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Il canto della vendetta
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Il canto della vendetta
E-book597 pagine8 ore

Il canto della vendetta

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Info su questo ebook

L'epico, conclusivo capitolo della saga Il Giglio e il Grifone

Giovanni Melappioni ha talento: le pagine dei suoi romanzi storici sono pura adrenalina. Leggetelo! Me ne sarete grati – Matteo Strukul

Lontani dalle loro vite passate, Guibert, Bertram e Reinar ricostruiscono faticosamente un futuro ma niente può spegnere il bisogno di vendicarsi di chi ha distrutto il loro vecchio mondo, lo spietato cavaliere normanno Hugh di Le Puiset.
Attraversando l'Europa dalla Francia alla Spagna dei Mori fino a un viaggio attraverso il Mediterraneo che li condurrà in Grecia a combattere su opposti fronti la guerra di Boemondo di Taranto contro l'imperatore bizantino Alexio Comneno, e incrociando le strade di Godfroy di Saint-Omer, iniziatore dei Templari, dovranno arrivare a tradire tutto ciò in cui credono per raggiungere la vittoria più grande.
Assedi sanguinosi e grandi battaglie, atti di viltà e coraggio scandiscono il capitolo finale del più realistico affresco sul Medioevo mai scritto, con personaggi intensi, unici e fascinosi. Una grande chanson de geste moderna.

I personaggi di Melappioni sono vividi e reali, complessi e contraddittori, e si discostano dagli stereotipi. Cura e precisione nei dettagli ricostruiscono magistralmente l’epoca – Mangialibri
LinguaItaliano
Data di uscita17 dic 2018
ISBN9788829577224
Il canto della vendetta

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    Anteprima del libro

    Il canto della vendetta - Giovanni Melappioni

    Giovanni Melappioni

    Il canto della vendetta

    UUID: 00b699f6-0217-11e9-8e64-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Indice dei nomi

    Il canto della vendetta

    LIBRO PRIMO

    Guibert

    Bertram

    Reinar

    Guibert

    Bertram

    Reinar

    Hugh

    Guibert

    Bertram

    Reinar

    Guibert

    Bertram

    Reinar

    Hugh

    LIBRO SECONDO

    Guibert

    Reinar

    Guibert

    Bertram

    Reinar

    Bertram

    Guibert

    Bertram

    Reinar

    Guibert

    Aalis

    Reinar

    Guibert

    Bertram

    Reinar

    Guibert

    Aalis

    Reinar

    Guibert

    Bertram

    Reinar

    Guibert e Bertram

    Guibert, Bertram e Reinar

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Gli altri titoli di Giovanni Melappioni

    Il canto della vendetta © Giovanni Melappioni 2018

    Editing, impaginazione ed ebook realizzati da Scriptorama Agenzia Letteraria

    Grafica di copertina: Scriptorama Agenzia Letteraria

    www.scriptorama.it

    Indice dei nomi

    Aelfgar – anziano guerriero anglosassone sopravvissuto alla battaglia di Hastings

    Amaury – cavaliere di Bohemund di Taranto, comandante dei foraggiatori

    Ardeluf – guardiano del magazzino delle sementi, parte della schiera di Guibert, perde la vita in TdD

    Bertram – secondogenito di Stephane de Lonbranch

    Bohemond – Principe normanno, signore di Antiochia e dell’Apulia. Uno dei comandanti della Prima Crociata. Animato da grandissima ambizione, brama di conquistare Costantinopoli

    Bulcsu – guerriero di stirpe ungra, sodale di Guibert

    Camill – notaio al seguito dei foraggiatori di Langral

    Dimitar – mezzosangue bulgaro, esperto pilota navale al servizio di Hugh di Le Puiset

    Ethion – figlio dello stalliere di Ademar, migliore amico di Guibert

    Fabienne – serva personale di Ildegaris, nipote di Garda e amante di Ethion

    Fernàn – prete in esilio a capo di una banda di reietti

    Godfroy de Saint-Omer – Cavaliere fiammingo, co-fondatore, insieme a Hugues de Payns dell'Ordine dei Cavalieri Templari

    Guibert – figlio illegittimo di Ademar il Leone, divenuto cavaliere con il nome di Guibert il Grifone

    Guy de Hauteville – fratellastro di Bohemond di Taranto

    Hilo – giovane condannato per omicidio, uomo di Fernàn

    Hugh di Le Puiset – signore castellano. Ha ucciso Ademar e provocato la morte di Michel e del padre di Bertram. Vassallo di Bohemond

    Inigo Jimenez – Cristiano di Spagna convertito all’islam

    Ivèr – contadino dell’età di Reinar, uomo di Fernàn

    Ivèreris – figlio di Ivèr, anch’egli nella masnada di Fernàn

    Juno de Polcari – cittadino e cavaliere di Ancona, diverrà il braccio destro di Guibert durante l’assedio di Scutari

    Langral – cavaliere del seguito di Amaury

    Ludeca – servitrice di Amaury, guida e sostegno di Aalis dalla scomparsa di Bertram

    Maërys – amante di Langral

    Maria Pilar – figlia di Ordoño , nipote di Fernàn

    Ordoño – fratello di Fernàn e padre di Maria Pilar

    Pedron – capitano della nave di Fernàn , suo unico figlio

    Pykridios Murzolof – dignitario bizantino

    Rahaba – protettrice delle meretrici al seguito dell’armata di Bohemond

    Reinar – primo cavaliere di Ballian, vero padre del figlio di quest’ultimo, Michel

    Rodrigo Jimenes – ricco possidente di Ceuta, in Africa, e fratello di Inigo

    Rohese – di lei non si conosce nulla tranne che è la madre di Guibert

    Romir – figlio del panettiere del castello di Ademar, ora parte della schiera di Guibert

    Sorsiera – mammana al servizio di Fernàn

    Tarjik Arkan – comandante di stirpe pecenega, guida un manipolo di arcieri a cavallo sotto il comando di Guibert

    [NdA] Il personaggio di Juno de Polcari è stato ispirato dall'amico nonché admin della pagina Facebook Feudalesimo (https://www.facebook.com/Feudalesimo/), Davide Polcari.

    Il canto della vendetta

    di Giovanni Melappioni

    LIBRO PRIMO

    Guibert

    «Il giorno seguente anche altri villaggi della regione vennero colpiti dalla pioggia di fuoco. Qualcuno ci lasciò la pelle, bruciando all’interno della baracca o schiantato sul posto in cui l’ira del Signore l’aveva trovato.» Romir gesticolò per dare forza al racconto.

    «Non ne avevo mai sentito parlare.»

    «Sono balle, Guibert.» Ethion fece un gesto stizzito con la mano.

    «È tutto vero. Io ho conosciuto gente che viveva là.»

    «Smettila. Sono anni che racconti scempiaggini degne di un giocoliere dalla mente tocca.»

    «Le tue parole sono arroganti quanto la tua presunzione, Ethion. Io…»

    «Tu cosa?»

    Guibert diede un colpo di speroni e si inserì fra i due. I cavalli sbruffarono innervositi.

    «Che vi prende?»

    «Non fa che ingiuriarmi» protestò Romir. Da giorni i rapporti fra i due si erano fatti tesi ma Guibert non vi aveva dato peso. Altri, e ben più gravi pensieri occupavano la sua mente.

    «Perché dobbiamo sopportare i tuoi vaneggiamenti?»

    «È stato Guibert a chiedermi una storia. Questa conoscevo.»

    Ethion sputò a terra, in direzione di Romir.

    «Basta, Ethion. Basta così.» L’amico trattenne una risposta irosa e piegò il capo.

    «Incomincio a stancarmi del suo atteggiamento. È da quando abbiamo lasciato Esme che…»

    «No, Romir» lo interruppe Ethion, «non è dalla nostra partenza che qualcosa si è spezzato.»

    «Che vuoi dire?»

    «Ciò che ho detto.»

    «Ho chiesto perdono, e Guibert me lo ha concesso. Però tu serbi ancora rancore.»

    «Come potrebbe essere altrimenti? Ci hai minacciato con la spada» rincarò Ethion.

    «Ero disperato, non avrei colpito nessuno!»

    «Ne dubito» sbottò Ethion distogliendo lo sguardo.

    «Tu mi ami ancora, Guibert, come tuo compagno?»

    Guibert non rispose, lasciò che la domanda morisse nell’aria calda che li circondava. Aveva solo risposte a metà nella testa, per qualsiasi cosa. Raggiunse Ethion, lasciando Romir a rimuginare. Cavalcarono così per qualche altro miglio, in silenzio. Il percorso passava attraverso campi incolti ma che conservavano le tracce di antiche colture. Luoghi abbandonati da innumerevoli anni e mai più reclamati dagli attrezzi degli umili. Bulcsu era rimasto indietro e Guibert decise che lo avrebbero atteso presso una baracca quasi invisibile sotto i rampicanti che l’avevano inglobata.

    «Non riusciremo a liberarla per entrarvi» commentò Ethion quando Guibert comunicò che si sarebbero accampati lì.

    «Poco importa, staremo fuori. Voglio solo mangiare qualcosa.»

    «Quanto manca?»

    «Non molto.» Scese da cavallo, con un sospiro esausto. Ethion non insistette e si allontanò con le cavalcature per impastoiarle. Romir, con il volto ombrato di malumore, si adoperò per accendere un fuoco.

    Guibert li osservò, preoccupato. Era come se un’ombra fosse scesa su di loro. Un’ombra, o lo spirito di Ardeluf. Rabbrividì a quel pensiero. Sentì lo stomaco torcersi per il malessere che si era diffuso nel gruppo. Appoggiò la schiena alla parete della fattoria abbandonata e chiuse gli occhi, augurandosi che non vi fosse una forza ultraterrena dietro quei problemi. Ardeluf non poteva odiarli: era stato loro amico, se ne era andato dal mondo per colpa di altri. Il suo vero timore riguardava Aalis e la promessa che aveva fatto al Cielo. Era stato tentato da Fabienne, quando si era concessa a tutti loro nascosti nei boschi, e aveva sentito parlare a sufficienza di borghi e città fortificate per sapere che tentazioni ancora più forti lo attendevano laggiù. Non avrebbe resistito, ne era certo, e dunque lo sapevano anche tutti coloro ai quali aveva chiesto di intercedere per lui e Aalis. Sua madre e la Madre Santissima potevano benissimo aver deciso di abbandonarlo al suo destino. Inoltre, quando era convinto di poter succedere a suo padre alla guida delle terre usurpate, aveva perfino rinnegato la cerca della giovane.

    L’arrivo di Bulcsu interruppe i suoi foschi pensieri. L’Ungro era costretto a un passo molto più lento del loro per via dei cavalli di riserva che conduceva, carichi della maggior parte del loro equipaggiamento.

    «Salute, Ungro. Mangeremo qui.»

    «Potrei anche mangiare a cavallo, tanta è la fame. Ma immagino che Romir saprà ripagarci della sosta con qualcuna delle sue ricette.»

    Il ragazzo non rispose e si limitò ad armeggiare con l’acciarino.

    «Stufato di lombrichi?» chiese ridacchiando.

    «No. Pesce secco.» La risposta secca di Romir fece scrollare le spalle dell’Ungro, il quale considerò chiusa la conversazione lanciando un’occhiata a Guibert. Intuì che qualcosa non andava ma non aveva mai messo bocca nelle questioni dei ragazzi.

    Mangiarono passandosi il vino dall’unico otre rimasto. Avevano anche poca acqua, perché l’unico pozzo che avevano trovato era melmoso e ristagnante. Perfino i cavalli si erano abbeverati controvoglia in quella putredine.

    Bulcsu, all’improvviso, tese il collo. Fece un cenno con la mano per avere l’attenzione degli altri.

    «C’è qualcosa.»

    «Cosa?» gli domandò Guibert. Poi, con gli occhi chiusi a due fessure, si rese conto anche lui di uno strano suono, lontano, quasi impercettibile, che non aveva niente a che fare con la natura che li circondava. «Lo sento anche io.»

    «Viene da quella parte» disse Bulcsu e Guibert concordò. Ethion e Romir li guardavano senza capire.

    «Si avvicina» continuò Guibert. «Ma cos’è?»

    Bulcsu scosse il capo, indeciso.

    «Oh. Ma è un canto.» Ethion si era alzato e ora anche lui aveva colto quella vibrazione nell’aria. «Una processione o qualcosa di simile, ma non mi sembra di ricordare in questa giornata qualche festa particolare. Sarà qualche cosa legata a questo territorio.»

    «Allora ci siamo. Di sicuro proviene dall’abazia che domina su Soliacensis.»

    «Non è detto, Romir. Può essere chiunque.» Guibert si alzò e raggiunse Ethion, il quale cercava di scorgere qualcosa fra la fitta vegetazione.

    «Non è bene ignorare del tutto questo evento» disse Bulcsu afferrando le sue cose.

    «Concordo. Vale la pena di controllare. Inoltre, sono settimane che non ascoltiamo messa e che preghiamo come capre. Ci farà bene ricevere una benedizione come si deve.»

    «Stento a riconoscerti, Guibert» disse Ethion. «Sei lo stesso che per una sottana di monaca ha saltato la funzione della Resurrezione due mesi fa?»

    Guibert lo fissò, serio. Ethion storse la bocca in un sorriso mal riuscito. «Tu sei lo stesso, Ethion?»

    L’amico abbassò il capo.

    «Nessuno di noi lo è più. Abbiamo ucciso» disse Romir.

    «Sì, è vero. Abbiamo ucciso. Continuo a ripetermi che erano nostri nemici ma allora anche il Cristo avrebbe dovuto uccidere i suoi nemici. Forse avremmo dovuto finire martiri, lasciare che gli empi trionfassero in terra e goderci il Regno dei Cieli. O qualcosa del genere.» Si meravigliò di sé stesso, di quella consapevolezza che non sapeva nemmeno di aver maturato. Ethion lo guardò come se fosse divenuto all’improvviso qualcun altro. Guibert lo ignorò. Si sentiva svuotato, aveva solo voglia di smettere di lottare, adagiarsi e attendere la fine. Non gli sembrava così terribile, al confronto con la spossatezza che lo attanagliava.

    Si rimisero in marcia, affrontando a piedi il tratto più intricato del bosco, corollario dell’appezzamento abbandonato. Giunti in un avvallamento montarono in sella dirigendosi verso meridione, nella direzione da cui si levava il canto. Cavalcavano fianco a fianco, perché nessuno conosceva la strada e temevano di separarsi. Le voci si facevano più acute ma ancora rimanevano invisibili i cantori.

    «Come è possibile che non riusciamo a trovarli?» domandò Ethion. La preoccupazione nella sua voce esprimeva il disagio di tutti. Le foreste nascondevano pericoli ancestrali, divinità mai del tutto soppiantate dall’Annunciazione del Cristo risorto. Guibert conosceva racconti e dicerie di carbonai e boscaioli. Erano esperienze terrificanti come sfiorare il dorso di un toro dormiente , gli aveva detto in maniera molto evocativa uno di quegli uomini silvani. A volte il toro si risvegliava e gli sprovveduti che l’avevano disturbato sparivano per sempre.

    «Non lo so. Eppure li sentiamo tutti, no?» insisté.

    «Guibert, forse faremmo meglio a fuggire via» disse Romir. Guibert cercò il consenso di Bulcsu e gli parve di vederlo annuire appena, con gli occhi fermi come quando incoccava le frecce nel suo arco.

    «Attendiamo ancora qualche istante, Grifone» disse l’Ungro. Fissava il versante scosceso di una collina dalla sommità spoglia. Somigliava al dorso poderoso di un mulo, con un avvallamento al centro fra le due gobbe che ne costituivano la cima.

    All’improvviso un movimento, dal fianco della sporgenza destra, attirò l’attenzione di tutti. L’Ungro emise un sibilo. Una fila di figure in abiti candidi comparve in lenta marcia; si muovevano a un passo cadenzato dalla nenia che ora si faceva più distinta. Alcuni, dal fondo della lunga sequela umana, battevano dei bastoni su qualcosa di simile a dei tamburi ma il suono che emettevano era ligneo, sordo. Seguivano una croce alta e sottile, retta da una delle figure di testa, dalla quale pendevano stracci colorati. Sembrava che qualcuno avesse fatto a strisce la tappezzeria di qualche nobile casa e l’avesse gettata sopra le braccia distese del Cristo.

    «Penitenti» mormorò Ethion.

    «Ecco perché non li trovavamo e le loro voci si facevano a tratti eteree e poi di nuovo ben udibili. Stanno compiendo un percorso circolare.» Guibert continuò a guardarli con intensità. Era impossibile distinguere gli uomini dalle donne, in quella massa, ma i bambini erano ben visibili: quasi nudi, venivano sospinti dagli adulti lungo la marcia. «Andiamo via. Cercavo una messa, non questo.»

    Una volta aveva sentito Ildegaris lamentarsi di un gruppo di vagabondi invasati che aveva varcato i confini delle terre di Ademar cantando inni al Signore e saccheggiando le fattorie più isolate per procacciarsi il cibo. Lui li aveva veduti dall’alto della torre del padre e aveva provato lo stesso fastidio. Forse era l’unica cosa che li aveva mai visti concordi. Sputò a terra, al ricordo della donna che l’aveva reso un bandito.

    «Andiamo.»

    «Chi sono?» domandò Romir.

    «Non ne ho idea.»

    «Abitanti del luogo, c’erano bambini e donne in quel gregge» gli rispose Bulcsu.

    Superarono un ultimo tratto boschivo ed entrarono in una zona ampiamente sfruttata a livello agricolo: campi dissodati delimitati da ceppi di alberi tagliati di recente e che attendevano l’arrivo delle piogge per poter essere rimossi con maggiore facilità dalla terra nella quale si erano sviluppati per secoli. Fu come varcare un portale fra la natura e la civiltà. Alcune baracche segnavano i perimetri di future abitazioni, in quell’area di recente sottratta alla selva. Alcuni cani si allontanarono uggiolando quando i cavalieri si avvicinarono. Si muovevano in branco e sembravano inselvatichiti da mesi di vita allo stato brado. I più grossi ringhiarono prima di seguire gli altri in mezzo ai cespugli, lontano dagli intrusi.

    «Ehilà!» gridò Guibert.

    Non si vedeva nessuno in giro, e nessuno rispose ai suoi richiami. Ispezionarono alla meglio i dintorni: non si trattava dello scenario di una fuga precipitosa. I luoghi apparivano abbandonati con un certo metodo: alcuni usci erano sbarrati con tavole di legno, i fuochi erano spenti. Non c’era segno di lotta o incendi. Animali da cortile sbranati giacevano qua e là. Una gallina nera con la zampa storta, un’oca con il collo spelato. Alcune anatre, vicino a una pozza d’acqua quasi secca. I tetti e i rami degli alberi da frutto erano popolati di numerosi uccelli, fra cui parecchi colombi di specie addomesticate.

    «Guardate!» disse Ethion indicando alcune croci di legno. Ancora oltre, nascoste dall’ombra delle fronde, decine di altre insegne mortuali attendevano di essere infisse.

    Avvicinandosi ulteriormente notarono che una vasta porzione del campo era stata trasformata in una fossa comune. Sul fondo cinque cadaveri avvolti in sudari rabberciati alla meglio attendevano i colpi di pala che li avrebbe consegnati all’abbraccio della terra.

    «Insana aria circonda questo luogo, e forse anche la follia, visto che i suoi abitanti hanno perfino smesso di seppellire i propri morti» commentò Guibert.

    «Forse sono tutti morti. Non c’è rimasto nessuno per finire l’opera.»

    «Non credo, Romir. Qualcuno di vivo l’abbiamo visto» gli rispose Bulcsu. «Non possiamo trattenerci a lungo qui, il male ci entrerà nei pori della pelle, nel naso e nella bocca. Dobbiamo andarcene.»

    «Sì. Dobbiamo andarcene ma prima richiuderemo questa fossa» decretò Guibert.

    Ethion, appoggiando una mano sul braccio dell’amico, implorò con lo sguardo di ripensarci.

    «Ho paura anche io. Ma non possiamo lasciare questi corpi alle belve.»

    «Corriamo un terribile pericolo, giovane Grifone» provò Bulcsu.

    «Ogni istante costituisce un pericolo, dato che hai deciso di rimanere al mio fianco. E così anche voi: vi avevo avvisati. Forse è opera mia tutto questo, Iddio mi punirà lanciando i suoi supplizi lungo il nostro percorso. Facendoci precedere dalle sue piaghe.» Sospirò, sfinito dall’arrovellarsi del cervello su quell’argomento. «Posso comprendere la sua collera e cercherò di porvi rimedio chiedendo il suo perdono. Con le preghiere e con i gesti.»

    Scese da cavallo e afferrò uno dei badili di legno piantati a terra ai margini della tomba. Cominciò a gettare palate nella fossa, con gesti resi rapidi dal fetore insopportabile dei corpi. Ethion smontò da cavallo per aiutarlo.

    «Vediamo di sbrigarci» commentò piano Romir, mettendosi anche lui all’opera.

    Bulcsu, rimasto senza un valido attrezzo, ritornò verso i cavalli per prendere un elmo da usare come strumento di fortuna, quando qualcosa attirò la sua attenzione. Rapido come un gatto si gettò verso la macchia boschiva.

    «C’è qualcuno!» gridò prima di svanire nell’intrico verde.

    «Svelti, le armi» ordinò Guibert. Lasciarono le pale e corsero a prendere gli scudi. Non c’era tempo per vestire le armature; Ethion si infilò il cappuccio imbottito e Romir porse a Guibert il proprio elmo, preso al volo mentre si chiudevano scudo contro scudo in attesa di un segno dell’Ungro.

    «Da questa parte» li guidò la voce di Bulcsu. Guibert e gli altri allargarono il varco che l’Ungro aveva aperto e lo videro trattenere per un piede un uomo, quasi completamente avvolto nei rovi dove aveva provato a infilarsi. Si divincolava e mugolava per il dolore.

    «Chi sei?» gli domandò Guibert.

    «Pietà, pietà mio signore, pietà» piagnucolò lo sconosciuto.

    Bulcsu lo strattonò un poco ma l’intreccio era così fitto che non ottenne che un grido strozzato. Guibert intanto si era sporto per cercare di vedere meglio. Notò l’abito, composto di due tuniche sovrapposte, e la cintura di corda. La veste sottostante, bianca, era sporca e lisa. Quella sopra era marrone scuro.

    «Sei un prete?»

    «Sì, mio signore, sì. Non mi fate del male, per pietà.»

    «Non te ne faremo. Cosa ci facevi qui nascosto?»

    «Liberatemi, per favore.»

    Ethion si unì a Bulcsu nel tentativo di allargare l’intreccio di spini che sembravano dotati di vita propria. Romir con il coltello recise alla base i rami più grandi, e quando vi fu sufficiente spazio, Guibert afferrò il bavero del cappuccio del prete e lo aiutò a sedersi. Rotolando goffamente su sé stesso, l’anziano chierico riuscì infine a liberarsi dalla trappola vegetale e, quasi sollevato di peso dai ragazzi, si rialzò.

    «Grazie, mio signore.»

    «Ho salvato un amico o una spia?» domandò Guibert.

    «Per carità, un amico. Sono un amico e un uomo di Chiesa.» L’uomo gli ricordava in un certo senso l’abate Gaudulf, nel fisico magro e macilento, ma non certo per la tempra. Tremava come una foglia e aveva gli occhi spiritati.

    «E dunque?»

    «Ero qui quando siete sbucati fuori, stavo terminando di seppellire gli ultimi. Mi sono nascosto temendo che foste saccheggiatori, ma poi ho visto che stavate richiudendo la dimora eterna dei miei compaesani. Sono rimasto sorpreso dal vostro gesto. Stavo tornando indietro quando sono caduto nei rovi e prima che potessi dire qualcosa quest’uomo dall’aspetto… particolare si è gettato su di me come un lupo.»

    «Nessun animale avrebbe fatto tanto rumore» disse Bulcsu.

    «Cosa è accaduto qui?» Guibert gli porse la vescica dell’acqua e quando Ethion gli bisbigliò che ne occorreva al più presto dell’altra, aggiunse: «Abbiamo anche bisogno di acqua, cibo e sapere la direzione per la fiera di Soliacensis. Ti pagheremo per tutto questo.»

    Il prete sospirò e un’espressione di assoluto dolore si stampò sul suo volto. Calde lacrime, gonfie come gocce di pioggia d’autunno, gli rigarono il volto e disegnarono irregolari forme sulla veste sacrale.

    «Non c’è più nulla. Da qui a chissà quante leghe. Il morbo ci ha colti prima di Pasqua e in meno di tre mesi ha ucciso quasi tutti. Soliacensis è un luogo di morte dove non dovreste andare, miei signori. Guardate questo posto, quanta vita vi era: case nuove, campi arati. La selva dominata!» Un singhiozzo lo bloccò, per un istante parve soffocare ma poi, con un graffiante sospiro, riprese fiato. «Io ero il pastore di questi rustici. Sono morti tutti. Tutti!»

    «Tranne te.»

    «Sì, il Signore deve aver pensato che qualcuno sarebbe dovuto rimanere per badare ai corpi. Ma perché proprio io?» Si piegò sulle ginocchia e Guibert lo afferrò d’istinto. Lo sorresse mentre il dolore per quanto aveva testimoniato defluiva via in un pianto salvifico.

    «Che genere di morbo ha afflitto la tua gente?» domandò Romir quando l’anziano tornò ad alzarsi.

    «L’aria viziata gonfiava il petto degli ammalati e trasformava in sangue il respiro. Morivano così, tossendo grumi di carne finché il torace non si svuotava come una vescica spremuta. Non c’era alcuna speranza di salvarli, tranne pregare. La preghiera ci avrebbe salvato, ma l’animo umano è discorde anche nella tragedia. Mentre l’abate di Soliacensis chiamava tutti a raccolta, il popolo si affidò a un predicatore e i sopravvissuti vagano ignudi e penitenti per le colline. Divenire animali selvatici non li proteggerà.»

    «Abbiamo visto una folla in processione, qualche lega più a nord» disse Guibert.

    «Sono loro. Chi non muore di malattia, muore di fame. Ma forse anche questo è disegno di Dio.»

    «Dunque la fiera?»

    «Come potrebbe esserci una fiera, nella terra della Morte? Non c’è più nessuno laggiù.» Indicò con un gesto vago della mano alle sue spalle.

    «Quanto dista il paese?»

    «Un’ora, con i vostri cavalli. Ma è da lì che tutto ha avuto inizio, non andate.»

    «Cerco un uomo, un cavaliere. Godfroy de Saint-Omer. Lo conosci?»

    Il prete scosse la testa. «Eravamo così sicuri di poter dare vita a un bel villaggio, qui» disse con lo sguardo perduto nei suoi ricordi. «Eravamo così certi di farcela.»

    «Cosa farai, ora?» gli domandò Guibert.

    «Perché? Perché non abbiamo pensato che tutto quanto è destinato a perire in questo mondo? Pochi giorni fa ero convinto di avere tutto ciò di cui avevo bisogno: amici, fedeli, una piccola chiesa in costruzione.»

    «Ascolta. Noi dobbiamo andare, vuoi venire con noi?»

    «Quanto è forte quel noi, cavaliere? Basta un colpo di tosse a farti ritrovare da solo. Pensaci.»

    «Guibert, andiamo. Non credo che ci porterà nulla insistere con lui» disse Bulcsu.

    «Ma non possiamo lasciarlo qui.»

    «Credo che abbia vissuto abbastanza per decidere da solo come continuare.» L’Ungro sembrava spesso voler dire più di quanto in realtà proferisse. Guibert si domandò quand’è che avrebbe iniziato a cogliere le sfumature nascoste dei suoi insegnamenti.

    «Ethion, portami la vescia d’acqua, quella ancora piena, e anche l’ultima pagnotta.»

    «Non avremo più nulla, poi» disse Ethion con rassegnazione più che protesta.

    Guibert porse all’anziano quegli scarsi viveri.

    «Oh» esclamò lui, con gli occhi che tornavano a farsi lucidi. «Mio signore. Mio signore gentilissimo, sei il più nobile degli uomini che abbia mai incontrato.»

    «Mi chiamo Guibert il Grifone. E loro sono i miei compagni.» Elencò i nomi degli altri. «Riesci a tenerli a mente? Voglio che tu dica messa per noi, che preghi per le nostre anime. Che giorno è oggi?»

    «Il giorno prima della festa del santissimo Claud di Condat. Domani si sarebbe conclusa la fiera del paese.»

    «Bene. Allora prega Claud di vegliare su di noi.» Lo baciò sulle guance e fece cenno agli altri di salire a cavallo. «Addio, buon prete. Ora indicami la strada per Soliacensis.»

    «Seguite quel sentiero, diverrà presto più largo. Non potrete sbagliare. Addio miei signori.»

    Cavalcarono lungo la strada indicata, che ben presto si immise in un tracciato ampio e ben delineato, a ridosso del grande fiume dai placidi argini. Raggiunta la strada galopparono finché non intravidero, dietro una curva, i primi recinti e gli steccati di un insediamento di notevoli dimensioni. Capanne di paglia si alternavano a costruzioni di legno più solide, chiuse all’interno di una palizzata munita di torrette. Il portale era spalancato e forte era il contrasto fra l’aspetto curato e florido degli edifici con il putridume lungo la strada. Numerose le carcasse di animali. Un cavallo legato a un palo da un padrone mai più ritornato era stato divorato dalle belve. Dal corpo sventrato affioravano le ossa ormai spolpate, la pelle dilaniata da centinaia di piccoli morsi era ridotta a brandelli neri come carbone. L’intera carcassa appariva avvolta in un nugolo di mosche così numerose che il ronzio penetrava nelle orecchie con fastidiosa prepotenza. Era l’unico suono che riuscissero a percepire, l’intero abitato sembrava deserto.

    «Se ne sono andati tutti?» domandò stupito Romir.

    «A giudicare da quella fossa, non dovevano essere poi molti quelli che ne sono usciti.» Ethion indicò un cumulo di terra fresca, alto poco meno di un uomo adulto. Un tumulo creato quando lo spazio nel cimitero doveva essere venuto meno.

    «Ho paura che tu abbia ragione.»

    «Sì, amico mio. Non credo che qualcuno potrà mai tornare da queste parti.» Detto questo, Ethion spronò il cavallo e si allontanò da Romir, lasciando in sospeso la questione.

    «Il vostro sconcerto è comprensibile, ma vedrete che tempo una stagione e nuova gente popolerà queste case. Iddio monda la terra. I tralci lasciano spazio ai virgulti e il mondo prosegue. Avreste dovuto vedere la peste in una vera città, cosa è in grado di lasciare a chi le sopravvive: sembra un’età dell’oro.»

    «Bulcsu, io non ho mai veduto un simile spettacolo» disse Guibert.

    «C’era una città che si chiamava Adrianopolis, la città di Adriano. La sua popolazione fu spazzata via da un male subdolo che uccise chi poteva lavorare e costrinse i sopravvissuti a mangiarne i corpi putrefatti dissotterrandoli dalle tombe. Così che chi non si era ammalato prima contrasse lo stesso il male. In breve, non vi rimase una sola anima viva.»

    «Terrificante.»

    «Sì. Girai per due giorni dentro le mura senza incontrare nessuno. Quando ci ritornai, quindici anni dopo, nuova gente aveva reclamato gli spazi abbandonati di quella città donandole nuova vita. I mercati si erano moltiplicati e così le opportunità.»

    «La paura però resta» disse Guibert.

    «È così. L’ombra della malattia incombe sugli uomini e conosco un solo lenitivo: l’amicizia sincera e la purezza d’intenti. E chi ne ha farebbe bene a non sprecarne neanche una stilla, perché sono sentimenti saldi ai quali aggrapparsi nella tempesta.»

    «Gli amici non sono immuni ai malanni» protestò Ethion.

    «Il loro ricordo e il pensiero che rivolgiamo loro in cerca di conforto sì. Sei un uomo fortunato, Ethion. E lo sono i tuoi amici, al pari.»

    Guibert vide i due compagni guardarsi dopo quelle parole. Si augurò che i dissapori svanissero perché era necessario rimanere uniti. Romir ed Ethion si scambiarono un cenno d’intesa, fugace ma significativo, e Guibert si sentì pervaso da un’intensa sensazione di benessere che, come aveva predetto Bulcsu, riuscì ad attenuare l’orrore che lo circondava. Con rinnovato coraggio tornò a guardarsi intorno, individuando la via per la chiesa, della quale scorgeva la torre campanaria.

    «Da quella parte» disse imboccando la stradicciola di terra.

    Dei piedi spuntavano da un cespuglio, quando furono più vicini videro il corpo di una donna piegata su un involto di stoffa. Si trattava di una madre con il proprio bambino, morti e lì rimasti in quell’abbraccio finale. Dei lugubri rintocchi di campana li fecero voltare verso la torre della chiesa, ma non era da lì che giungeva il suono. Era distante, e arrivava loro su un vento leggero e persistente, e la diceva lunga sulla portata di quell’epidemia.

    La sensazione di desolazione che li aveva accompagnati nell’ultimo giorno di viaggio era così spiegata, si disse Guibert.

    Ripresero la stradicciola e infine sbucarono in una stretta piazza dai lati irregolari circondata dalle case di quelli che dovevano essere stati i notabili del luogo, in legno e con tegole di corteccia. Alcune abitazioni erano serrate con metodo, gli abitanti dovevano averle abbandonate quando la consapevolezza del morbo era divenuta triste realtà. La cura con cui avevano sbarrato gli accessi indicava la speranza di un ritorno. La chiesa, sul lato opposto, era costruita in pietra per circa tre quarti della sua altezza, il resto era di robusto legno. La torre, stretta e priva di aperture tranne in cima, ricordava una costruzione militare di antica memoria e forse tale era, prima dell’espandersi del borgo e della trasformazione dell’edificio. Aveva un aspetto venerabile ma non decrepito, induceva a provare rispetto per i costruttori. Blocchi di pietra precisi, dal taglio regolare e di notevole dimensione ne costituivano la base. Nel complesso il resto della chiesa non sembrava che una povera casupola al confronto con la torre.

    «Che meraviglia!» esclamò Romir.

    «Mai vista una torre così» ammise Ethion slacciandosi l’elmo come per meglio ammirarla.

    «I Greci e gli Arabi d’Egitto sanno ancora costruire in questo modo, ma questa è opera dei Romani di Cesare.»

    «I Romani hanno lasciato quasi ovunque rovine, nelle mie terre, Bulcsu. È la prima volta che ammiro un’opera sopravvissuta ai secoli» disse Guibert avvicinando il cavallo alla struttura per toccarla.

    «Credo anch’io che sia così. Nessuno ha modificato la torre, la campana è stata fatta passare dall’esterno.»

    «Un bel lavoro anche quello» commentò Romir. «Non deve essere stato semplice issarla.»

    «Non fu semplice ma ci riuscirono. Perché fu fatto nella grazia del Signore e per sua eterna gloria» disse una voce sconosciuta alle loro spalle.

    Si voltarono di scatto. Ethion sguainò la spada e si spinse vicino a Guibert. La voce proveniva da una casupola costruita contro l’alta parete di una delle abitazioni più massicce. Un piccolo tugurio usato forse come deposito per attrezzi o ricovero notturno per animali da cortile. L’uomo che si affacciò alla porticina era in armatura, con una sopravveste grigia sulla quale erano ricamate delle croci in oro. I capelli biondi erano lunghi, sciolti sulle spalle, e alcuni fili di paglia erano rimasti intrecciati alle ciocche. Aveva una pesante cintura da combattimento ai fianchi ma nessun fodero per la spada, era armato di un’ascia dal corto manico e di un pugnale.

    «Chi siete?» gli domandò Ethion.

    «Carne e ossa di penitente, spirito di guerriero.»

    «Vi ho chiesto il nome!» insistette Ethion.

    «Non lo dirò, non sei certo tu a comandare questo conroi.» Li squadrò con attenzione, alzando un sopracciglio nel notare la fisionomia straniera di Bulcsu. «Non lo è nemmeno il magiaro, se è per questo.» Sorrise.

    «Sono io a guidare questi uomini» tagliò corto Guibert.

    «Vi hanno armato ma non vi hanno insegnato poi molto sull’etichetta.»

    «Potrei rivolgervi le stesse accuse, dal momento che avete parlato prima di presentarvi.»

    «Sono d’accordo, e vi porrò rimedio. Il mio nome è Godfroy, vengo dal borgo fortificato di Santo Audomaro, che forse voi conoscete con il nome di Omer.»

    «Godfroy de Saint-Omer, dunque.» Guibert annuì.

    «Con chi ho l’onore di parlare, dopo così tanti giorni passati nel silenzio di questo mio rifugio?»

    «Mi chiamo Guibert e son detto il Grifone.»

    «Un animale nobile dalla doppia anima. Così sei tu, Guibert?»

    «Ho una sola anima, ma ho già avuto due vite. Credo sia per questo che sono stato chiamato così.»

    «E da chi, se mi è concesso domandare?»

    Intuendo cosa Godfroy voleva sentirsi dire, Guibert sorrise, gonfiò il petto e raccontò della sua ordinazione a cavaliere.

    «Albier il Furioso e Luis di Sangerard sono nomi che mi sfuggono, le loro gesta non sono mai state raccontate in mia presenza. Ma conosco Higounet, o forse dovrei dire conoscevo.»

    «La sua sorte mi è ignota.»

    «Allora forse avrò modo di incontrarlo di nuovo.» Il tono di Godfroy non offrì alcun indizio sui suoi sentimenti verso il mercenario brabantino.

    «Rimane comunque un mio nemico» ci tenne a specificare Guibert. Godfroy si limitò ad annuire pensoso. «Ma non parliamo di persone non presenti. Io vi stavo cercando.»

    «Lo sospettavo. Sto attendendo qualcuno e ho immaginato foste voi quando ho sentito che avete lo stesso modo di parlare di Esme il Mangiaferro. Inoltre, chi mai verrebbe senza un valido motivo a curiosare in questa desolazione?» sorrise di nuovo, mostrando una fila di denti grandi e distanziati. Aveva una bocca ben modellata, zigomi forti e larghi. La fronte, in perenne corruccio, lasciava intuire ricordi e pensieri più foschi di quanti me tradissero gli occhi.

    Guibert fece cenno ai suoi e smontarono da cavallo. «Potremmo metterci comodi» propose.

    «L’aria qui è ancora mefitica, e sarà sempre peggio. Il mio campo non è molto distante.»

    Lo seguirono fuori dall’abitato e poi attraverso uno stretto sentiero che aveva tutta l’apparenza di essere stato tracciato di recente dal passaggio di Godfroy: l’erba era alta ai lati e quella calpestata era per buona parte ancora verde alle estremità. Una coperta pesante e un cerchio di pietre costituivano il bivacco dell’uomo. Non aveva un cavallo, né uno scudo.

    «Questo luogo è stata la mia casa per tutto il tempo della piaga. C’ero quando i primi morti venivano portati fuori e ancora si credeva di poter controllare la mala aria. C’ero anche quando i sopravvissuti si sono riuniti in schiera e hanno abbandonato da penitenti le proprie case.»

    «Perché non siete fuggito via?» gli domandò Romir, ricevendo un’occhiata gelida da Godfroy.

    «Trovo alquanto strano che chiunque del tuo seguito possa esprimersi come e quando crede.» Si rivolse a Guibert con un’espressione dura e inflessibile che ricordò Ildegaris.

    «Con tutto il rispetto, ciò che per altri può sembrar strano per me è norma. E tale rimarrà finché questi saranno gli uomini del Grifone.» Guibert sentì le tempie pulsare per le parole che aveva appena pronunciato. Bulcsu, di solito inespressivo, annuì con energia e per un istante increspò le labbra in uno dei suoi rarissimi sorrisi d’approvazione.

    «Sta bene, dunque. Troverò un modo per adattarmi.»

    Bulcsu legò i cavalli agli alberi intorno al piccolo accampamento. Videro una botticella con le assi annerite dal fuoco e poco più in là una sacca dalla quale spuntavano pagnotte di segale.

    «Ho cibo per tutti» disse Godfroy indicando le provviste. Poi, con gli occhi chiusi e le palme delle mani rivolte verso l’alto, iniziò a pregare.

    «Pater noster, qui est in caeli…»

    Guibert e gli altri si guardarono. Si unirono a lui nel rendere grazie al Signore e di nuovo il sorriso tornò sulle labbra altere di Godfroy. Pregava con trasporto e devota convinzione. Guibert pensò che fosse stato quello a preservarlo dalla malattia, e cercò di fare chiarezza nel turbinio contrastante delle sue emozioni. Si era convinto che tutto fosse accaduto perché aveva attentato al voto di Aalis, una punizione divina per intenti privi di scrupoli, anche se guidati da un sentimento sincero. Intimorito da quelle ipotesi, aveva smesso di rivolgere preghiere a sua madre, ma in quell’istante si sentì pronto a chiederle perdono per la sua titubanza.

    Madre, ho smarrito la via due volte. Perdonami, se pensi che io possa meritarlo .

    «Amen» disse Godfroy. «Dunque, Grifone, sei giunto qui con qualcosa per me.»

    «Ho portato la spada che hai chiesto.»

    «Meraviglioso! E io ho il pagamento per Esme» disse tirando fuori un involto di pelle che teneva legato al collo, sotto la veste. «Posso domandare cosa farete, ora?»

    Guibert non sapeva cosa rispondere, tacque ma fu sicuro di aver lasciato trapelare fin troppo la sua incertezza sul domani perché Godfroy annuì come se già sapesse tutto.

    «Ho da proporti qualcosa. Qualcosa che potrebbe cambiare per sempre la tua esistenza e garantirti l’Eternità fra i santi.»

    «Addirittura?» domandò Ethion. Godfroy lo ignorò. Guardava Guibert e solo a lui parlava.

    «Parli a me ma io non sono solo.»

    «Chi ti serve non ha bisogno di essere nominato, io rivolgo a te le mie parole. Tu poi ne farai l’utilizzo che meglio desideri.»

    «Sappi allora che io e i miei uomini decideremo insieme, dopo averti ascoltato.»

    «Posso non comprendere perché tu, che sei stato eletto, debba ritenere loro tuoi pari, ma accetto che per te sia legittimo.» C’era qualcosa, nel modo di alludere a quella differenza fra uomini in armi che infastidiva ma al tempo stesso incuriosiva Guibert. Era davvero superiore ai suoi amici, ora?

    «E dunque, cosa vorresti proporci?»

    «Di seguire la via di meridione. Accompagnarmi e nel tragitto decidere se volete servire qualcuno di più alto di qualsiasi re.»

    «Dove sei diretto, di preciso?»

    «Alla città di Ancon, fra le genti della Longobardia.»

    Guibert sentì il cuore balzargli nel petto. Un segno. Di nuovo! Aveva chiesto una via e un percorso gli veniva offerto. Annuì e stava quasi per rispondere ma si ricordò di guardare alle sue spalle, di non dimenticare gli uomini che lo seguivano, nel fango dal quale anche lui proveniva.

    «Ne parlerò con i miei compagni, e poi ti darò una risposta.»

    Bertram

    Aveva gridato? Sentiva ancora quell’urlo nei polmoni, ma non poteva essere certo di averlo fatto. Era precipitato in un buio assoluto, come le profondità dell’inferno con cui i preti terrorizzavano i fedeli. Era stato avvolto da quell’orrore turbinante. Liquido e spigoloso allo stesso tempo. Aveva sbattuto contro le pareti della caverna degli inferi. Rocce affilate come denti di lupo, per fare a brandelli il corpo ed estrarne l’anima sminuzzata. Poi di colpo tutto si era fermato, al freddo dell’acqua si era sostituito l’abbraccio gelido del vento. Fango e putridume avevano accolto il suo corpo privo di forze. Pensava di essere morto, invece poteva udire l’eco dei suoi respiri dolorosi, il fischio dei polmoni feriti, gonfi come otri di pelle. Era rimasto immobile, prigioniero dell’oscurità delle palpebre che non volevano saperne di aprirsi. Gridò di nuovo e stavolta fu certo che un suono ferale fosse uscito dalla sua bocca. Un ruggito di sfida alla paura che ancora lo attanagliava e che gli aveva strizzato la vescica. Si rese conto di un rumore costante, vorticoso. Proveniva dal basso, se così poteva chiamarsi il punto dove erano i suoi piedi. Poteva essere di lato, o anche sopra. Un gorgoglio continuo, un ribollire inarrestabile. Il fiume!

    Allora ricordò.

    Si era gettato per sfuggire a Langral. Aveva nuotato per mantenersi a galla, disperato, ma la corrente era troppo forte e aveva vinto i suoi tentativi di sfuggirle. Si era lasciato andare alla clemenza del fiume. Aveva urtato rocce, le aveva colpite con la testa, con la schiena e i fianchi. Infine, era stato respinto e gettato a riva. Provò ad aprire gli occhi ma era come se gli avessero gettato della pece sul volto. Le palpebre non gli appartenevano, e per quanto si sforzasse non volevano saperne. Si grattò la faccia, senza che la situazione mutasse. Tastò il terreno intorno a sé. Alla sua destra c’era fitta vegetazione e il fango si faceva solido. Prese a strusciare aiutandosi con le spalle, portando infine anche i piedi fuori dall’acqua. Provò un sollievo immediato nell’entrare in un raggio di sole che sembrava attenderlo per scaldarlo. Era sfuggito alla morte di notte e ora era giorno. Si domandò dove fosse finito e se non fosse già circondato dai suoi avversari. Sogghignavano forse nascosti fra i cespugli, senza alcuna fretta di sferrargli il colpo fatale? Doveva guardarsi intorno.

    Con la mano grattò freneticamente la fronte e le cavità oculari, per levare quel velo che si appiccicava al volto. Assaggiò la punta delle dita: era il suo sangue. Non sentiva dolore perché il freddo aveva intorpidito i suoi sensi, ma la ferita, quasi di sicuro alla testa, doveva essere recente e ancora aperta, perché altrimenti l’acqua avrebbe ripulito gli occhi. Li strofinò con il dorso delle mani gelide e il mondo tornò a manifestarsi a lui.

    Stava fissando il cielo, l’accavallarsi delle nuvole veloci, sospinte da venti di pioggia. Il sole gagliardo approfittava di ogni spiraglio fra quel candido gregge per rinfrancarlo. Era un sole raro, in quel periodo, e d’istinto ringraziò il Signore. Si rese conto che doveva pregare, perché non si sarebbe potuto trarre d’impiccio se non grazie a una volontà superiore. Osò richiudere gli occhi e si concentrò su un breve salmo che conosceva a memoria. Tornò a guardare la volta celeste. C’era qualcosa che non andava. Un’ombra color carne precludeva la vista alla sua sinistra. Doveva voltare la testa per vedere da quella parte e l’ombra non se ne andava. Si toccò e vide le sue dita scorrere sull’ombra, tastò finché non chiuse la narice destra con i polpastrelli: era il suo naso. Provò un brivido constatando che non sembrava trovarsi al posto giusto. Protese la mano oltre di esso e si rese conto che invece era proprio dove doveva essere. Allora si toccò l’occhio sinistro, sentì dolore perché era aperto, ma non vide le dita che, frenetiche, cercavano di risolvere quel mistero. Sentì le palpebre chiudersi mentre le sfiorava, poteva controllarle. Di nuovo provò fastidio premendosi il bulbo oculare. L’occhio era aperto. Eppure, continua a non vedere. Con uno scatto che gli procurò ovunque fitte di dolore, si mise a sedere. Quella fastidiosa massa intorno all’occhio destro lo destabilizzava, lo infastidiva. Gli sembrava di essere stato chiuso dentro un sacco di iuta in un gioco da ragazzini, con un solo piccolo pertugio per controllare da quale direzione venissero i colpi di verga e schivarli.

    Si ritrovò in ginocchio, il largo fiume davanti a sé rifletteva i colori della soffocante vegetazione che ne lambiva le acque. Era finito in una secca, nei pressi di alcune radici spesse come braccia. Camminò sulle ginocchia fino all’acqua pura, immerse la mano e la portò al volto più volte, detergendosi. L’occhio sinistro iniziò a mandare stilettate dolorose, fu costretto a stringerlo con il palmo della mano e a piegarsi in avanti per contenere un urlo disperato.

    Quando si riprese, con la bava che gli usciva dalla bocca deformata in una smorfia, alzò la testa e si rese conto della verità che i suoi sensi gli stavano comunicando: era cieco da un occhio. Forse era solo una condizione temporanea, anche se lo stomaco sembrava volergli comunicare l’opposto, contraendosi. L’unica cosa certa era il buio assoluto che aveva colto metà del suo campo visivo. Iniziò a sogghignare, sopraffatto dalla tensione nervosa, poi i sussulti divennero una risata isterica. Bestemmiò, come non aveva mai fatto prima in vita sua. Pronunciò la sua blasfemia con la rabbia di un figlio abbandonato, di un compagno d’armi tradito, e si lasciò andare sull’erba alta.

    «Questo lui non potrà mangiarlo. Dovrai farlo tu, e non costringermi a colpirti di nuovo.» Ludeca appoggiò la ciotola con la polenta scura. In cima alla montagnola aveva posto la corolla di un fungo cotta sulle pietre arroventate. Cercò un cenno di assenso dalla ragazza, un barlume di quell’intesa che fino a pochi giorni prima avevano avuto e della quale sentiva ora la mancanza. «Sa solo Iddio perché me la prendo così a cuore» disse, alzandosi e tornando al calore del bivacco.

    Le altre, al contrario della donna, non si erano interessate al dolore di Aalis e bisbigliavano fra loro che una bocca in meno con cui dover dividere il cibo, quando questo sarebbe scarseggiato, non poteva che essere un vantaggio. Se non fosse stata in grado di assolvere i suoi compiti, Ludeca non l’avrebbe potuta proteggere, e per la ragazza il destino sarebbe stato quello di abbandonare la schiera in un territorio che non conosceva, oppure seguire gli armati e sopravvivere offrendo loro il proprio corpo.

    Pulce annusò il cibo, sbuffò a conferma di quanto aveva detto Ludeca, e ritornò a poggiare la testa fra le zampe, vicino alle ginocchia di Aalis. La ragazza afferrò il fungo con le dita, lo annusò un istante lasciando che l’odore l’inebriasse e poi lo infilò in bocca. Sapeva di avere fame, tutto il suo corpo reclamava cibo e riposo, ma la sensazione di oppressione che la schiacciava a terra era ancora più forte di qualsiasi altro pensiero di speranza. Aveva compreso di non amare più Guibert, una consapevolezza scioccante, ma si era anche detta che forse lui e Bertram erano la stessa persona e lei non stava tradendo alcun patto. Bertram, che lei amava davvero, e non perché rappresentazione di un ideale di libertà opposto alla terribile clausura del convento, era morto proprio perché non era lo stesso uomo al quale si era votata davanti alla Madre Celeste. Il suo voto, infranto dal desiderio del suo cuore, aveva portato alla morte certa uno di loro e quasi di sicuro anche l’altro era già spirato. Tirò un orecchio di Pulce che mugolò e alzò la

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