Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Peggio degli occhi miei
Peggio degli occhi miei
Peggio degli occhi miei
E-book444 pagine6 ore

Peggio degli occhi miei

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Peggio degli occhi miei racconta di Giacomo e Carmela, le cui vite scorrono parallele in un arco temporale che va dal ventennio fascista fino agli anni 50 del secolo scorso. E poi c'è Belmonte, il piccolo villaggio al centro della Sicilia. Una Sicilia rurale, antica e profonda, con i suoi catoi affacciati sulla strada, i carusi impiegati per pochi soldi nelle miniere di zolfo. Il romanzo segue una formula narrativa a due binari che coinvolge al suo interno una folta schiera di personaggi. Un racconto corale nel quale le vicende dei due protagonisti s’intrecciano con figure di donne e uomini, a volte originali, altre volte bizzarre o più semplicemente figli del loro tempo. 
LinguaItaliano
Data di uscita6 giu 2020
ISBN9788835843368
Peggio degli occhi miei

Leggi altro di Maria Messina

Autori correlati

Correlato a Peggio degli occhi miei

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Peggio degli occhi miei

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Peggio degli occhi miei - Maria Messina

    L'EDITORE

    PEGGIO DEGLI OCCHI MIEI

    MARIA MESSINA

    PRIMA PARTE

    Era vestita di nero, come al suo solito.

    L’aveva vista svoltare dall’angolo della via. Il passo svelto di chi ha qualcosa da nascondere. Da sotto lo scialle occhieggiava una macchia bianca.

    Giacomo sapeva di cosa si trattava. Il giorno prima la donna aveva portato dal fornaio un po' di farina, trovata sottobanco, e ora eccola di ritorno con il pane caldo appena sfornato. Deciso a spiare le mosse della matrigna il ragazzo corse a casa. Il battente del catoio [1] era solo accostato, entrò di soppiatto e se lo richiuse alle spalle. Smorzatosi l'abbaglio del sole si ritrovò di colpo immerso nell'oscurità. Attraversò la stanza urtando una sedia che barcollò e, a tentoni, raggiunse l'alcova. Con un balzo saltò sul letto e andò ad acquattarsi nel breve spazio tra il letto e la parete. L'aspettava.

    Poco dopo una falce di luce si stagliò sul soffitto e Agata comparve sulla soglia. Fece ruotare uno sguardo guardingo nel catoio e, verificato che non vi era nessuno, lo attraversò con passi rapidi. Giacomo, dal suo nascondiglio, seguiva ogni sua mossa, mentre sfilava il fagotto da sotto lo scialle e, fulminea, lo riponeva all'interno della credenza. Controllava il proprio respiro ancora affannoso per la corsa, ma lo tradì una specie di sordo gorgoglio, un suono estraneo prodotto dal suo stomaco come fosse dotato di vita propria. Trattenne il fiato e attese qualche secondo prima di sollevare gli occhi appena sopra la trapunta. Agata nel frattempo si era premurata di chiudere lo sportello della credenza con un paio di giri di chiave che ora stava infilando in una tasca tra le pieghe dell'ampio sottogonna. Il silenzio della stanza era rotto dal ronzio monotono di un moscone che andò a posarsi sulle stoviglie poste sull'acquaio. La donna si armò di uno strofinaccio e aggirandosi per la stanza tentò inutilmente di scacciare l'insetto. Dopo una serie di voli radenti sulla sua testa, quasi volesse prendersi gioco di lei, il moscone andò a schiantarsi su una striscia di carta moschicida che penzolava dal soffitto. Agata osservò trionfante l'insetto dibattersi sulla superficie appiccicosa. Sebbene si fosse trattato di suicidio, alla fine l'aveva spuntata lei. Un altro gorgoglio emerse dallo stomaco del ragazzo e gli occhietti sospettosi della donna passarono nuovamente in rassegna ogni angolo della stanza. In ogni caso non parve accorgersi di lui, piegò per bene lo strofinaccio e lo posò in un cassetto del canterano.

    Il pane era scomparso da un pezzo nella credenza ma la calda fragranza del suo profumo persisteva nell'ambiente stuzzicando le narici del ragazzo. Giacomo chiuse gli occhi provando a immaginare la consistenza della sua crosta dorata mentre scrocchiava sotto i denti. Inghiottì saliva e il gusto acidulo lo riportò alla realtà. Avrebbe fatto qualunque cosa per addentare quel pane caldo, ogni fibra del suo corpo ne bramava anche una sola fetta. Avvertì una fitta alla bocca dello stomaco, acuta come stilettata.

    Imprecò tra sé maledicendo la donna; ben consapevole che quel dolore acuto non era dovuto solamente ai morsi della fame.

    - e vattene, vecchia dannata! mormorò stringendo i denti per la rabbia. Adesso lei si stava avviando alla soglia e sembrava sul punto di andarsene, quando si voltò di scatto e con passo deciso tornò indietro verso l’alcova. Giacomo immobile, accucciato dietro l’alta sponda del letto, trattenne il respiro.

    – eccolo! Agata scosse il capo in direzione del vecchio scialle nero, adagiato sul letto come un gatto sonnacchioso, se lo buttò sulle spalle e finalmente uscì dal catoio.

    In un attimo il ragazzo balzò fuori dal nascondiglio saltando sopra il letto. Non c’era tempo da perdere, doveva trovare al più presto il modo di aprire la serratura. Quando un attimo dopo Cosimo entrò in casa lo trovò accovacciato a terra che annusava tra le fessure della credenza.

    - Che ci fai a terra?

    Giacomo sollevò lo sguardo sul fratello che ridacchiava.

    - Tu non lo senti stu sciauro [2]? La vecchia ammucciò [3]il pane un'altra volta. L'ha chiuso a chiave la maledetta!

    - Embè e tu che vuoi fare? La sua apprensione era evidente da come muoveva gli occhi in continuazione per controllare la porta. Era chiaro che temeva di veder spuntare la donna da un momento all’altro.

    - la voglio scassare. Annunciò Giacomo indicando la serratura. Si alzò spostando di lato il fratello che gli sbarrava la strada. – levati di mezzo, fammi passare. - disse scostandosi dalla fronte sudata una ciocca scura. Aveva una testa di folti capelli neri e ricciuti. Gli occhi di un verde chiarissimo, quasi metallico, creavano un curioso contrasto con la carnagione scura del suo volto ossuto.

    Scostò la tenda dietro la quale c’era una scansia dove suo padre teneva degli attrezzi. Da una scatola di cartone recuperò un punteruolo, lo soppesò e valutò che poteva fare al caso suo. Si accovacciò ai piedi della credenza e cominciò ad armeggiare intorno alla serratura, ignorando Cosimo che non smetteva di scrutare l’uscio con ansia crescente.

    I due ragazzi molto diversi nell’aspetto lo erano altrettanto nel temperamento. Cosimo, il maggiore, aveva una figura slanciata, la chioma castana e l'incarnato roseo. L'ovale ben disegnato e l’armonia dei lineamenti sembrava trovare il suo esatto opposto nei tratti spigolosi del fratello minore. Inoltre Cosimo era incline ad una certa debolezza di carattere che sovente lo poneva in contrasto con la personalità sanguigna dell'altro.

    - lo sai cosa succede quando quella torna a casa?

    - Non ti preoccupare che alla vecchia ci penso io… rispose Giacomo guardandogli le scarpe quasi stesse parlando con loro.

    - bravo, e poi chi lo tiene a nostro padre? Lo sai che quella gliela conta come ci pare a lei. Si sforzava di usare un tono suadente ma il terrore trapelava dall'evidente tremore nella voce.

    - me ne fotto io! Replicò Giacomo. Adesso martellava furiosamente facendo saltare schegge di legno e creando profondi solchi intorno alla serratura.

    – non ti aspettare che t'aiuto, io niente ne voglio sapere dei guai che vai combinando. Cosimo scosse le mani e mimò il gesto di chi vuole allontanare da sé qualcosa che scotta.

    Giacomo si alzò in piedi. Il fratello lo sormontava di più di una spanna e doveva tirare indietro la testa per guardarlo negli occhi. Tuttavia la differenza di altezza non aveva mai rappresentato un ostacolo per lui. - ah ma guarda un po' che novità! esclamò con una risata rauca. - e dimmi na cosa, quando mai sei stato dalla mia parte? - chiese rabbioso – Allora, rispondi! - Cosimo taceva ma non poteva fare a meno di spostare uno sguardo preoccupato sulla mano dell'altro che impugnava il punteruolo. - certo che non rispondi perché non è successo mai. Mai una volta. - spinse l'indice davanti al naso di Cosimo.

    - Sempre con la coda fra le gambe. Non sai fare altro che ammuccare come un agnellino dietro a quella gran buttana! -

    - non è vero. Certe volte ci rispondo pure io. Cosimo tentò una debole protesta. Giacomo fece qualche passo indietro. Prese a guardarlo da quella distanza come se intendesse ritrarlo a figura intera: - eppure tu te la dovresti ricordare a nostra madre. Quando morì io avevo tre anni, ma tu ne avevi sette, eri già grande abbastanza per ricordarti com'era fatta? Com'era la sua faccia, gli occhi. Come parlava, la voce... - adesso l'ira sembrava essersi esaurita nella voce del ragazzino. - Insomma io certe volte mi domando se ci pensi mai alla mamma. - La sua voce si era fatta quasi atona. L'altro accennò con il capo un incerto segno affermativo: - certo, certo che ci penso, che razza di discorsi mi fai? Sembrava stupito dal suo repentino cambiamento di umore.

    - e allora me lo spieghi come fai?

    - a fare cosa?

    - più di una volta ti ho sentito che la chiamavi mammà... me lo dici come puoi chiamare mamma a quella dannata? Sul volto di Giacomo non restava più alcuna traccia della rabbia di poco prima, solo un'espressione avvilita.

    - capitò qualche volta, in presenza di nostro padre, l'ho feci solo per farlo contento. Si giustificò Cosimo.

    - per fare piacere a nostro padre, dici tu. O piuttosto per elemosinare una crosta di pane oppure un uovo al posto della cipolla?

    - non è vero. Protestò Cosimo digrignando i denti.

    - invece è così e tu lo sai meglio di me. Almeno abbi il coraggio di ammetterlo! Ammettilo che ti vendi per un pezzo di pane secco.

    Gettò un'occhiata alla credenza. Ad un tratto non avvertiva più l'impulso di rubarne il contenuto. Persino il profumo del pane caldo sembrava essersi dissolto. Ormai il danno era fatto: i profondi solchi sul legno, prodotti dal punteruolo, dimostravano in modo inequivocabile che qualcuno aveva tentato di scassinarla. E quel qualcuno non poteva essere che lui. Probabilmente la vecchia per vendicarsi avrebbe chiesto a suo padre di caricarlo legnate. E Cosimo poi, lo aveva già dichiarato, non avrebbe speso una parola in sua difesa. Ma non gli importava di Agata, di quel fratello pavido, del padre, sempre assente, chiuso nel suo mondo di ricordi a cui ne lui ne nessun altro era permesso accedere. Che andassero tutti all'inferno. Gettò l’arnese a terra e fuggì in strada.

    Scappo… Io prima o poi me ne scappo! Me ne scappo da questo paese di merda, ripeteva tra sé tirando rabbiosi calci ai sassi.

    Avevano perso la madre in tenera età. Il padre Gesualdo, rimasto vedovo con due figli molto piccoli, si era subito rivolto ad un sensale che gli aveva proposto una donna piuttosto avanti negli anni.

    - Una femmina onesta e lavoratrice, però non vi dovete aspettare una bellezza. Per carità, senza malformazioni, tiene tutte le cose a posto. Certo, una zitella senza troppe pretese, insomma... voi mi capite. Aveva considerato mastro Costanzo Bellavia arrotolandosi il mustacchio, l’aria esperta di chi sa di poter trattare la materia con una certa dimestichezza. E di certo l’esperienza non gli mancava, nella sua lunga carriera di sensale ne aveva portati parecchi di matrimoni a buon fine. Tanto da ritenere che un giorno o l'altro gli venisse riconosciuto il fumoso diritto a possedere una scrivania in municipio, magari proprio accanto all’ufficio dello stato civile.

    Trattandosi di seconde nozze, il matrimonio si era svolto in un clima decisamente sottotono con frettolosi festeggiamenti. Giacomo che a quel tempo era poco più che lattante, vedendo Agata per la prima volta, aveva cacciato uno strillo talmente acuto che i presenti dovettero tapparsi le orecchie per non restare assordati. E con il passare degli anni le cose non erano certo migliorate.

    Agata, da parte sua, aveva fatto l'abitudine al disprezzo con cui la scrutava quel ragazzino con occhi da gatto. Poco le importava se in cambio di un marito si era dovuta accollare quei due marmocchi. Alla fine ciò che davvero contava era di comparire ben maritata in presenza di tutto il paese.

    Aveva passato la vita a faticare in una masseria isolata. La madre era morta di parto dandola alla luce e suo padre l'aveva cresciuta come poteva. Era l'unica femmina di casa e fin da bambina aveva dovuto occuparsi della famiglia. Quando serviva, lavorava anche in campagna insieme ai fratelli. Non aveva mai messo piede in una scuola né conosceva coetanee con cui giocare. In tutta la sua infanzia non aveva neppure mai avuto un giocattolo e probabilmente se qualcuno le avesse chiesto se ne desiderasse uno, non avrebbe neppure saputo rispondere. la gestualità rozza, senza alcun dubbio acquisita dal contatto quotidiano con i fratelli, avevano finito per plasmare i caratteri sgraziati del suo aspetto.

    I lineamenti sembravano tagliati con l’accetta, con piccoli occhi appuntiti come spilli e neri come tizzoni che si muovevano rapidamente intorno, sempre vigili e attenti. Se un pensiero le balenava per la mente aveva l’abitudine di passarsi le grosse dita callose agli angoli della bocca come ad asciugare i grumi di saliva che vi stagnava ai lati. Consapevole della propria bruttezza non se n’era mai fatta un cruccio, neppure da giovane, tanto più adesso che aveva acquisito una posizione rispettabile come moglie di un uomo massaro [4]come Gesualdo.

    Quando si era presentata quella insperata occasione di matrimonio aveva da un pezzo superato l’età da marito.

    Se lo ricordava bene quel giorno, di certo il più bello della sua vita, tanto che a ripensarci ancora oggi provava un'emozione che le toglieva quasi il respiro.

    Un uomo, mandato dal sensale Bellavia, si era presentato alla masseria chiedendo di parlare con suo padre. Era stata lei ad aprire la porta, ma lui non l'aveva degnata di uno sguardo. Era una faccenda tra uomini aveva detto suo padre e lei senza fiatare si era ritirata nella cucina attigua. Lei lo aveva a malapena intravisto, non era un giovanotto ma le aveva fatto lo stesso una buona impressione; l'aspetto era di un uomo sano e forte. La curiosità era troppa e non aveva potuto fare a meno di appiccicare l’orecchio alla porta per ascoltare i loro discorsi. Riusciva a sentire solo la voce tonante del padre, l'altro bisbigliava appena. Sbirciando dal buco della serratura aveva visto che teneva la testa bassa e rigirava nervosamente il cappello tra le mani. A stento era riuscita a carpire brandello di frasi: i picciriddi su nichi, ma mugliera è morta. Poche parole smozzicate, ma sufficienti per farla correre in soffitta, al vecchio baule dove era conservato il corredo ereditato dalla madre. Presa dall'euforia cominciò a tirare fuori dal baule tutta la biancheria: tovaglie di puro lino, lenzuola con il pizzo, camicie da notte cucite dalle mani esperte delle migliori ricamatrici di Belmonte. Con un po' di disappunto aveva notato come il tempo, passato ad aspettare che qualcuno si decidesse a bussare alla sua porta, avesse offuscato il candore della sua biancheria stendendo su di essa una patina giallognola. Tuttavia lei non si era persa d’animo, una buona dose di liscivia avrebbe fatto tornare il suo prezioso corredo all'antico candore di un tempo.


    [1] Abitazione al pianterreno che si affaccia sulla strada

    [2]Odore, profumo

    [3]nascose

    [4]lavoratore

    Carmela era stata chiamata in soccorso di Sofia.

    A giorni c'erano le nozze della sorella Nunzia e lei aveva un problema con l'abito, un po' malandato e fuori moda; bisognava dargli un'aggiustatina e serviva un consiglio. Le ragazze del vicinato si erano date appuntamento da Sofia per quel pomeriggio.

    la strada deserta, spazzata dal vento, costringeva Carmela ad avanzare a testa bassa con la mano a schermo sugli occhi per proteggersi dalla polvere.

    - Zibanadica zi Marietta!

    la figura scura di una donna, che le veniva incontro, rispose al suo saluto con un lieve cenno del capo. Dal giorno in cui aveva ricevuto la lettera che annunciava la scomparsa del marito, sul suo bel viso era impressa un’espressione di perenne sofferenza, pensò Carmela vedendola allontanarsi anch'essa a testa china per contrastare il vento.

    Venne ad aprire Nunzia, la futura sposa. Prima di entrare Carmela esitò un istante. La stanza era immersa in un cicaleccio assordante di ragazze e a rendere il tutto ancora più caotico contribuivano le voci acute di alcuni ragazzini che giocavano in strada proprio sotto la finestra. Un po' intimidita dal trambusto Carmela restava impalata sulla soglia. Il fatto che ragazze fossero tutte più grandi di lei la metteva in imbarazzo. Se avesse saputo che c'era tutta quella confusione di gente non ci sarebbe venuta, si diceva la piccola.

    - entra Carmè! disse Nunzia.

    - Sofia c'è? Chiese esitante Carmela. Nunzia cercò con gli occhi la sorella. All'altro capo della stanza Sofia, una ragazzona bruna dalla chioma folta e crespa, se ne stava sdraiata sul letto. Osservava annoiata l’abito di un rosa sbiadito che penzolava tristemente da una gruccia appesa all’armadio. Nunzia le rivolse uno strillo – Sofia, Carmela c'è.

    - Vieni Carmè! rispose stancamente Sofia individuando la bambina in mezzo alle altre. Il suo umore apatico contrastava curiosamente con l’eccitazione che fremeva nella stanza. Carmela le corse subito incontro per rannicchiarsi al suo fianco.

    - Io ci metterei un fiocco in vita… Magari bianco oppure dello stesso colore dell'abito. Consigliò una ragazza dal viso lungo con un grosso neo sopra il labbro.

    - Si, accussì mi rassomiglia a una bomboniera… Rispose Nunzia con una smorfia. Sofia sbuffava accarezzando distrattamente i capelli di Carmela, si trattava del suo abito ma non sembrava granché interessata alla questione.

    - Chiudi sta finestra che c’è vento! Ordinò ad una cicciottella che gesticolava animatamente. Quando la cicciotella accostò la finestra un sfolgorio di luce balenò nella stanza e un bagliore di pagliuzze dorate fece rifulgere la chioma fulva di Carmela. Sofia prese una ciocca dei sui capelli tra le mani.

    - Ma che ci fai a sti capelli… Per farli venire di questo colore? Carmela sorrise senza rispondere.

    - dai dillo, te li tingi vero? Carmela scosse il capo visibilmente imbarazzata.

    – avà che c'è di male, ammettilo, che te li tingi! una punta acida ne incrinò la voce. Carmela si scostò di scatto da lei, aveva la faccia tutta rossa, si sentiva mortificata. Stava per dirle che lei non era una di quelle del tirassegno che si pittano i capelli e la faccia ma sentiva le parole strozzarsi in gola. Strinse forte le labbra, balzò giù dal letto e si fece largo tra le ragazze. - ehi ma che modi sono? - si lagnò una di loro. Poi uscì di corsa sbattendosi la porta alle spalle. Nella stanza si fece di colpo silenzio, le ragazze si lanciarono occhiate interrogative poi tutte insieme posarono lo sguardo su Sofia che ostentava indifferenza.

    - Niente, non è successo niente… lo sapete come sono fatte le Serrano, non si ci può dire niente che se la prendono! spiegò facendo una smorfia di sufficienza.

    - Veru è, chissà chi si credono di essere! Commentò la ragazza del neo alzando gli occhi al soffitto.

    - si sentono le regine di Taitù… Aggiunse la cicciotella che, piantandosi i pugni sui fianchi e mettendosi ad ancheggiare in modo buffo, suscitò una risata generale.

    - Davanti a tutte me lo disse! Carmela parlava tra i singhiozzi. Annuzza posò su una seggiola il colletto liso di una camicia che si accingeva a rivoltare.

    - Il fatto è che a Belmonte non c’è nessuno con questo bel colore di capelli. spiegò la donna passandole una mano tra i morbidi riccioli. La piccola non smetteva di piangere, lei allora le offrì le braccia e se la strinse teneramente al petto.

    - Lo sai com’è fatta Sofia, sono sicura che non ti voleva offendere! - Aggiunse accarezzandole i capelli. Prese dal polso della manica un fazzoletto e le asciugò gli occhi e le guance tempestate da piccole efelidi dorate.

    - Tu pigliasti tutta dal tuo nonno Pasquale, pure lui era di pilo russo come te. Annuzza strinse a sé la figlia e prese a raccontare del nonno Pasquale. Carmela conosceva quella triste storia, ma la ascoltava ogni volta come fosse la prima.

    - Travagliava in campagna con mio fratello Francesco. Lui era l’unico figlio maschio della famiglia e mio padre ne andava orgoglioso. A quell'epoca avevamo un piccolo pezzo di terra che confinava con il terreno di una famiglia forestiera, della provincia di Catania, gente tranquilla. Mai ci fu una discussione, si andava d'amore d'accordo, in grazia di Dio. Quando se ne tornarono al paese loro, la terra se l’accattò una famiglia di proprietari terrieri, gente benestante. Frascato si chiamavano. Forestieri anche loro, venivano da Petralia, ma questa era gente prepotente e senza rispetto. Dal giorno che posarono piede nelle loro terre per la nostra famiglia cominciarono i guai. I figli più grandi avevano la casa in paese e per andare ai loro terreni accorciavano la strada passando con i cavalli sul campo del nonno e ci rovinavano la semina. E questo traffico avanti e indietro lo facevano tutti i santi giorni. Come a farci soperchierie.

    - E il nonno, niente diceva? Chiese Carmela che aveva smesso di piangere.

    - Iddu, bonarmuzza, ce lo disse che non dovevano passare sul suo campo. Era un uomo di pace e lo fece sempre con le buone. Ma quelli facevano orecchio da mercante e continuavano a passare e spassare come ci pareva a loro. Fino che un giorno il nonno andò fino alla masseria per dirci che se non la smettevano li denunziava ai carabbuniri. E quelli se la pensarono… E ci spararono.

    Carmela ebbe un sussulto, sbarrando gli occhi si portò una mano alla bocca. Pur conoscendo ogni passo della storia giunta a quel punto non poteva fare a meno di reagire con un gesto di orrore, non farlo le sarebbe parso irrispettoso nei confronti del nonno morto ammazzato.

    - visto che il padre non si arricampava dalla casa dei Frascato, Francesco ci andò per vedere cosa era successo – proseguì Annuzza – ma quelli lo stavano aspettando e spararono pure a lui una fucilata nella schiena. Povero Francesco, aveva solo diciassette anni. Li disonesti si scantavano che u carusu si vendicava del padre. Erano stati i fratelli a sparare. Uno si chiamava Alfio e l'altro Costanzo, ce lo spiegò il maresciallo dei carabinieri, dopo che trovarono tuo zio faccia a bocconi in mezzo alla trazzera. -

    Carmela, stretta al corpo della madre, ascoltava il suono rassicurante della sua voce attraverso il petto caldo. La guancia, ancora umida, premuta contro la ruvida stoffa che odorava di sapone.

    - E la nonna?

    Annuzza alzò lo sguardo come se stesse fissando qualcosa in lontananza.

    - La nonna, puviredda, restò sola con due figlie femmine ancora picciridde e ci toccò di andare a servizio tirando avanti come vuole dio.

    - Ma alla fine… Li hanno arrestati? Chiese Carmela senza staccarsi dal petto della madre.

    - I fratelli, per non farsi acchiappare se n’erano già fuìuti in America. I denari non ci mancavano a quei disgraziati e accussì la fecero franca. Ma dopo tanti anni, una ventina mi pare, mandarono una lettera qualmente che si volevano ritirare a Belmonte. C'era scritto: Quello che è passato è passato. Ci siamo pentiti per il male che abbiamo fatto... mettiamoci una pietra sopra. Tutta non me la ricordo comunque sta di fatto che quei disgraziati ci volevano mandare denari per chiudere la questione dell'ammazzatina una volta e per sempre. Secondo quei malaerba, con quei denari, non mi ricordo quanti ma erano assai, la nonna si doveva mettere l'anima in pace e ritirare la denunzia…

    - E la nonna, che fece?

    - Eravamo puviriddi. Ma quei delinquenti le avevano ammazzato il marito e il figlio. Che si credevano di poter riscattare il sangue coi denari? La nonna pigliò carta e penna e ci risponnì, bello chiaro e tondo, che quei denari se li potevano tenere perché non valevano la vita di due anime innocenti.

    Ci fu un lungo silenzio. Carmela si sollevò dal grembo della madre, aveva un'espressione seria. Ogni volta che udiva quelle parole provava un sussulto di orgoglio nei confronti di quella nonna mai conosciuta.

    - Ma vossìa ci pensa ancora assai? Disse puntando i grandi occhi scuri in quelli della madre.

    - Certe disgrazie… figlia mia non si possono scordare. Restano per sempre nel cuore e non se ne vanno mai.

    Paolo agitava nell’aria le braccine esili.

    Tentava invano di liberarsi dagli strattoni di una banda di ragazzini che gli sbarrava la strada.

    - Talìa quant’è scandulino! Diceva uno tirandogli la giacca da una parte mentre un altro cercava di strappargli dalle mani la cartella. - E che minghia ci tieni dintra a sta borsa? -

    - Cose di fimmini! Commentò un ragazzetto con la faccia impiastricciata di moccio e terra, suscitando l’ilarità dei compagni.

    - e guardalo come Chiangi proprio come na fimminedda!

    Giacomo sbucato all’improvviso da un angolo della via si avventò su quello che aveva tutta l’aria di essere il capetto della banda. In pochi secondi lo immobilizzò serrandogli il bavero sotto il mento.

    - Accussì m’affuchi… disse il capetto.

    - Cheffà, ora non lo fai più u capuzzello? Giacomo gli stava puntando l'indice diritto sotto il naso mentre lo teneva ancora bloccato per il petto.

    - Ecco che arrivò la mammina! Replicò l'altro nel tentativo di mantenere un contegno da duro.

    Giacomo lo sollevò e lo scagliò contro il muro facendolo stramazzare al suolo con un tonfo sordo. La furia negli occhi di Giacomo fece ammutolire i ragazzi, a quel punto nessuno osava più fiatare.

    Il capetto tentò di recuperare l’equilibrio sulle gambe poi si sistemò la giacchetta rattoppata: - E che fa, uno manco può babbìare?! Adesso aveva l’aria più mogia, fece un cenno al resto della banda e insieme si allontanarono borbottando tra di loro.

    - Grazie Giacomo, giusto giusto arrivasti! disse Paolo mentre tirava su la cartella da terra e ne spazzolava via la polvere con la mano.

    - Si però è ora che impari a difenderti da solo, guarda che io non ci posso stare sempre appresso a tia! Si lamentò L’altro ficcando le mani in tasca.

    - C’hai ragione! Ma tu lo sai, io non ne sono proprio capace.

    Giacomo posò una mano sulla testa del fratello e con un gesto affettuoso gli scompigliò i capelli.

    - Ora però un fare sta faccia, vedi che io lo dico per il tuo bene… E va beh vuol dire che fino a quando ci sarò io, a tia ci penso io. Va bene accussì?

    - Ma allora, per davvero te ne vuoi andare, Giacomo?

    - Certo e cheffà, secondo te lo dico per babbìare?

    I grandi occhi neri del bambino si adombrarono ma non replicò. Insieme si avviarono verso casa; Paolino teneva lo sguardo fisso a terra rimuginando sulle parole del fratellastro.

    - avete litigato un'altra volta, vero? Disse dopo un po' che camminavano.

    - Tua madre ammucciò il pane e io ho scassato la serratura. spiegò Giacomo sommariamente sbuffando di rabbia, poi tirò un calcio ad un sasso.

    - perché non l'hai chiesto a me te lo posso dare io il pane.

    - ma non capisci? Non è per il pane. Disse Giacomo affondando le mani nelle tasche.

    Paolo pativa la durezza con cui Agata trattava i fratellastri. In lui non c'era nulla del temperamento aspro della madre. Aveva modi delicati e nei suoi tratti infantili aleggiava un po’ della malinconica bellezza del padre.

    La costituzione macilenta lo rendeva inadatto al lavoro in campagna e Agata aveva convinto Gesualdo a mandarlo a scuola almeno fino all’avviamento. Amava lo studio e dedicava buona parte del suo tempo alla lettura. Un vicino gli aveva regalato un vecchio libro sulla cura delle piante che a forza di leggere e rileggere avrebbe potuto ripeterne a memoria parola per parola. E poi c’era don Carmine il barbiere che ogni tanto lo foraggiava con vecchie riviste che teneva in bottega per i clienti.

    In famiglia nessuno faceva troppo caso a quella che dai più era ritenuta una bizzarria. Ma i suoi coetanei, proprio non se ne capacitavano. Che gusto ci provava a passare le sue giornate a leggere? Per non parlare di quello stupida mania di ritagliare fotografie dai giornali per poi appiccicarle su un quaderno che si portava sempre appresso.

    Non si fidavano dei tipi come lui, lo guardavano con sospetto e quando non sapevano come far passare il tempo, si divertivano a punzecchiarlo. Non era la prima volta che Giacomo lo cavava fuori da quel genere di impicci con gli altri ragazzi. Dal canto suo Paolo, ben consapevole della propria fragilità, neppure provava a difendersi. Ai suoi coetanei tale docilità doveva apparire indice di vigliaccheria e invece di placarne gli animi sembrava piuttosto attizzarne la spavalderia.

    Lui disertava i giochi di strada e invece di giocare a strummula [1] , alle cinque petri o a fussetta [2], preferiva la compagnia dei vecchietti della Società.

    Durante l'estate gli anziani frequentatori del locale usavano trasferirsi fuori dallo stanzone fumoso. Tra una presa di tabacco e una tirata di pipa sorseggiavano lentamente un vino nero e corposo, schioccando poi la lingua con lo sguardo, sovente accigliato, rivolto alla piazza.

    Paolo arrivava con il passo felpato di un gatto. Mormorava un timido saluto e andava a sedersi su una piccola scala in pietra posta a lato del locale. Restava lì in disparte per interi pomeriggi. Gli piacevano scrutare le facce di quegli uomini, bruciate dal vento e dal sole, scavate dalla durezza della vita. E quando capitava, amava ascoltare i loro racconti. Chiudeva gli occhi e lentamente si lasciava cullare dalle immagini evocate da quelle voci ispessite da fatica e tabacco.

    La sua presenza silenziosa era ormai diventata di casa tra i vecchietti della Società, ma di tanto in tanto qualche avventore meno assiduo, scorgendolo là tutto solo ad ascoltare i loro discorsi, lo apostrofava un po' stupito: - ma che ci stai a fare picciriddu, con vecchi rincitrulliti come a noi?

    E lui rispondeva con un timido sorriso:- ascutu!

    Alla Società era piuttosto facile trovare qualcuno disposto a parlare dei tempi passati. Bastava che uno desse il la e, uno alla volta, prendevano a snocciolare vecchie storie.

    Poteva trattarsi di vicende già narrate in precedenza ma capitava spesso che il narratore, forse per il gusto di raccontare, ci mettesse qualche aggiunta. Che fosse frutto di fantasia o un ricordo sopito emerso dalle nebbie del passato, a Paolo poco importava. Posava la testa ricciuta sulle ginocchia e ascoltava con attenzione ogni parola.

    C’era chi, durante la grande guerra, aveva fatto il soldato in alta Italia e amava raccontare di quel lungo viaggio in treno, quando affacciato al finestrino, con il vento in faccia, si era trovato di fronte a quella distesa azzurra punteggiata da piccole creste bianche, e aveva annusato per la prima volta l’odore del mare.

    Avevano percorso tutto lo stivale; un viaggio lungo e faticoso, ammassati su vagoni zeppi di giovani destinati a qualche caserma del nord. La maggior parte di loro non aveva mai messo piede fuori dal paesello, nè tanto meno dall’isola, pertanto quel viaggio restava indelebile nella memoria. C’era chi amava soffermarsi sul paesaggio, chi sui compagni di viaggio. Nonostante tutti quegli anni passati era ancora possibile scorgere nei loro occhi velati tracce di quell’antico stupore. Ognuno aveva un pezzo forte, allo zi Minico, per esempio, piaceva raccontare del suo arrivo in quella stazioncina di alta montagna. Quando, appena sceso dal treno, era stato investito da una folata di aria gelida che tagliava la faccia e faceva condensare il fiato. - Malgrado fossimo ancora in piena estate, c'era un freddo che tagliava le ossa! Diceva ogni volta sgranando gli occhi come se quel fatto lo stupisse con la stessa intensità di allora. Insieme ai compagni aveva messo in spalla lo zaino e proseguito a piedi lungo una ripida strada di montagna. Malgrado la fatica della salita se la ricordava ancora la meraviglia provata quando, tirando su il naso da quel ripido sentiero, aveva scorto tra le foglie degli alberi quel paesaggio imponente.

    Picchi rocciosi lievemente innevati sulla punta che con le loro cime aguzze sembravano voler pungere il padreterno.

    Al tramonto erano giunti alla caserma che ospitava il suo reggimento. Si trattava di una piccola costruzione in pietra arroccata su un grosso sperone di roccia che dominava la valle. E che impressione quando, affacciato alla finestrella della camerata, si era trovato davanti a quei colossi di pietra accesi di una luce rosa come confetti.

    L’unica montagna che aveva visto fino ad allora era quella di Enna che paragonata a quei giganti non era che una misera collinetta.

    Con l’arrivo dell’inverno le abbondanti nevicate avrebbero ricoperto quel paesaggio di un manto talmente candido che a guardarlo pareva fatto di zucchero!

    A quel punto del racconto l’incanto svaniva per lasciare il posto ai ricordi più dolorosi. Accucciati in fondo alle trincee, coperti di fango da capo a piedi, e poi quel fischio pauroso di pallottole che sfiorava le orecchie, rapido e freddo, come un vento di morte. E poi c’erano quelli che non ce l’avevano fatta, i loro volti tornavano alla mente, giovani e vivi come allora. Qualcuno faceva anche dei nomi poi aggiungeva qualche particolare per meglio fissare un ricordo che il tempo, inesorabile, tentava di sbiadire: - Giovanni Marsella, era di Pescara, un bravo ragazzo… c’aveva un porro sul naso e ci metteva sopra certe pomate fituse, per farlo sparire, spiegava il vecchio.

    - Eh… La guerra è na brutta bestia! Concludeva qualcun altro, un’ombra di malinconia velava i loro sguardi. Ricordi dolorosi ma che parlavano di una gioventù ormai perduta. Nonostante la sofferenza, nelle loro parole aleggiava la struggente nostalgia per un tempo che non sarebbe mai più tornato. Forse per questa ragione sarebbero tornati ancora e ancora a rievocare quei tempi lontani.

    Paolo intanto, con la fronte posata sulle ginocchia e gli occhi chiusi, provava a immaginare quelle montagne di zucchero.


    [1]trottola

    [2]Giochi con le pietre.

    Aveva fatto la strada di corsa

    - Zibanadica papà Disse Carmela sfilandosi la giacchetta, nella voce si sentiva un leggero affanno.

    Antonio sollevò gli occhi dalla tomaia di una vecchia scarpa che da tempo aveva perso la sua forma originaria.

    - Carmè te lo dico sempre di non correre sotto il sole, che fa ti puoi prendere una botta di calore?! La piccola sbuffò senza rispondere.

    - Dove sta Giovanna? chiese l’uomo mentre la figlia si sventagliava con la mano.

    - E’ rimasta indietro con le sue amiche… - aveva la fronte sudata per la corsa - Eccola che arriva… - la sua attenzione fu attirata da una donna vestita di nero che sbucata in quel momento da un angolo più in giù della via. - E guardasse un po’ chi c’è , la zi Assunta! - Aggiunse indicandola al padre.

    - Zibanadica zi Assunta! era la voce di Giovanna che risuonava dal fondo della via, deserta a quell’ora.

    - Salutamo! Fu la frettolosa risposta della donna che senza degnarla di uno sguardo filò via a passo spedito.

    Come altri clienti di Antonio la zi Assunta non saldava il conto da parecchi mesi e aveva tutta l’aria di voler passare inosservata. Antonio rivolse uno sguardo d’intesa a Carmela poi si schiarì la voce.

    - Zi Assunta! Le scarpe, ancora me le dovete pagare, se lo ricorda?

    La donna si bloccò in mezzo alla strada, in un primo momento finse sorpresa, poi voltò la testa a destra e sinistra per accertarsi che nessuno fosse in ascolto.

    - mastro Antonio e che modi sono, che mi fate fare la figura della malapagatura?! Scosse in aria la mano come per cacciare via una mosca fastidiosa.

    - io una domanda ho fatto, quando me le pagate ste scarpe?

    - Mastro Antonio ora però non fate lo scostumato! E che fa, non ve le pago? Pagherò, pagherò, ‘un si preoccupasse! chinò gli occhi a terra, forse per timore di inciampare, e trottò via di gran passo.

    - Li senti come fanno? Invece di darmi i denari che mi toccano, quasi quasi pare che mi dovessero fare l’elemosina! Disse Antonio rivolto a Giovanna che arrivava in quel momento. Carmela poggiò una mano sulla spalla del padre, lui la prese, e se la portò alle labbra posandovi un tenero bacio.

    Giovanna restava sulla porta e continuava a fissare la zi Assunta, sembrava come ipnotizzata dall’andatura barcollante della donna

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1