W88 nacque a opera del generale Wo Qiang Jia a Wenzhou, nota città portuale a sud della provincia dello Zhejiang; in origine era un gruppo di azione anticomunista, attivo nella lotta dei diritti dei contadini e dei lavoratori. Nel 1953 si riposizionava ad Hong Kong, dove fino ad allora operava il quartier generale dell’associazione criminale. La lettera W corrispondeva alla città di Wenzhou, il numero 88 era quello del palazzo di Hong Kong dove si insediarono successivamente.

    Il generale Wo Qiang Jia morì nel 1965, a seguito di un attentato in cui persero la vita anche la moglie e la figlia sedicenne Fen Hua, che tradotto significa fragranza di fiore. L’auto, condotta dal suo fedele autista, fu bloccata sulla principale via dello shopping di Hong Kong, crivellata di colpi d’arma da fuoco e subito dopo data alle fiamme.

    Era stata una resa dei conti di un clan rivale che voleva prendere l’intero controllo delle attività criminali della città. Tuttavia non si accorsero che all’interno dell’auto mancava il figlio ventenne del generale.

    Il giovane Wo Cheng Qiang, il cui nome veniva tradotto come forza sincera, senza aspettare che si esaurissero i giorni del lutto, diede corso a una rappresaglia che durò alcuni mesi, lasciando sulle strade di Hong Kong oltre duecentocinquanta cadaveri della triade rivale e prendendo il controllo dell’intera città.

    Dopo la vendetta acquisì tutti i traffici illeciti dei rivali, in particolare il traffico di sostanza stupefacenti provenienti dalla Mezzaluna d’oro, un’area asiatica con la maggiore produzione di oppio e trasformazione in eroina, posta a cavallo fra l’Afghanistan, l’Iran e il Pakistan.

    Nel 1996, all’età di cinquantuno anni, Wo Cheng Qiang morì a seguito di un infarto mentre nuotava nella piscina della sua villa. Subentrò alla guida della triade W88 il figlio trentacinquenne Wo Jun Hui, il sovrano saggio. Fu proprio lui a ordinare che tutti gli appartenenti all’organizzazione venissero tatuati con il cerchio rosso con, all’interno, la sigla W88.

    Solo dopo la morte del padre, Wo Jun Hui venne a sapere nel corso della lettura del testamento, avvenuta alla presenza dei maggiori esponenti della triade, che aveva una sorellastra. Quest’ultima era frutto della relazione del padre con una cittadina tedesca presidente della Private Bank di Monaco di Baviera.

    La sorellastra, di nome Ingrid Kruntz, era nata a Monaco nel marzo del 1967, si era laureata all’università di Monaco di Baviera in Economia e finanza internazionale con il massimo dei voti. Dopo alcuni anni negli Stati Uniti a seguire corsi e stage nelle maggiori banche del paese, fece prima ritorno in Germania e subito dopo si trasferì a Ginevra a curare gli interessi del padre Wo Cheng Qiang.

    Dopo un iniziale risentimento nei confronti del padre che gli aveva tenuto nascosta l’esistenza di una sorella e l’importanza che la stessa ricopriva all’interno dell’organizzazione, riuscì a perdonare il genitore ma ancora non accettava l’esistenza di Ingrid.

    I contatti con la sorella venivano mantenuti dal cassiere della triade, come in passato aveva fatto il padre prima della morte.

    Sotto la guida di Wo Jun Hui, la triade W88 aveva notevolmente ampliato il suo raggio d’azione nei paesi europei, in particolare in Francia, Italia, Germania, Gran Bretagna e Jugoslavia. Aumentò a dismisura i suoi introiti finanziari entrando prepotentemente nell’economia e nella finanza di quegli stati, con ingerenze anche a livello politico e continuò a occultare la reale provenienza dei capitali.

    2. Dubrovnik, Croazia

    I giorni passavano lenti e senza alcuna variazione, le notti erano insonni nel tentativo di capire cosa ci stesse facendo lui in quella casa, in compagnia di un cameriere cinese affiliato alla triade W88, che, oltretutto, lo trattava con riverenza, senza però lasciarsi andare ad alcun gesto di confidenza.

    Max sapeva che era un prigioniero in una cella di lusso, che prima o poi sarebbe arrivato il momento in cui avrebbe dovuto pagare il conto e purtroppo era proprio questa incognita che lo angustiava, rendendolo ogni giorno più vulnerabile. Non aveva contatti esterni, il tempo passava lento e senza alcuna distrazione, né giornali né televisione, niente musica o notiziari, solo un silenzio assoluto e il viso del cinese quando consumava i pasti.

    Era terribile il silenzio. Max non percepiva nessun rumore, nemmeno dalla cucina quando il cameriere preparava i pasti, non si sentiva nulla, solo il rumore del suo cervello che costantemente elaborava teorie, che subito dopo le riteneva senza senso e sballate, per poi ripartire a elaborarne altre.

    In un primo momento pensò che si trattasse di una vendetta a causa della sua attività svolta sulla piazza di Torino, dove era entrato in contatto con alcuni esponenti della stessa organizzazione; scartò quell’ipotesi in quanto i tre uomini della triade W88, che aveva conosciuto e con cui aveva stretto alcuni accordi, furono trovati morti dopo qualche settimana, due incaprettati e buttati nel Po e il terzo decapitato davanti a una lavanderia cinese nella periferia est della città, prima che si potesse concludere alcun affare.

    L’unica cosa positiva in tutto quell’ozio era la guarigione della ferita alla nuca e conseguentemente l’assenza del fastidioso mal di testa.

    Girovagando per il salone della casa aveva modo di osservare la grande libreria piena di testi antichi, pur non avendo il permesso di leggerli. Si accorse della mancanza di uno dei volumi e gli venne spontaneo il paragone con le dimensioni di quello che aveva avuto fra le mani qualche notte prima, nell’hangar del latitante Gian Antonio Ligabue.

    Era il volume che gli aveva dato Rafik come regalo da parte di Ismail Aga Khan, la Bibbia del 1600 regalata dalla regina Cristina di Svezia alla chiesa cattolica croata, di valore inestimabile.

    Più si arrovellava per trovare una spiegazione logica al fatto di essere scampato a un’esecuzione, di trovarsi bloccato in una villa che sembrava essere la residenza di Ismail Aga Khan, uno dei capi della mafia turca, però tenuto sotto sorveglianza da un cinese appartenente alla triade W88, più si rendeva conto di essere finito in una situazione che pochi giorni prima avrebbe ritenuto impensabile.

    In quella permanenza obbligata almeno era riuscito a rimettersi in forma attraverso esercizi fisici, improvvisati utilizzando attrezzi di fortuna reperiti nelle poche stanze in cui poteva muoversi, sotto l’attenta vigilanza delle telecamere e dei microfoni installati ovunque.

    Un venerdì, dopo il solito lungo bagno, Max arrivò con l’accappatoio bianco con finiture blu – che ogni mattina trovava pulito e piegato – nel salone per consumare la colazione. Tutto era apparecchiato alla perfezione, ma quella volta il domestico cinese rimase vicino al tavolo, e con perfetto italiano, indicando con il gesto della mano una confezione adagiata sul divano bianco lì accanto, gli comunicò: – Signor Max, qui ci sono dei vestiti nuovi per lei e tutte le cose personali che aveva quando è giunto in questa casa. Se gli abiti non sono della sua misura abbiamo il tempo per cambiarli.

    Max guardò la confezione dei vestiti e tornò a fissare il cameriere senza proferire parola, si accomodò a tavola e iniziò a consumare la colazione.

    Non chiese alcuna spiegazione al giovane, perché sapeva benissimo che non avrebbe avuto alcuna risposta e, soprattutto, per mantenere un distacco dei ruoli. Max era a capo della sua organizzazione, mentre il domestico era solo un guardiano senza alcun potere decisionale, pertanto sarebbe stato inutile iniziare una conversazione che non avrebbe portato a nulla, senza contare che avrebbe sminuito la sua posizione.

    Diversamente dal solito, mangiò velocemente, prese il pacco e andò nella sua stanza a vestirsi.

    Tutto risultò della sua taglia, non era nulla di particolare: jeans, polo gialla – un colore che Max odiava e che mai avrebbe acquistato – un giubbino di tela azzurro e scarpe da ginnastica bianche. Dopo essersi cambiato provò un senso di libertà, nonostante la sua condizione non fosse cambiata di una virgola. Forse dopo venti giorni di accappatoio bianco con bordi blu e ciabatte in spugna bianche, avere degli abiti aveva ridato a Max quella sicurezza di cui aveva bisogno per tentare di uscire da quella prigionia.

    Si fermò parecchio tempo nella sua camera, controllò con attenzione tutti i suoi effetti personali che gli avevano restituito. Non mancava nulla.

    Cercò di elaborare la maniera più adatta per uscire da quella situazione, ma non sapendo perché o per cosa si trovasse lì, non poteva programmare nulla, poteva solo assumere un atteggiamento di tranquillità senza alcuna manifestazione di timore o ansia.

    Era la strategia migliore, sebbene di non facile attuazione, ma, conoscendo la sua testardaggine e capacità di adattamento, nulla gli era impossibile avendo vissuto per tutta la vita sul filo del rasoio, impersonando uomini che erano l’opposto della sua natura e della sua vera attività. Solo uno come lui poteva opporsi ai suoi carcerieri ostentando sicurezza.

    L’unica angoscia che lo tormentava senza mai abbandonarlo era quella di non sapere nulla di Criss e Lucio Gregori.

    Raggiunse il salone, prese un libro a caso dalla libreria infischiandosene del divieto imposto, stanco di sottostare alle loro paranoie e si accomodò sul divano in attesa della reazione del suo carceriere cinese.

    Verso l’ora di pranzo, per la prima volta dopo essere giunto in quella casa, dalla vetrata del salone notò due uomini aggirarsi per il giardino con aria circospetta: era il segnale che qualcosa di nuovo stava accadendo, forse era giunto il momento in cui avrebbe capito perché era tenuto in quella casa.

    Max cercò un respiro adatto ad assumere un senso di sicurezza e tranquillità, una tecnica che aveva avuto modo di imparare molti anni prima durante un corso di addestramento con l’MI5 inglese. Questa tecnica gli era tornata utile in molte circostanze, così, dopo averle superate, non dimenticava mai di ringraziare con un pensiero il suo istruttore inglese.

    Mentre era ancora intento alla particolare respirazione, entrò

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