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Il diario segreto di un amore
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E-book207 pagine2 ore

Il diario segreto di un amore

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Info su questo ebook

Al suonatore Jones. in un vortice di polvere, Elvio vedeva l'amore
LinguaItaliano
Data di uscita22 gen 2019
ISBN9788827869512
Il diario segreto di un amore

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    Anteprima del libro

    Il diario segreto di un amore - Angelo Poggio

    633/1941.

    AL SUONATORE JONES

    E così, il signor Elvio Carboni, aveva deciso di andarsene in una ventosa giornata d’inverno.

    Erano giorni che non avevo notizie di quell’anziano e gentile vicino di casa la cui discreta cortesia mi aveva affascinato sin dal primo momento che venne ad abitare due piani sotto il mio appartamento al numero 6 di un vecchio palazzo della periferia del ponente genovese.

    Erano circa dieci anni che aveva traslocato.

    In un primo momento, come accade di solito, la gente del quartiere si era chiesta da dove venisse e chi fosse, ma tutti ci accorgemmo dopo pochi giorni che la sua silenziosa e caparbia solitudine non avrebbe permesso di indagare più di tanto sul suo vissuto trascorso.

    Era difficile anche dare un’età a quel signore magro, piuttosto alto: si aveva la percezione che dimostrasse più anni di quelli che effettivamente potesse avere.

    La vita molto particolare, probabilmente, aveva segnato il suo fisico ma non certo la sua mente.

    Uno sparuto gruppo di persone davanti al portone, che parlava sottovoce, quasi temesse di disturbare i pochi passanti, mi fece immediatamente pensare che qualcosa di anomalo era avvenuto a distrarre la quiete degli abitanti del vecchio palazzo.

    Mentre mi avvicinavo, mi accorsi che alcuni di loro, dopo avermi riconosciuto, cercarono di cambiare discorso.

    Probabilmente parlavano di me.

    Ero forse l’unico che, in quei dieci anni, era riuscito ad avere un rapporto di amicizia con Elvio. La sua fisionomia e i suoi modi sempre calmi e gentili, me lo fecero apprezzare da subito.

    Probabilmente il capannello di persone mi attendeva per chiedere se fossi informato delle condizioni dell’uomo.

    Non mi dissero neppure che il signor Carboni era morto. Iniziarono a tempestarmi di domande alle quali mi rifiutai categoricamente di rispondere. Volevo conservare il rispetto nei suoi confronti, anche se, ormai, non aveva più senso.

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    <>

    Sentii una specie di brontolio mentre salivo le scale. Mi ero reso conto di essere stato scortese, ma non m’importava granché.

    Salii le scale senza fretta, e quando giunsi davanti al corpo di Elvio adagiato sul letto di quella camera che non aveva mai condiviso con nessuno, notai che l’espressione del suo volto era quella di sempre.

    La morte non era riuscita a cambiare quel volto triste ma sereno. Era già freddo. Quasi certamente era deceduto per arresto cardiaco durante la notte. Era riuscito a trascinarsi fino alla porta d’ingresso, l’aveva aperta, ma non aveva avuto il tempo di chiedere aiuto. Probabilmente l’urlo gli si era smorzato in gola.

    Il medico legale che nel frattempo era giunto per costatare il decesso di Carboni, quando mi vide, mi rivolse uno sguardo di circostanza sperando di avere a che fare con un congiunto.

    <>

    Un accenno di rossore m’imporporò le guance.

    In effetti, Elvio, per me era molto più che un semplice vicino di casa.

    Col nostro primo incontro si era stabilita un’empatia che si spingeva ben oltre la banale conoscenza. Vi era stata un’attrazione caratteriale che raramente si riscontra tra due esseri umani, soprattutto quando la differenza di età è così accentuata.

    Il signor Carboni, poco tempo dopo il nostro primo incontro, percepì la necessità di informarmi di quella che era stata la sua vita.

    Una vita molto particolare che, da subito, aveva attratto la mia attenzione pur avendo io stesso un carattere piuttosto restio nel voler conoscere i fatti degli altri.

    Dal semplice saluto di circostanza, passammo in breve a soffermarci a parlare.

    Mi dava un assurdo piacere quella sua antica cortesia.

    Mi accorsi subito che non era per niente curioso, non mi chiese mai il perché vivevo da solo nonostante la mia giovane età. Non si preoccupò di chiedere cosa facessi e da dove venissi.

    Elvio Carboni aveva la sua storia da raccontare, il resto non contava.

    Dopo aver trattenuto a stento le lacrime che, davanti a quel poveretto, sentivo che stavano per sciogliersi in pianto, lasciai quell’angusta stanza e m’incamminai verso le scale.

    La mia commozione fu interrotta da un addetto alle pompe funebri comunali che mi rivolse nuovamente la parola.

    <>

    Non vi erano dubbi.

    Erano una decina di righe scritte in perfetta calligrafia che indicavano un numero di conto corrente e il nome del funzionario di banca cui rivolgersi per ottenere il denaro necessario alla tumulazione.

    Uno spazio bianco, e la scrittura riprendeva:

    Cimitero di Castigliano Scrivia. Accanto a Eleonora Giordani, vedova Montanari.

    Se avessi avuto qualche dubbio sulla calligrafia di Elvio, il nome di Eleonora, era la prova inconfutabile che quelle righe fossero state scritte di suo pugno.

    <>

    Dissi con la voce rotta dal pianto.

    <>

    Non feci in tempo ad ascoltare i ringraziamenti degli uomini che mi circondavano e mi affrettai a raggiungere la mia abitazione salendo i gradini sorreggendomi al passamano.

    Sentii il portone sbattere spinto dal vento e riuscii a intravvedere la nera sagoma di un prete che si apprestava a raggiungere quel corpo rigido per una frettolosa benedizione.

    Trascorse l’inverno e, con l’avvento della bella stagione, tutto sembrava rinascere. Anche nelle periferie, che nulla hanno di particolarmente attraente, si respirava un’aria fresca che non faceva rimpiangere più di tanto i paesi ritratti nelle cartoline.

    Ero all’epoca insegnante in una scuola media inferiore, ero da poco passato di ruolo dopo svariati anni di precariato.

    Un matrimonio fallito alle spalle, cercavo di vivere i miei cinquant’anni nella tranquillità e, non avendo particolari interessi se non la lettura, molto di frequente, nel tempo libero, mi recavo nella biblioteca di quartiere a leggere o rileggere i libri che più avevano contribuito alla mia formazione.

    Quella piccola biblioteca, in seguito, si sarebbe arricchita di parecchi volumi che avrei dovuto prelevare dalla casa del defunto signor Carboni, per esaudire un suo desiderio.

    Durante le nostre numerose ore trascorse insieme, aveva manifestato la volontà di donare la sua piuttosto cospicua raccolta di libri, in modo tale da poter mettere a disposizione una buona collezione per chi non poteva permettersi di acquistarli.

    Quando il padrone di casa di Elvio trovò un nuovo inquilino cui affittare l’appartamento, mi chiese appunto la cortesia di potermi occupare dei libri che altrimenti sarebbero finiti al macero.

    Feci un poco di spazio nel mio piccolo appartamento, e in una decina di viaggi, riuscii a trasportare tutti i volumi. Avevo intenzione di dar loro un’occhiata prima di avvisare la biblioteca del lascito.

    Le giornate si allungavano e mi ero imposto di dedicare un paio d’ore tutte le sere alla consultazione di quei libri.

    Con mia grande sorpresa, mi accorsi che non erano classificati in ordine alfabetico, né disposti in base  agli argomenti trattati.

    Seguivano invece un preciso ordine cronologico che partiva dalla parte più alta a sinistra e terminava nell’ultimo ripiano a destra che sfiorava il nero pavimento di marmo.

    Durante il trasporto, cercai di mantenere quell’ordine e creai una vera e propria piramide di carta.

    Presi in mano l’ultimo libro della collezione.

    Era un libro di poesie d’amore di Prévert: Per Te Amore Mio.

    La dedica era scritta con caratteri molto ampi e arrotondati quasi volessero indicare la vastità dell’amore con cui erano state scritte.

    All’unico uomo che ha saputo amarmi

    In calce era ben evidente il nome di una donna: Eleonora.

    Elvio mi aveva parlato di lei.

    Mi soffermai parecchio su quella dedica, rigiravo il libro tra le mani per cogliere ogni sfumatura di quelle poche ma intense parole.

    A un tratto, dalle pagine rovesciate, caddero alcuni fogli piegati e scritti in carattere molto piccolo e con calligrafia leggermente inclinata.

    Riconobbi nuovamente la scrittura di Elvio.

    Era simile a quella della lettera su cui erano indicate, in poche righe, le sue ultime volontà.

    Non mi soffermai a leggere, ma ebbi la strana sensazione che quei fogli dovevano essere la conclusione di una storia.

    Vi era apposta non una firma, ma la semplice parola Addio.

    Sfogliai il libro immediatamente precedente a quello di Prévert e, senza neppure guardare chi fosse l’autore e il titolo, lo capovolsi e lo aprii a ventaglio. Un’altra serie di fogli cadde svolazzando sul pavimento.

    Mi alzai di scatto, presi una sedia che era sistemata sotto una scrivania, vi montai sopra e presi tra le mani il primo libro della serie all’apice della piramide.

    Conteneva parecchi fogli.

    Intuii che doveva essere l’inizio della storia che aveva scritto Elvio.

    La scrittura era mezza cancellata dall’umidità e l’inchiostro aveva causato parecchie sbavature. Pensai immediatamente che non sarebbe stato facile leggerle e che avrei dovuto lavorare seguendo soprattutto la mia intuizione.

    Mi rendevo conto che Elvio Carboni mi aveva lasciato erede di un prezioso e intimo diario. Quegli episodi cui accennava durante le serate trascorse insieme.

    Ero in possesso della sua vita.

    Non provavo mai una sensazione di colpa per intromettermi nei sentimenti di Elvio. Mi pareva, al contrario, che fosse lui stesso a chiedermi di ricostruire, foglio per foglio, il racconto cui aveva dedicato gran parte del suo tempo.

    Completato il trasloco, riconsegnai le chiavi dell’appartamento.

    Il padrone di casa mi aveva pregato di tenerne un paio nel caso qualche possibile affittuario avesse voluto visionarlo, ma non era più necessario.

    Mi chiusi la porta dello studiolo alle spalle e, con quel primo libro tra le mani, mi affrettai a raggiungere la mia poltrona per potermi accertare di cosa effettivamente fossi venuto in possesso quel giorno.

    Trascorsa circa un’ora, interruppi per mangiare.

    Dopo una frugale cena, mi riaccomodai e, alla luce piuttosto fioca di una lampada, iniziai a leggere.

    Non ci volle molto a scoprire che avevo tra le mani una storia vera, tutto corrispondeva ai luoghi e ai personaggi del mio vecchio amico scomparso.

    Era la sua vita, e, come tutte le biografie, iniziava dai ricordi d’infanzia.

    È difficile riuscire a ricordare con precisione ciò che i bambini provano quando sono costretti a trascorrere le vacanze estive con i propri genitori.

    Penso che equivalga alla delusione o all’indifferenza che coglie ognuno di noi quando le attese sono profondamente disilluse dalla realtà.

    Come un appuntamento al buio tra un uomo e una donna che si sono scritte migliaia di lettere senza mai aver avuto occasione di far conoscenza personalmente e, al momento del tanto sospirato incontro, nessuno riscopre nell’altro una minima parte di ciò che aveva sperato e immaginato.

    I dejà vu che, di tanto in tanto, riaffiorano nelle nostre menti di quelle esperienze estive di molti decenni addietro, non mettono a fuoco necessariamente i luoghi, i viaggi, i giochi, ma le persone.

    Esistono figure che, senza una logica spiegazione, e per lo più completamente estranee, restano impresse nella nostra testa nonostante si siano incontrate solo casualmente e in rare occasioni.

    Ogni anno, durante l’estate, eravamo soliti trascorrere un lungo periodo, da ferragosto agli inizi di ottobre, al paese di origine.

    I nonni erano morti e Berto, mio padre, aveva pagato un’irrisoria somma di denaro ai propri fratelli per ereditare la vecchia casa dei genitori che sorgeva su un poggio a ridosso del centro abitato.

    Castigliano era incuneato tra le colline tortonesi a circa duecento metri di altitudine sul livello del mare.

    Era molto simile ad altri paesi dell’alessandrino, di solito la campagna non offre panorami molto diversi, soprattutto quelli che, dopo aver valicato gli Appennini, si diradano nella vastità della Pianura Padana.

    Nelle limpide giornate di primavera ed estate, voltando lo sguardo verso occidente, si potevano scorgere le vette innevate delle Alpi sovrastate dal Monviso che dava l’impressione di dominarle con la sua maestosità.

    Il nostro casolare, quello conosciuto da tutti col semplice nome dei Carboni, essendo leggermente staccato dal centro del paese, faceva parte di uno sparuto gruppo di abitazioni all’interno di una coorte delimitata da un enorme porticato di legno che rimaneva chiuso di notte ed era aperto, la mattina, dal primo che usciva per recarsi al lavoro.

    Quell’ampio cortile era raggiungibile da una mulattiera non carrabile e quindi la seicento bianca di mio padre restava per circa un mese parcheggiata nella piazza del paese.

    La mamma era contenta di poter trascorrere parte dell’estate e gli inizi dell’autunno a Castigliano.

    Lì era nata, aveva trascorso l’infanzia molto povera e sofferta per via dei lutti che avevano colpito la famiglia.

    Si era ritrovata, giovanissima, a dover accudire e allevare due fratelli più piccoli, perché i miei nonni materni erano morti entrambi di spagnola, l’influenza che aveva decimato gran parte dell’Italia settentrionale intorno alla fine della grande guerra.

    Aveva mantenuto un filiale rapporto con le zie, ma, anche loro, ormai, erano morte da parecchio tempo.

    Si era fidanzata molto giovane con mio padre ed era stata in pratica adottata dalla sua futura suocera.

    Probabilmente questa era la ragione per cui la ragazza aveva scelto il figlio dei Carboni.

    Ora, tutte quelle persone, riposavano nel piccolo cimitero di paese, ed era usanza che, la nostra prima visita immediatamente dopo l’arrivo in campagna, fosse dedicata a chi non c’era più.

    A Castigliano, mia madre, poteva finalmente godersi quel tempo libero che le consentiva di fermarsi a chiacchierare con le sue vecchie amiche d’infanzia che, al contrario di lei,  avevano scelto di non lasciare il

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