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L'Italia del pizzo e delle mazzette
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E-book910 pagine12 ore

L'Italia del pizzo e delle mazzette

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Info su questo ebook

Tra corruzione e violenza, la fotografia di un paese ostaggio della criminalità organizzata

«Ho letto Bruno De Stefano. Un libro secco, chiaro, duro.»
Roberto Saviano

Con la violenza, l’inganno e la colpevole collaborazione di uomini delle istituzioni, le “quattro mafie” (Cosa Nostra, Camorra, ’Ndrangheta e Sacra Corona Unita) sono cresciute fino a stringere in una morsa d’acciaio l’Italia meridionale, a conquistare ampie zone del Centronord e a estendere la loro influenza sull’amministrazione di un numero imprecisato di Comuni, aziende sanitarie, piccole e grandi imprese. Nonostante le periodiche dichiarazioni di guerra rilasciate dai governi di ogni colore, la criminalità organizzata non è più un fenomeno rinchiuso nello spazio di un confine regionale ma un problema di portata nazionale, in grado di avvelenare vasti settori della società civile, della politica e dell’economia. Non si tratta più di fronteggiare bande isolate ma di fare i conti con una vera e propria holding della violenza che, con i suoi (almeno) novanta miliardi di fatturato, ha un giro d’affari pari al 7% dell’intero prodotto interno lordo e un potere di corruzione praticamente illimitato. Con una prosa coinvolgente e impietosa, De Stefano usa le armi del giornalismo investigativo per raccontare la verità sui rapporti tra Stato e criminalità organizzata, facendo emergere il ritratto sommerso di un Paese assediato, nel quale chi prova a ostacolare le cosche viene minacciato, costretto al silenzio, ucciso.


Bruno De Stefano
è nato nel 1966 a Somma Vesuviana (Napoli). Giornalista professionista, ha lavorato per diversi quotidiani tra cui «Paese sera», «Il Giornale di Napoli», «Corriere del Mezzogiorno » (dorso campano del «Corriere della Sera») e per «Metropolis», occupandosi in particolare di cronaca nera e giudiziaria. Attualmente è redattore di «City», il quotidiano freepress del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera. Con la Newton Compton ha pubblicato Napoli criminale, I boss della camorra e La penisola dei mafiosi. L’indirizzo del suo blog è brunodestefano.splinder.com.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854126688
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    Anteprima del libro

    L'Italia del pizzo e delle mazzette - Bruno De Stefano

    50

    Prima edizione ebook: novembre 2010

    © 2008 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-2668-8

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Bruno De Stefano

    L'ITALIA DEL PIZZO

    E DELLE MAZZETTE

    Tra corruzione e violenza, la fotografia di un paese

    ostaggio della criminalità organizzata

    Newton Compton editori

    A Barbara Rizzo Asta e ai suoi figli Giuseppe e Salvatore, che oggi

    avrebbero trent’anni se un’autobomba non li avesse fatti a pezzi.

    I mafiosi stanno in Parlamento, sono a volte ministri, sono banchieri, sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Bisogna chiarire questo equivoco di fondo: non si può definire mafioso il piccolo delinquente che ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale… quella è piccola criminalità che credo esista in tutte le città italiane ed europee. Il problema della mafia è molto più tragico e importante, è un problema di vertici della nazione che rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale definitivo l’Italia […]. Io ho visto molti funerali di Stato. Ora dico una cosa di cui solo io sono convinto, quindi può non essere vera: ma molto spesso gli assassini erano sul palco delle autorità.

    Pippo Fava, intellettuale siciliano, assassinato dalla mafia nel 1984

    Hanno parlato di mafia, ma per noi del Nord la mafia è un fenomeno lontano. Senza contare che il novanta per cento dei mafiosi è in carcere e quindi la criminalità organizzata è sotto controllo.

    Silvio Berlusconi

    Non serve più fare la guerra allo Stato. Basta usare le leggi che ci sono e costringere il potere centrale a farne delle nuove su misura per noi e per i nostri interessi.

    Tano Cariddi in La Piovra 10

    Consentitemi la provocazione: per cinque anni non dovremmo candidare alle elezioni politiche uomini del Sud. Hanno dato e danno quotidianamente spettacolo indecente di mafiosità, malaffare e incapacità.

    Michele Placido

    La sicurezza del potere si fonda sulla insicurezza dei cittadini.

    Leonardo Sciascia

    Molti mi chiedono che cosa dobbiamo fare, che cosa possiamo fare: informarci. Quando uno si informa, è più difficile prenderlo per il culo.

    Marco Travaglio

    Introduzione

    Mafia.land Italien: così «Der Spiegel» titolò in copertina un’inchiesta pubblicata nel marzo 1992, all’indomani dell’omicidio di Salvo Lima, europarlamentare della Democrazia cristiana, definito «il più intoccabile degli intoccabili, il proconsole del presidente del Consiglio Giulio Andreotti in Sicilia».

    Italia, Paese della mafia: ecco cosa eravamo per il settimanale tedesco, che in otto pagine raccontava «omicidi di politici» e «attentati alle stazioni di Polizia», sostenendo che «nella campagna elettorale italiana la mafia dimostra il suo potere con arcaica brutalità. Deputati e sindaci sono ai suoi ordini, al Sud l’associazione criminale controlla un terzo dei voti».

    Il reportage suscitò, inevitabilmente, molto scalpore. E tutti si scagliarono contro il settimanale, accusato di aver ingigantito i fatti e di aver offerto un’immagine dell’Italia lontana dalla realtà. Fu, tutto sommato, una difesa d’ufficio perché molti sapevano che, pur utilizzando qualche luogo comune e l’immancabile dose di pregiudizi, il giornale non aveva scritto delle balle. E la tragica conferma arrivò qualche mese dopo, con le stragi nelle quali furono assassinati i magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, insieme ai poliziotti delle scorte.

    Oggi, a distanza di poco meno di vent’anni da quel titolo così umiliante, dobbiamo riconoscere che quella dei tedeschi si è rivelata una sinistra profezia. Se per un attimo mettiamo da parte l’ipocrisia e guardiamo con onestà intellettuale alla realtà che ci circonda, non possiamo non ammettere che «Der Spiegel» ci aveva preso in pieno: siamo sul serio il Paese della mafia. Anzi, peggio: siamo il Paese delle mafie. Ormai bisogna parlare al plurale, perché Cosa Nostra, camorra, ’ndrangheta e (in misura minore) Sacra Corona Unita stanno dilagando dappertutto. Non si tratta di esagerazioni allarmistiche, né di una lettura degli avvenimenti deformata da un ingiustificato pessimismo. Per rendersi conto delle condizioni in cui si trova oggi il nostro Paese basterebbe analizzare con obiettività quanto la cronaca ci propone un giorno sì e l’altro pure. Ma ancora più illuminanti possono essere le indagini di magistrati e forze dell’ordine, e i dati raccolti dalle associazioni antiracket, dalla Confesercenti, dalla Legambiente, e da altre organizzazioni impegnate nella battaglia all’illegalità. Il quadro che viene fuori è sconcertante, e chi è disposto ad accantonare la retorica sull’antimafia non potrà non riconoscere che siamo di fronte a una calamità nazionale, i cui devastanti effetti sono spessissimo sottovalutati. Le mafie, infatti, non sono più un Antistato; in almeno quattro regioni del Sud sono diventate un altro Stato: forte, autorevole e riconosciuto. Il dato più grave è però un altro: le mafie stanno progressivamente conquistando molte aree del Centro e del Nord; magari dal Lazio a salire in su non usano metodi violenti, o perlomeno non sempre, ma attraverso l’annessione di ampi settori dell’economia e l’infiltrazione nel mondo delle imprese e della pubblica amministrazione, hanno posto le basi per diventare un interlocutore obbligato per l’imprenditoria, la finanza, la politica. Insomma, siamo diventati la penisola dei mafiosi e pochi ne sono realmente consapevoli, nonostante l’avanzata della criminalità organizzata non sia un segreto per nessuno. Nomi, cognomi, luoghi, cifre e quant’altro possa essere utile a comprendere come stanno le cose, sono inseriti nel rapporto annuale della Direzione nazionale antimafia. E riferimenti a clan e affari sono contenuti in abbondanza pure nelle relazioni della Direzione investigativa antimafia e dei reparti specializzati dei Carabinieri, della Polizia e della Guardia di Finanza. Ed elementi utili si trovano pure nei rapporti dei Servizi Segreti. Ma evidentemente si tratta di documenti che i politici, sia di Governo sia di opposizione, sfogliano distrattamente. Perché se leggessero con attenzione cosa c’è scritto, forse dedicherebbero più tempo e maggiori energie a combattere concretamente una guerra che finora è stata condotta a colpi di slogan o solo perché lo imponevano le circostanze. Qualche esempio può rendere l’idea: della ’ndrangheta tutti si sono accorti soltanto dopo la strage di Duisburg dell’agosto 2007; la camorra è diventata oggetto di interesse collettivo solo in seguito alla pubblicazione di Gomorra, il romanzo di Roberto Saviano; il picco di attenzione su Cosa Nostra si registra unicamente quando c’è un cadavere eccellente; la Sacra Corona Unita, invece, ormai esiste solo per i pugliesi che sono costretti a subirne l’arroganza.

    È vero che negli ultimi anni sono stati arrestati molti latitanti, ma pure i più ingenui sanno che non basta mettere in galera un boss, seppure di primissimo piano, per sconfiggere un’organizzazione. E la prova sta nel fatto che mentre si enfatizza la cattura di qualche pezzo grosso indicato come l’origine di tutti i mali, le mafie continuano a vivere un periodo di grande espansione sia dal punto di vista militare, sia sotto il profilo economico. Oggi le cosche hanno un giro d’affari di oltre novanta miliardi di euro, che equivale a circa il 7 per cento del prodotto interno lordo, o a cinque manovre finanziarie di medie dimensioni. Nel frattempo si continua a fingere di non vedere quel che accade sotto gli occhi di tutti. Ci sono zone del nostro Paese nelle quali c’è la pena di morte, però a essere giustiziati non sono criminali incalliti ma magistrati con la schiena dritta, fedeli servitori dello Stato, preti coraggiosi, giornalisti che fanno fino in fondo il loro dovere, imprenditori onesti, cittadini dotati di un alto senso civico. Ci sono zone del nostro Paese nelle quali aprire un negozio significa fare i conti con l’altro Stato che pretende un’altra tassa. Ci sono zone del nostro Paese in cui le istituzioni sono in mano a politici-mafiosi o a mafiosi-politici. Ci sono zone del nostro Paese nelle quali i cittadini perbene vivono nella paura e subiscono in rassegnato silenzio perché consapevoli che denunciare i soprusi significa rischiare la vita. Ci sono zone del nostro Paese nelle quali molte persone vivono sotto scorta per aver detto o fatto cose che in un altro luogo del mondo sarebbero state considerate normali. Ci sono zone del nostro Paese dove la libertà è limitata perché l’unica legge che conta è quella delle cosche. Ci sono zone del nostro Paese dove l’economia è inquinata dai miliardi sporchi delle mafie. Ci sono zone del nostro Paese dove le mafie stanno consolidando la loro presenza, esportando usi e costumi delle regioni di provenienza.

    Esagerazioni? No, perché quest’analisi arriva da una fonte autorevolissima, il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso: «Esiste una buona fetta di territorio nazionale dove si vive una libertà limitata, dove il diritto all’impresa e, in qualche caso, alla vita stessa sta nelle mani di organizzazioni criminali pericolosissime […]. Adesso l’allarme, giustamente, è concentrato sulla Campania e sulla zona della cosiddetta mafia dei Casalesi, ma vi assicuro che non va meglio né in Calabria, dove la ’ndrangheta muove capitali enormi e invade settori della società civile, né in Sicilia che – malgrado i buoni risultati della repressione – rimane la capitale di una mafia ben inserita nel tessuto politico, economico e sociale» («La Stampa», 7 giugno 2008).

    Le parole di Grasso sono state di una gravità assoluta, eppure nessuno ha raccolto il suo allarme. Il silenzio che ha circondato un’affermazione così forte ha dimostrato, ancora una volta, il disinteresse generale nei confronti di una lotta che la politica non sembra voler combattere né sul serio né fino in fondo.

    L’obiettivo di questo libro è contribuire a rimuovere qualche mattone di questo muro alzato da chi ha l’interesse a minimizzare l’entità del pericolo e allo stesso tempo vuole nascondere le reali ragioni che hanno consentito ai mafiosi di prosperare. La penisola dei mafiosi vuole fornire una visione complessiva della presenza della criminalità organizzata: un viaggio che parte dalla Lombardia e finisce in Sicilia, affinché ci si renda conto di quanta mafia c’è nel nostro Paese e di come i criminali controllino intere regioni, le grandi città, i quartieri, le strade e i vicoli. Un percorso al termine del quale viene spontaneo chiedersi perché, di fronte a un fenomeno così spaventoso, lo Stato sia rimasto sostanzialmente inerte, imponendo la sua forza solo all’indomani di omicidi e stragi (Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino), quando non ne avrebbe potuto fare a meno perché pressato dall’opinione pubblica.

    La seconda parte del libro è dedicata alle infiltrazioni mafiose nei Comuni: un altro versante poco esplorato che invece la dice lunga su come i clan si impossessino degli enti locali per decidere chi deve vincere le elezioni, aggiudicarsi gli appalti e mettere le mani sui finanziamenti pubblici; è lì, nei piccoli e grandi Comuni, che si celebra il felice matrimonio tra i mafiosi e i politici, un rapporto di mutua assistenza che consente ai primi di diventare ricchi e ai secondi di fare carriere altrimenti impossibili.

    È evidente che la guerra alla criminalità organizzata non si combatte soltanto con carabinieri, poliziotti e magistrati. Come diceva Paolo Borsellino: «la lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità».

    Ecco: questo libro, nel suo piccolo, vuole essere uno strumento utile a prendere coscienza della gravità di un problema che in tanti, e il più delle volte strumentalmente, cercano di occultare. Perché dobbiamo renderci conto che ogni giorno tutti noi paghiamo, direttamente o indirettamente, il pizzo ai mafiosi e le mazzette ai loro complici. E soprattutto dobbiamo essere consapevoli che se continuiamo a fingere di non vedere ciò che accade intorno a noi, quella che per anni è stata una palla al piede per le regioni meridionali, diventerà una pietra al collo per tutto il Paese.

    BRUNO DE STEFANO

    NOTA PER I LETTORI:

    In questo libro vengono rievocate diverse inchieste giudiziarie, alcune si sono concluse e altre sono ancora in corso. Tutte le persone coinvolte e/o citate a vario titolo, anche se condannate nei primi gradi di giudizio, sono da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva.

    Prima parte

    La Lombardia colonizzata

    dalla mafia calabrese

    L’area più ricca del Paese, quella che rappresenta il motore economico dell’intera nazione, non poteva non essere considerata dalle mafie il luogo ideale nel quale stabilirsi per fare affari e ripulire, moltiplicandoli, i miliardi accumulati con una gamma di traffici illegali che diventa sempre più vasta. E così, con il passare degli anni, il morbo della criminalità organizzata ha talmente attecchito che ora la Lombardia è considerata da molti addetti ai lavori la quarta regione ad alta densità mafiosa dopo Sicilia, Calabria e Campania. Ma stupirsi oggi per quanto la situazione sia degenerata negli ultimi anni sarebbe da ipocriti. E, diciamolo, a questo punto correre ai ripari comincia a essere complicato.

    Il quadro attuale è sconfortante perché è ormai evidente che anche a centinaia di chilometri dalle tradizionali capitali del crimine (da Palermo a Napoli, fino a Reggio Calabria) le cosche si comportano esattamente come fanno nelle regioni di origine. Minacciano, uccidono, si infiltrano nella politica, praticano estorsioni, spacciano droga. E, come è già accaduto nel Sud, lo Stato non sempre dà l’impressione di saper arginare un’avanzata che, nonostante le periodiche frenate imposte da indagini e arresti, sembra non conoscere ostacoli.

    Oltre alle tradizionali attività fuorilegge, ormai sono pochi i segmenti dell’economia legale non inquinati dalle mafie. Si sa per certo che, a oggi, i boss controllano una parte delle autorimesse e del commercio di automobili, dei bar, delle panetterie, dei pub e dei ristoranti, delle sale giochi, delle sale scommesse, delle società finanziarie. E poi gestiscono lo stoccaggio e lo smaltimento dei rifiuti, le discoteche, i locali da ballo e i night club (che danno la possibilità di far circolare la droga), le sale bingo, le società di trasporti e le pompe di benzina, i servizi di facchinaggio e di pulizia, i servizi alberghieri, i centri commerciali e le imprese edili. Alla inquietante propagazione in termini di controllo militare del territorio e di penetrazione nel campo economico e finanziario, si è parallelamente registrato un altro fenomeno allarmante: sono sempre più numerosi i rappresentanti della pubblica amministrazione disponibili a fornire sostegno e appoggio ai mafiosi a caccia di affari. E si è allargata a macchia d’olio pure quell’area grigia composta da imprenditori e professionisti ingaggiati dai boss per trasformare i soldi sporchi di sangue in moneta spendibile dappertutto, compresa Piazza Affari. Dunque, in Lombardia la criminalità organizzata non sta solo avvelenando l’economia e i palazzi del potere, ma ha allungato i tentacoli anche in Borsa e nelle istituzioni.

    Da Joe Adonis a Totò Riina

    Non deve tuttavia suscitare meraviglia se nel terzo millennio la regione è diventata una delle più frequentate succursali delle mafie. I segnali di una progressiva espansione si erano registrati già a partire dal 1976, quando la Commissione parlamentare antimafia lanciò l’allarme sull’invasione di delinquenti favorita da un clamoroso autogol dello Stato: più di quattrocento soggetti provenienti dal Sud furono spediti al confino tra Lombardia, Piemonte, Veneto, e la loro presenza si rivelò devastante. Aumentarono i sequestri di persona, il contrabbando di sigarette, le rapine.

    Uno dei primi criminali di rango a mettere piede a Milano fu Joe Adonis, all’anagrafe Giuseppe Doto. Tra gli allievi prediletti di Vito Genovese, padrino di Cosa Nostra americana, Adonis all’ombra del Duomo si diede parecchio da fare nel controllo delle bische clandestine e dei night club. Per lui purtroppo gli introiti si assottigliarono quando molti malavitosi siciliani, campani e calabresi inviati al confino, cominciarono a organizzarsi e a fargli una spietata concorrenza. All’inizio degli anni Settanta Milano, ormai il cuore dell’economia italiana, era una città strategica per le mafie, soprattutto per Cosa Nostra siciliana che proprio lì convocò le prime riunioni operative tra Totò Riina, Tommaso Buscetta, Tano Badalamenti, Gerlando Alberti, Giuseppe Calderone e Salvatore Greco. In Lombardia sbarcarono dunque i personaggi più influenti delle famiglie palermitane e catanesi. Nel 1972 la regione fu scossa da una serie di rapimenti, un nuovo business esportato al Nord da Luciano Liggio, altro pezzo da novanta, arrestato nel 1974.

    Successivamente si fece strada il mafioso Francis Turatello, conosciuto come Faccia d’angelo, feroce nemico del bandito Renato Vallanzasca, che ereditò il controllo delle bische clandestine e il giro della prostituzione: «L’appartenenza alla mafia di Turatello fu sempre discussa, ma è certo che Cosa Nostra gli permise affari, tradizionalmente considerati disonorevoli, ma utili a distogliere l’attenzione delle forze dell’ordine dal traffico di stupefacenti e dal riciclaggio di denaro sporco. Turatello e la sua banda, composta per lo più da catanesi, si dedicarono con successo anche alle rapine e ai sequestri di persona, in società con la gang dei marsigliesi di Albert Bergamelli. Dopo l’arresto del 2 aprile 1977 in piazza Cordusio, Faccia d’angelo mantenne il controllo delle sue attività fino allo scontro con il suo ex luogotenente Angelo Epaminonda» (La mafia in Lombardia, Lorenzo Frigerio, www.omicronweb.it).

    Con l’uscita di scena di Turatello (fatto uccidere in carcere dal boss della camorra Raffaele Cutolo), Epaminonda, detto il Tebano, insieme alla sua gang formata in prevalenza da malavitosi catanesi, conquistò Milano dopo una guerra con gli ex fedelissimi di Faccia d’angelo. Arrestato nel settembre 1984, il Tebano iniziò a collaborare con la giustizia consentendo agli inquirenti di arrestare il gruppo che amministrava il giro delle estorsioni, le bische clandestine e il traffico di droga. Poi all’inizio degli anni Ottanta ci fu il salto di qualità, con l’ingresso nel mondo della finanza:

    Il 1983 fu un anno cruciale per la scoperta delle infiltrazioni mafiose nell’economia e nella finanza sulla piazza milanese. Il blitz di San Valentino, nella notte del 14 febbraio, portò all’arresto di una quarantina di persone, alla notifica del mandato ad altre cento già in carcere e al sequestro di beni per trecento miliardi. I fratelli Bono, Ugo Martello, Antonino Enea, i fratelli Fidanzati e gli imprenditori Antonio Virgilio, Luigi Monti, Carmelo Gaeta furono accusati di riciclare denaro sporco, tramite società milanesi. La vicenda processuale si concluse però con la cancellazione dell’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e la revisione del processo disposta dalla Cassazione nel 1991. L’11 novembre 1983, il blitz di San Martino (quaranta arresti e irruzioni nelle più importanti case da gioco italiane) fece fallire la scalata al Casinò di Sanremo, per il cui controllo erano in lizza due cordate, spalleggiate l’una dal mafioso catanese Santapaola e l’altra dai palermitani Bono ed Enea. L’inchiesta svelò le commistioni tra politica, affari e crimine, in seguito al coinvolgimento di Antonio Natali, ex esponente di rilievo del PSI. Anche questa inchiesta ebbe un lungo iter processuale, conclusosi nel giugno 1996 con la condanna di tutti per associazione a delinquere di tipo mafioso.

    (Lorenzo Frigerio, op. cit.)

    Alla fine degli anni Ottanta cominciò a farsi spazio la ’ndrangheta, la cui pericolosità venne abbondantemente sottovalutata. La presenza di calabresi in Lombardia diventò massiccia con il passare dei mesi soprattutto nei quartieri più degradati di Milano (Quarto Oggiaro, Bruzzano e Comasina) e in provincia (Corsico, Buccinasco, Trezzano sul Naviglio). L’attività delle ’ndrine si manifestò in maniera violenta, fino a trascinare la città della Madonnina al terzo posto nella classifica delle città con il maggior numero di omicidi. Che la mafia fosse arrivata a lambire ambienti istituzionali si scoprì nel 1990 con l’inchiesta Duomo Connection nata con l’arresto di Tony Carollo, figlio del vecchio boss Gaetano, ucciso a Liscate tre anni prima. I Carabinieri stavano seguendo un traffico di droga gestito da siciliani e calabresi, quando accertarono che esponenti delle cosche e alcuni politici milanesi avevano stipulato un patto per pilotare lottizzazioni miliardarie. Il processo, iniziato nel 1991, dopo le condanne di primo e secondo grado, nel 1995 fu annullato dalla Cassazione per irregolarità nelle intercettazioni e quindi trasferito a Brescia nel 1996.

    La repressione dello Stato fu, in ogni caso, durissima. I collaboratori di giustizia Antonio Zagari e Saverio Morabito fornirono agli inquirenti una agghiacciante ricostruzione di molti episodi, raccontando che in Lombardia la ’ndrangheta dava da vivere ad almeno ventimila persone impegnate nella gestione di attività illegali o nel riciclaggio del denaro sporco. Il bilancio fu positivo: una quarantina di inchieste, circa tremila arrestati con l’accusa di associazione mafiosa e un esercito di pentiti in grado di rivelare i segreti di molte cosche: quelle siciliane (Carollo, Fidanzati, Ciulla) e quelle calabresi (Flachi, Coco Trovato, Papalìa, Sergi e Morabito, Paviglianiti): «Nel 1995 si aprirono i primi maxiprocessi alle mafie di Milano e Lombardia e nel 1997 alcuni di questi si sono chiusi con pesanti condanne per gli imputati. Dalle sentenze, che confermarono in larga parte l’impianto accusatorio, emerse la nuova realtà mafiosa di questo fine decennio al Nord: venne infatti provato che a Milano e in Lombardia la ’ndrangheta aveva esteso la sua potenza ai massimi livelli di pericolosità e che aveva stipulato con la mafia e la camorra una sorta di patto federativo per la gestione dei grandi traffici illeciti, su tutti quello della droga» (Lorenzo Frigerio, op. cit.).

    La colonizzazione della ’ndrangheta

    E oggi, a distanza di oltre trent’anni dall’allarme lanciato dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, qual è la situazione a Milano e in Lombardia? Brutte notizie, anzi pessime: la situazione non è affatto migliorata, nonostante un’intensa attività investigativa. Le indagini dimostrano che il cancro non si è radicato solo a Milano, ma si è esteso a molte aree della regione. Un male per nulla oscuro che spesso ha un solo nome: ’ndrangheta. Rispetto agli anni precedenti ci sono alcune differenze sostanziali: oggi i calabresi dispongono di un patrimonio impressionante, hanno conquistato il controllo di molte attività legali e, come se non bastasse, hanno cominciato a tessere una tela di rapporti con esponenti del mondo politico e istituzionale. La Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Francesco Forgione, nella relazione del febbraio 2008 ha tuttavia individuato un’altra causa che ha favorito la tracimazione della ’ndrangheta: per contrastarla sono state messe in campo forze assolutamente inadeguate. Un esempio la dice tutta sulla inconsistenza della macchina repressiva: fino al dicembre 2007, nel solo distretto di Milano (che comprende anche città con una massiccia presenza di criminali come Como, Lecco, Varese e Busto Arsizio), lo Stato ha schierato poco più di duecento uomini: quaranta carabinieri del Raggruppamento operativo speciale (Ros), cinquanta finanzieri del Gruppo investigativo criminalità organizzata (Gico), cinquantacinque poliziotti del Servizio centrale operativo (Sco) e sessantotto agenti della Direzione investigativa antimafia (Dia), che peraltro ha competenza su tutta la Lombardia.

    Riferendosi al pugno di servitori dello Stato costretti a combattere contro eserciti dotati di uomini e mezzi decisamente superiori, il procuratore aggiunto di Milano, Alberto Nobili, in passato pm alla Direzione distrettuale antimafia, ha amaramente constatato: «Sono tutti eroi, gente che veramente si dedica con sacrificio straordinario e non dovremmo mai finire di dir loro grazie. Non ve lo diranno mai, ma non hanno i soldi per la benzina per le loro auto. Una volta non sono usciti per una importante attività di indagine perché non avevano da cambiare i copertoni delle ruote. Lombardia, Italia, 2007. Questa è la sensibilità che viene dimostrata nel contrasto alla mafia».

    Alla scarsa quantità di uomini si unisce una altrettanto scarsa quantità dei mezzi a disposizione, un mix che influisce parecchio sulla rapidità delle indagini. Secondo la Commissione anche la scarsa attenzione dell’opinione pubblica ai fenomeni mafiosi ha indirettamente contribuito a far sì che il potere dei clan venisse sottovalutato. Insomma, mentre Cosa Nostra, camorra e ’ndrangheta facevano affari d’oro evitando accuratamente spargimenti di sangue, la gente era concentrata quasi esclusivamente su furti, rapine e violenze, soprattutto se commesse da albanesi o rumeni.

    «In questo contesto di disattenzione», scrive la Commissione parlamentare presieduta da Forgione, «le cosche hanno scelto come sempre le attività criminose più remunerative con minori rischi e hanno evitato, per quanto possibile ma con successo, le faide interne e i regolamenti di conti che avevano preceduto, soprattutto con sequele impressionanti di omicidi, le indagini degli anni Novanta e che avevano avuto l’effetto di suscitare un immediato e controproducente allarme sociale. Del resto in una metropoli come Milano in cui, secondo le statistiche, circa centoventimila milanesi fanno uso stabile o saltuario di cocaina, c’è posto per tutti ed è stato possibile, per i vari gruppi, attuare una divisione del mercato e del lavoro in grado di soddisfare tutti senza concorrenze sanguinose, dall’acquisto delle grosse partite sino alla rivendita nelle varie zone».

    Che ci sia poco da stare allegri, lo ha ribadito anche il procuratore Nobili che nel corso di un dibattito sulla «mafia invisibile» è stato chiarissimo nel descrivere il livello di inquinamento provocato dalle organizzazioni criminali:

    Sono incaricato di portare a vostra conoscenza lo stato di salute della mafia in Lombardia. Devo dire che purtroppo è molto buono. La mafia in Lombardia è caratterizzata da una fortissima presenza di ’ndrangheta che a livello nazionale ha stretto un patto d’acciaio con i narcotrafficanti colombiani, quindi ci sono fiumi di cocaina gestiti dalla ’ndrangheta, e fiumi di denaro […]. La penetrazione mafiosa crea problemi di stabilità al tessuto civile e sociale, al sistema democratico. In Lombardia la caratteristica della mafia è la fortissima penetrazione nel circuito economico. Stanno prendendo in mano interi settori, alcuni li hanno già presi e altri li stanno potenziando. Oltre alla solita edilizia abbiamo il settore turistico e alberghiero, pizzerie, ristoranti e molto altro, perché c’è eccesso di liquidità […]. Non vorrei però che alla mafia invisibile si contrapponesse uno Stato anch’esso invisibile. Su questo dobbiamo essere tutti quanti vigili e segnalare sempre di più e organizzare sul territorio sempre più incontri di questo tipo, che sono importanti perché servono a spezzare quel silenzio mafioso che tanto serve ai mafiosi. È un problema serio e sacrosanto. È evidente che al cittadino poco interessa che sorte abbia il capitale mafioso con il riciclaggio, se i soldi finiscono nel circuito economico o nella Borsa, ma gli interessa capire il problema della propria sicurezza. Gli interessa che i figli alla sera quando escono possano tornare a casa senza problemi. È un problema serio e sacrosanto, ma rischia di diventare un depistaggio e far dimenticare il problema mafia. È vero che l’insicurezza pone problemi di stabilità civile e sociale, ma se lasciamo come stiamo facendo in questo periodo ancora tutto questo vantaggio alla mafia, essa diviene destabilizzante ben oltre la criminalità quotidiana che crea insicurezza.

    Sulle stesse posizioni di Nobili e Forgione, si è schierato Francesco Messina, dirigente della squadra mobile di Milano, che ha illustrato il suo allarmato punto di vista a Oriana Liso de «la Repubblica»:

    Bisogna partire dal presupposto che a Milano e nell’hinterland la ’ndrangheta ha un potere consolidato ormai trentennale, è una realtà concreta con una posizione di egemonia tra le organizzazioni criminali. Ed è un rischio altrettanto concreto l’infiltrazione, o almeno il tentativo di infiltrazione, delle cosche negli appalti e nella gestione della cosa pubblica, nonostante un tessuto sociale sano e forte. Ma spesso mi chiedo perché qui non ci sia la percezione del pericolo mafioso – e con questo termine intendo i vari tipi di mafia – o peggio, sia sempre meno sentita rispetto ad altri tipi di pericoli, come i reati fatti da immigrati o in generale quelli di strada […]. In generale in Lombardia, l’atteggiamento delle cosche è molto diverso da quello che hanno nel Sud Italia. Per intenderci: qui le famiglie criminali calabresi e siciliane lavorano sottotraccia, non hanno nessun interesse a mostrare il loro potere. Che invece è reale e assoluto almeno in un campo, quello del traffico di stupefacenti, che è il business su cui la ’ndrangheta regge il suo impero e in cui la mafia siciliana ha ricominciato da qualche anno ad avere una fetta di potere e interessi, tanto che si può dire che l’asse Milano-Palermo è pienamente operativo. Con la droga finanziano attività lecite, soprattutto nel campo dell’edilizia, spesso con società intestate agli stessi appartenenti alle cosche e senza neanche il bisogno di occultare il proprio interesse, mentre all’estero investono in maniera occulta il denaro da ripulire […]. L’ultima guerra di mafia a Milano risale agli anni Novanta, sono storie ormai lontane e quasi dimenticate, ed è chiaro che gli omicidi avvengono nei momenti di instabilità interna e di scontro con lo Stato. Questo vuol dire che invece da diversi anni a questa parte le famiglie criminali di Milano hanno capito come spartirsi il territorio e come fare affari senza dare nell’occhio. Ci sono delle zone dove hanno ricreato in pieno i loro paesi d’origine, come Buccinasco, Corsico, Trezzano, ma in generale in Lombardia non ci sono le condizioni di di­sagio sociale profondo del Meridione, quindi le cosche non possono replicare gli schemi di gestione del potere politico ed economico dell’intera collettività.

    Per Messina merita la massima attenzione anche il boom del racket perché, sottolinea il poliziotto, «di sicuro ci sono le estorsioni, ma non un controllo totale, questo è certo. Perché bisogna sempre tener presente che quando parliamo di pizzo parliamo di un fenomeno in cui c’è una prestazione e una controprestazione, chi paga ottiene un servizio che altrimenti non potrebbe avere. Invece a Milano, come ho detto, il tessuto sociale è sano, quindi queste situazioni non sono una piaga diffusa, tranne che in quelle sacche di egemonia ambientale, dove purtroppo gli atti di intimidazione mafiosa esistono. Questo ovviamente non significa che il fenomeno non vada monitorato, perché il rischio che le cosche provino a salire di livello per ottenere sempre più potere, non solo economico, c’è sempre».

    Le quattro aree infestate dalle mafie

    Gli inquirenti dividono la regione in quattro aree ad alto tasso criminale. La prima comprende Milano e il suo hinterland, ed è presidiata da famiglie della ’ndrangheta della provincia di Reggio Calabria. Non mancano gruppi siciliani disposti a collaborare con i calabresi originari della fascia jonico-reggina: il patto tra le due mafie è stato stretto sul fronte degli investimenti immobiliari e della gestione di attività commerciali; si suppone che l’accordo più importante riguardi gli interessi che ruotano attorno al mercato ortofrutticolo.

    La seconda area abbraccia la zona compresa tra Monza, Como e Lecco, dove a regnare incontrastata è da sempre l’organizzazione calabrese. I clan più forti sono composti dagli eredi di Franco Coco Trovato (a Lecco) e dalla ’ndrina dei Mancuso di Limbadi (a Monza). La loro presenza è spesso silenziosa, ma qualche volta irrompe fragorosamente nella quiete brianzola. Com’è accaduto alla fine del marzo 2008, quando a Verano è stato assassinato Rocco Cristello, pluripregiudicato considerato organico ai Mancuso. Originario di Melito Porto Salvo (Vibo Valentia), Cristello era finito sotto inchiesta più volte per spaccio di droga, estorsione e riciclaggio. E proprio una vicenda legata al riciclaggio potrebbe essere la causa della sua morte: secondo gli investigatori avrebbe investito una grossa quantità di denaro nell’affare Chinamercato di Muggiò, insieme a Song Zhicai, un personaggio di primo piano della comunità cinese che si è stabilita da quelle parti, e condannato a morte in patria perché ritenuto colpevole di truffa aggravata. L’investimento previsto sarebbe stato di circa quaranta milioni di euro. Spostandoci nel Comasco, si scopre che in riva al lago ci sono propaggini sia del clan Coco Trovato che dei Mancuso; in quell’area, però, devono accontentarsi di stare ai margini perché la leadership appartiene ai Morabito di Africo. La potenza delle cosche è confermata da moltissime inchieste; una delle più importanti è stata condotta contro i Mancuso, ai quali nel giugno 2006 è stato sequestrato, a Seregno, un arsenale militare costituito da numerosi fucili mitragliatori, pistole mitragliatrici, armi lunghe e corte, munizioni da guerra e comuni, bombe a mano.

    La terza area ad alta concentrazione criminale è quella di Pavia e Lodi: da quelle parti non ci sono organizzazioni italiane ma un discreto numero di clan slavo-albanesi e rumeni, che oltre a fare furti e rapine gestiscono il mercato della droga e la prostituzione.

    La quarta area è la provincia di Varese, nella quale la presenza della ’ndrangheta è imponente: il gruppo dominante è composto per lo più da soggetti originari di Cirò Marina, riconducibili alle famiglie crotonesi Farao-Marincola, che nel settembre 2008 hanno incassato un duro colpo: a San Giorgio sul Legnano (Milano), con una pistolettata alla nuca è stato assassinato Cataldo Aloisio, genero del boss Giuseppe Farao. Per quanto riguarda Brescia, invece, la situazione è talmente peggiorata che merita di essere trattata separatamente.

    Le numerose inchieste non hanno ancora completamente svelato l’estrema pericolosità delle ’ndrine, come sottolinea il sostituto procuratore Roberto Pennisi:

    Va rilevato come all’attivismo della Polizia giudiziaria riscontrato sul campo delle indagini contro il traffico dei narcotici non ne corrisponda uno pari nel settore dell’azione di contrasto della criminalità organizzata mafiosa nelle sue più specifiche manifestazioni, e cioè quelle del controllo del territorio, del controllo degli appalti, estorsioni, delitti contro la persona, vessazioni di ogni genere, usura, riciclaggio. In quella sua capacità di infiltrarsi in tutto ciò che di importante esiste in un contesto sociale. Eppure v’è da evidenziare […] un risveglio di questo tipo di indagini da ascriversi alla iniziativa proprio dell’Ufficio di procura, cui non sfuggono i segnali che provengono dal territorio e che, pertanto, incentiva la relativa attività di repressione, o stimolando indagini nuove (cioè relative a nuovi fatti), oppure rielaborando indagini già esistenti, cioè relative a fatti già verificatisi ma non compiutamente investigati, onde coglierne nei meandri i segni della presenza mafiosa nella capitale lombarda e nel suo hinterland.

    (Relazione Direzione nazionale antimafia)

    Le parole del magistrato portano dritto a un altro problema che nel circondario di Milano sta diventando preoccupante: quello delle infiltrazioni nel mondo della politica. In un comune del comprensorio, ad esempio, c’è la contemporanea presenza di esponenti di ’ndrangheta e Cosa Nostra che hanno collegamenti con amministratori locali e che dispongono di somme stratosferiche da investire in attività perfettamente legali, o magari per comprare la complicità di sindaci e assessori. Sul terreno delle collusioni con la politica, la ’ndrangheta si è mostrata assai più disinvolta di Cosa Nostra, come disinvolti si sono mostrati i politici che hanno volentieri aperto le porte al malaffare. Una situazione che desta inquietudine, come spiega il pm Pennisi: «Segno questo che le organizzazioni mafiose si comportano ormai in territorio lombardo alla stessa stregua del territorio calabrese. E colpisce come gli elementi appartenenti al crimine organizzato trovino terreno fertile in un territorio che certamente non è afflitto dalla atavica sottomissione alla mafia, riuscendo con facilità a trovare complicità e appoggi. Con ogni probabilità, senza con questo voler sminuire l’effetto dirompente che in una società civile hanno gli inserimenti di gruppi di criminalità organizzata, sono la sete di potere e la brama di denaro che aprono le porte di uffici e studi agli esponenti mafiosi. Anche al Nord, ormai, il potere che deriva dal crimine comincia a esercitare un non indifferente fascino» (Relazione Dna 2007).

    Secondo un altro pm antimafia, Nicola Gratteri, in Lombardia «le cosche sono riuscite perfettamente a clonarsi. Saldando rapporti con esponenti del mondo bancario, finanziario e istituzionale».

    Che la mafia calabrese stia portando avanti una progressiva occupazione di interi settori della vita economica e politico-istituzionale, lo confermano diverse inchieste. Nelle zone più a rischio come Rozzano, Corsico, Buccinasco e Cesano Boscone, le ’ndrine hanno cominciato a stringere alleanze con spregiudicati gruppi politico-affaristici per potersi inserire in diversi segmenti imprenditoriali. Da un’indagine del Ros dei Carabinieri sono emersi inquietanti rapporti tra amministratori di un Comune dell’hinterland milanese e uomini della ’ndrangheta. In un’altra città, invece, la mafia calabrese avrebbe contribuito al successo elettorale di esponenti di un gruppo politico-affaristico. In merito agli appalti pubblici, una famiglia di Isola di Capo Rizzuto (Crotone) ha tentato di infiltrarsi negli appalti ferroviari dell’alta velocità e su quelli dei lavori di potenziamento dell’autostrada Milano-Torino.

    Se per insinuarsi nelle pieghe della politica e della pubblica amministrazione gli ’ndranghetisti adoperano il denaro come mezzo di persuasione, nella vita di tutti i giorni ricorrono agli stessi metodi applicati con successo nella regione di origine. La cosca Coco Trovato, tanto per dirne una, per non avere rogne ha ottenuto il controllo del territorio grazie a una serie di pratiche intimidatorie, e dopo aver dimostrato di essere la più forte, ha stabilito un accordo con i gruppi Arena e Nicoscia di Isola di Capo Rizzuto, per il traffico di stupefacenti e di armi nelle province di Lecco, Milano, Como, Bergamo (dove la ’ndrangheta aveva installato un laboratorio per trattare cocaina) e Varese. Tanta droga, ma non solo: nelle stesse aree, infatti, nei confronti di alcuni imprenditori si sono verificati gravi atti intimidatori finalizzati a eliminare la concorrenza nella partecipazione ad appalti pubblici. Alla Direzione nazionale antimafia non resta che constatare amaramente: «Il profondo inserimento della mafia nel territorio di interesse è talmente radicato che le indagini svolte nel passato non sono affatto riuscite a estirpare il fenomeno che, ormai, fa parte integrante del territorio. Proprio come nel territorio calabrese». Una tesi sostenuta anche dal coordinatore della Direzione distrettuale antimafia di Milano, Ferdinando Pomarici, in un’intervista a Davide Milosa, del quotidiano free press «City», nel novembre 2007:

    Per la ’ndrangheta Milano è un pozzo senza fondo. Qui i mafiosi non solo riciclano denaro, ma trafficano quintali di coca, fanno estorsioni e controllano il territorio. Il denaro viene ripulito con l’edilizia e il movimento terra, ma anche con l’usura, le discoteche, i ristoranti e le cooperative di servizi […]. Di recente abbiamo scoperto che hanno instaurato legami con la camorra. Non è una novità. Negli anni Novanta c’era la coppia Trovato-Schettini: il primo, calabrese di Marcedusa; il secondo, napoletano di Portici. Attualmente il patto di ferro vale nel traffico di droga […]. Dopo le maxinchieste degli anni Novanta, che hanno assestato un duro colpo ai clan, oggi molti boss sono usciti. E se ci sono poche condanne per mafia è perché manca una mappatura aggiornata dei clan, e questo è dovuto al fatto che non ci sono pentiti. Senza contare la povertà di organico di chi fa indagini, perché spesso i magistrati fanno la questua tra Polizia, Carabinieri e Finanza per iniziare le indagini. Se a Milano esiste una volontà politica per mettere il silenziatore alle indagini di mafia? In passato. Oggi, direi di no. È vero, però, che a livello nazionale abbiamo fatto passi indietro. A partire da una legge troppo restrittiva sui pentiti […]. La presenza delle famiglie è simile a quella che ritroviamo al Sud. A Buccinasco non si spara, solo perché il controllo mafioso è totale.

    Dal punto di vista del controllo del territorio, negli ultimi anni la ’ndrangheta ha rafforzato la sua presenza soprattutto nell’area a sud-ovest di Milano (in particolare nei comuni di Corsico, Cesano Boscone, Rozzano, Buccinasco, Trezzano sul Naviglio e Assago), dove si sono stabilite le ’ndrine provenienti dalla locride e dalla piana di Gioia Tauro. I gruppi principali sono i Morabito-Bruzzaniti-Palamara, Morabito-Mollica, Mancuso, Mammoliti, Mazzaferro, Piromalli, Iamonte, Libri, Condello, Ierinò, De Stefano, Ursini-Macrì, Papalìa-Barbaro, Trovato, Paviglianiti, Latella, Imerti-Condello-Fontana, Pesce, Bellocco, Arena-Colacchio, Versace, Fazzari e Sergi.

    Stando alla mappa più recente elaborata dagli inquirenti, i Barbaro e i Papalìa si sono presi Buccinasco, Corsico, Cesano Boscone, Trezzano sul Naviglio e Gaggiano, gli stessi comuni sui quali stanno provando a farsi strada i Musitano e gli Zappia. I Mancuso dominano a Monza, i Mangeruca comandano a Bareggio, i Mandalari sono presenti a Bollate, i Maione hanno in mano Pioltello. A Milano, invece, è fuori discussione l’egemonia delle famiglie Morabito, Palamara e Bruzzaniti.

    Nel giugno 2008 in un’intervista ad Andrea Galli del «Corriere della Sera», il sostituto procuratore antimafia Vincenzo Macrì ha dichiarato che ormai «Milano è la capitale delle cosche» e che in alcuni comuni come Buccinasco «la presenza della ’ndrangheta è opprimente». Allarmati dalle parole di Macrì, i sindaci di Cesano Boscone, Corsico e Trezzano, nel luglio 2008 hanno chiesto al magistrato un colloquio per capire a che punto è arrivata l’infiltrazione della ’ndrangheta e per elaborare una strategia comune per neutralizzarne gli attacchi. Vincenzo D’Avanzo (Cesano Boscone), Sergio Gaffeo (Corsico) e Liana Scundi (Trezzano) hanno preso carta e penna e hanno scritto a Macrì: «Poiché è evidente che gli sforzi che stiamo portando avanti, sia con la Guardia di Finanza sia con i Carabinieri, non possono essere sufficienti per contrastare la criminalità organizzata, le chiediamo un incontro urgente per conoscere meglio la reale situazione. Purtroppo registriamo una progressiva diminuzione nel numero di carabinieri nella nostra zona, alla quale siamo riusciti, in parte, a ovviare attivando servizi di polizia locale intercomunale e progetti mirati con la Polizia di Stato».

    Interpellato dal giornalista Mario Portanova, il sindaco D’Avanzo ha poi meglio spiegato il senso della lettera spedita a Macrì: «Non ci sentiamo né oppressi né in stato di emergenza, ma se il magistrato sa qualche cosa ce la dica. Non posso dire che la ’ndrangheta non ci sia, ma nel corso del mio mandato e in quattordici anni di attività politica a Cesano non ho mai subito condizionamenti. Lo stesso posso dire dei miei colleghi» («Diario», 25 luglio 2008).

    Una presenza fortissima della criminalità calabrese si registra a Quarto Oggiaro, un quartiere popolare della periferia nord-ovest di Milano dove degrado e criminalità formano una miscela micidiale. Secondo la Commissione parlamentare antimafia, almeno settecento delle quattromila case popolari gestite dalla Aler, l’ente comunale che amministra il patrimonio edilizio pubblico, sono occupate abusivamente da uomini delle ’ndrine. E oltre a stabilire chi deve entrare o uscire dagli appartamenti, nella zona gli ’ndranghetisti spacciano impressionanti quantità di droga. Quello degli stupefacenti è un business amministrato dal clan Carvelli di Petilia Policastro (Crotone), tornato miracolosamente in vita dopo esser stato decimato da indagini e processi. Nell’agosto 2007 la Polizia ha scoperto che tra le palazzine popolari la cosca aveva allestito un vero e proprio mercato all’aperto; davanti a improvvisati punti-vendita c’erano interminabili file di tossicomani. Ed è proprio ad agosto che la lotta per il controllo di Quarto Oggiaro ha fatto un morto: un commando ha assassinato Francesco Carvelli, figlio dell’ergastolano Angelo Carvelli e nipote del sorvegliato speciale Mario Carvelli, ritenuto dagli inquirenti il nuovo ras del quartiere. Un’altra operazione, effettuata dalla Polizia nell’estate del 2008, ha confermato il monopolio dei calabresi nello smercio di droga. Alla fine di giugno con un poderoso blitz la Polizia ha azzerato un’organizzazione dedita allo spaccio, alla guida della quale c’erano esponenti della famiglia Sabatino-Carvelli. Ventinove arrestati, tre chili di cocaina e dieci di hashish sequestrati. Nell’ordinanza di custodia cautelare il gip Guido Salvini ha scritto: «Il carattere organizzato e il perdurare nel tempo dell’attività illecita, conosciuta in tutta la città, costituiscono un pericolo non solo per i consumatori, attirati da zone anche lontane, ma anche per l’infezione che tale fenomeno è in grado di diffondere nel quartiere». Secondo gli inquirenti la banda che smerciava la roba era considerata un serbatoio dal quale le cosche attingevano nuove reclute. I più promettenti, infatti, un giorno sarebbero entrati nelle fila dell’organizzazione. Una curiosità: al blitz di Quarto Oggiaro ha partecipato anche Raoul Bova. Con parrucca, berretto della Polizia e una videocamera, l’attore si è mescolato agli agenti per girare un documentario. L’operazione contro gli spacciatori ha riaperto il dibattito sulla presenza della criminalità nel milanese, e il giornalista Gianni Barbacetto (uno dei pochi ad aver più volte denunciato l’infiltrazione delle mafie nelle regioni del Nord) ha puntato il dito contro chi continua a minimizzare:

    La Polizia e la magistratura fanno il loro lavoro e ottengono buoni risultati nel contrasto ai singoli fenomeni criminali. Quello che manca è un monitoraggio dell’insieme dei fenomeni d’illegalità, che riesca a coglierne i segnali anche andando oltre le esperienze degli investigatori. Qualche mese fa era stata proposta a Palazzo Marino la costituzione di una commissione d’inchiesta sulle organizzazioni criminali a Milano. Poteva essere uno strumento utile, tanto più alla vigilia di un’Expo che, proprio ai confini di Quarto Oggiaro, alimenterà business milionari e scatenerà gli appetiti dei gruppi mafiosi che operano a Milano, città che è ormai diventata la vera capitale della più forte delle organizzazioni criminali, la ’ndrangheta. La maggioranza di centrodestra ha respinto la proposta: la commissione d’inchiesta sarebbe del tutto inutile perché senza poteri d’indagine, hanno ripetuto nei giorni scorsi autorevoli esponenti di Forza Italia, An e Lega. In realtà la Commissione Smuraglia, che in passato ha indagato sui fenomeni criminali a Milano, ha dimostrato di essere tutt’altro che inutile. Non è che invece la commissione sia oggi vista con fastidio perché non si vuole, nella Milano scintillante che si prepara al grande evento internazionale dell’Expo, sentir parlare di mafia? Perché non si vuole, accettando la commissione, accettare il fatto che Milano sia anche un grande magazzino dove hanno i loro stand (e i loro affari) tutte le organizzazioni criminali insediate nel Sud del Paese? Del problema sicurezza si è sempre pronti a parlare: più Polizia e faccia feroce con i rom. Ma sicurezza non è anche conoscenza e sradicamento delle mafie che operano in Lombardia?

    («la Repubblica», 27 giugno 2008)

    La riflessione di Barbacetto fa riferimento a una vicenda che la dice tutta su come i politici affrontano il problema della criminalità organizzata: a Milano nel febbraio 2008 il consiglio comunale si è spaccato sull’istituzione di una commissione antimafia incaricata di vigilare su appalti e subappalti, soprattutto in vista del fiume di denaro che si dovrà spendere per Expo 2015. Il centrosinistra ha votato a favore, mentre nel centrodestra non tutti la pensano allo stesso modo. Il no alla commissione è stato criticato dal gip Guido Salvini, che durante un dibattito sulla ’ndrangheta ha affermato che «la bocciatura non è stato un buon segnale: è stato un favore concesso a chi vuole che le mafie procedano indisturbate».

    Il sindaco Letizia Moratti, in disaccordo con una parte dello schieramento che la sostiene, in una trasmissione andata in onda su Telelombardia ha dichiarato: «Il giudice Salvini ha ragione […]. Personalmente sono favorevole a una commissione antimafia in Comune […]. Il Comune deve vigilare e vigilerà come sta già facendo. Abbiamo bloccato il 30 per cento dei subappalti perché non rispondevano alle regole imposte da Palazzo Marino. È nei subappalti che si annida la possibilità di infiltrazioni».

    Di diverso avviso il capogruppo di Forza Italia, Giulio Gallera:

    Abbiamo già votato contro e rivoteremo contro se la mozione dovesse essere ripresentata. Ribadisco la validità della posizione allora assunta da Forza Italia: una commissione comunale d’indagine sulla mafia resta una strumento inutile, visto che non ha poteri d’indagine […]. L’intervento di Salvini è scomposto, fuori luogo e inaccettabile. Il Comune fa moltissimo per combattere la criminalità organizzata. Palazzo Marino ha denunciato le imprese che facevano cartello con presunte infiltrazioni mafiose. Nel settore del commercio c’è un monitoraggio continuo delle licenze e la collaborazione con la magistratura è piena […]. Quelle di Salvini sono dichiarazioni gravi e non si capisce quale obiettivo abbiano. Forse si vuole coprire l’inefficienza della magistratura e addossare ad altri la responsabilità.

    («Corriere della Sera», 27 giugno 2008)

    Contro la commissione si è schierato anche il capogruppo di An, Carlo Fidanza, che a Maurizio Giannattasio del «Corriere della Sera» ha spiegato: «Siamo pronti a reiterare il nostro no. Abbiamo bloccato la mozione perché è uno strumento senza poteri. È più una trovata demagogica che un organismo realmente efficace. La questura non viene, i magistrati nemmeno, non ci sono i poteri della Commissione parlamentare d’inchiesta antimafia. Quindi è inutile. Solo un atto simbolico: istituire la commissione non vuole dire essere contro la mafia. Il Comune lo dimostra quotidianamente bloccando gli appalti sospetti».

    Sulla stessa lunghezza d’onda il capogruppo della Lega, Matteo Salvini: «Sarebbe completamente inutile, mancano le competenze e i poteri. Il Comune da parte sua deve vigilare sugli appalti, ma una commissione non ha senso. A Milano c’è un detto: Ofelè fa el tò mesté». Ciascuno faccia il suo mestiere, ha suggerito l’esponente leghista.

    Su questo tema i commercianti si sono però dimostrati più sensibili degli amministratori locali. In una intervista a Rita Squerzè del «Corriere della Sera», Luca Squeri, responsabile del settore Sicurezza e legalità della Confcommercio, è stato fin troppo chiaro:

    Il nostro è un appello al senso di responsabilità di tutti, forze politiche, parti sociali e istituzioni. Il problema delle infiltrazioni mafiose sul nostro territorio è troppo grave per poterci permettere divisioni e contrasti. Bisogna intervenire subito […]. Il problema è talmente serio che non ci si possono permettere polemiche. Lasciatelo dire a noi che con la piaga delle infiltrazioni della criminalità organizzata abbiamo a che fare, per esempio, all’Ortomercato. A Milano la cancrena della mafia e della ’ndrangheta si sta diffondendo in modo silenzioso e invisibile. Perché qui la malavita non ha bisogno di marcare il territorio come al Sud. Qui viene solo a fare affari […]. Impossibile non essere d’accordo con il sindaco Moratti. Se i partiti litigano la nostra proposta è di insediare una commissione antimafia non in consiglio ma in prefettura. In questo contesto dovrebbero essere rappresentate anche le parti sociali. Non si può certo tacciare un giudice come Guido Salvini di attivismo politico. Se a suo parere l’aver bocciato la commissione antimafia in consiglio comunale è un favore alle cosche, dobbiamo pur tenerne conto.

    (27 giugno 2008)

    In ogni caso, mentre le forze politiche discutono sul da farsi, dalle indagini è emerso che i soldi accumulati soprattutto con lo smercio di cocaina e con le estorsioni, le ’ndrine li hanno investiti in imprese legali che operano nel settore dell’edilizia, soprattutto nel movimento terra, cioè il trasporto di terra e ghiaia per i cantieri edili. Nel luglio 2008 il Gico della Guardia di Finanza di Milano ha arrestato dieci presunti appartenenti alle cosche Barbaro-Papalìa di Platì (Reggio Calabria); in manette sono finiti pure due insospettabili coniugi di Rho (Milano). Gli investigatori hanno scoperto che nell’hinterland milanese, in particolare tra Buccinasco, Corsico e Pogliana Milanese, i calabresi avevano il monopolio del movimento terra: tutti gli imprenditori sapevano che l’affare apparteneva alle due famiglie criminali e che pertanto occorreva pagare una tangente per poter trasportare terra e ghiaia. Chi si opponeva riceveva la visita di giovanotti armati e pronti a sparare, come è emerso da intercettazioni telefoniche. Qualcuno si è ritrovato la portiera dell’auto sforacchiata dai proiettili, qualcun altro ha vissuto momenti di autentico terrore quando di fronte a una pistola sventolata sotto al naso s’è sentito dire: «Adesso o fai l’assegno o ti sparo in bocca».

    Nell’ordinanza di custodia cautelare il gip Piero Gamacchio ha scritto che i gruppi Barbaro e Papalìa:

    Avvalendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo, ricorrendo altresì a ulteriori atti di intimidazione rappresentati da danneggiamenti e incendi sui cantieri, esplosioni d’arma da fuoco contro beni di altri imprenditori, incendi di vetture in uso a concorrenti o pubblici amministratori, minacce a mano armata, imposizione di un sovrapprezzo nei lavori di scavo, da destinare ai Papalìa e alle loro famiglie, potendo contare così sulla conseguente condizione di assoggettamento e di omertà della generalità dei cittadini, acquisivano il controllo dell’attività di movimento terra nella zona sud-ovest dell’hinterland milanese; imponevano agli operatori economici la loro necessaria presenza negli interventi immobiliari, ai pubblici amministratori del Comune di Buccinasco la liquidazione di somme di denaro per lavori mai autorizzati, così procurandosi ingiusto profitto […]; smaltivano altresì rifiuti tossici derivanti dalla demolizione di edifici in discariche abusive, ovvero su aree pubbliche, che poi loro stessi chiedevano di bonificare.

    Dopo aver spiegato che per molti clan mafiosi «la terra vale oro», il comandante del Gico della Finanza di Milano, Domenico Grimaldi, ha aggiunto: «Si tratta degli epigoni di Domenico, Rocco e Antonio Papalìa, che hanno investito i propri reggenti direttamente dal carcere dove scontano l’ergastolo […]. Da tempo i Papalìa e i Barbaro cercavano di riprodurre nel milanese lo stesso controllo criminale del territorio attuato in Calabria, anche chiamando a lavorare decine di ragazzi, che prima servivano come autisti dei camion o come vedette, e con il tempo scalavano la gerarchia mafiosa». Secondo gli investigatori a dirigere l’organizzazione sarebbe stato Salvatore Barbaro, giovane rampollo dell’omonima famiglia e figlio di Domenico l’Australiano, sposato con Serafina Papalìa, figlia di Rocco, uno dei boss più importanti della ’ndrangheta sbarcata al Nord. Un ragazzo che non ha nulla da invidiare al genitore, come ha raccontato Mario Portanova: «Salvatore è più legato al suocero che al padre, e Rocco Papalìa lo avrebbe pertanto designato come suo erede. Non tutti i clan appoggiano la decisione. Salvatore è violento, prevaricatore, anche nei rapporti interni al clan […]. Si mette troppo in mostra, belle macchine, una villa sontuosa, troppa roba per la sua età. L’indagine ha svelato che i suoi complici temevano che presto gli sbirri gli avrebbero chiesto conto di un tenore di vita difficilmente spiegabile con una dichiarazione dei redditi da impiegato. Fa una vita da industriale, alla Berlusconi, si lamentavano, e senza aver mai mosso un dito in un cantiere» («Diario», 25 luglio 2008).

    Insomma, nella regione che è la locomotiva economica del nostro Paese accadono cose che ricordano il profondo Sud. Ma nel capoluogo il clima non è poi così diverso da quello di Napoli o Palermo. Il coordinatore della Dda di Milano, Ferdinando Pomarici, ha spiegato a Luigi Ferrarella del «Corriere della Sera»: «Anche a Milano l’economia è drogata. Nell’edilizia, come dimostra anche quest’ultima operazione, ci sono intere zone in cui il mercato, ad esempio quello del movimento terra, non esiste. E lo stesso accade in taluni servizi dei mercati ortofrutticoli, nelle cooperative di facchinaggio, nelle agenzie immobiliari, nelle società di sicurezza privata per locali pubblici, nelle sale giochi, nel campo dei garage e degli autosaloni».

    Due giorni dopo la retata a Buccinasco, a San Vittore Olona, in provincia di Milano, un commando ha assassinato Carmelo Novella, della omonima famiglia di Guardavalle (Catanzaro). Era seduto al bar del Circolo degli ex combattenti e reduci, in mezzo ad altre persone, quando i killer, che avevano appena finito di prendere il caffè, gli hanno sparato addosso con due pistole calibro 38: tre colpi in faccia, il quarto sul braccio che la vittima ha istintivamente alzato per proteggersi il volto. È stato un omicidio eccellente perché Novella era tra i soci principali di Domenico Barbaro, arrestato nell’inchiesta sulle imprese del movimento terra. Prima che arrivassero gli assassini al Circolo di San Vittore Olona, il nome di Novella era già noto alle forze dell’ordine: era considerato uno dei big di una delle famiglie più potenti del catanzarese e per essere da tempo un imprenditore del campo dell’edilizia. Tre mesi prima dell’omicidio, gli erano stati sequestrati beni per cinque milioni di euro.

    L’eliminazione di un mafioso di rango elevato ha dato ragione, per l’ennesima volta, al pm Macrì, che poche ore dopo l’agguato di San Vittore Olona ha replicato a chi considera eccessivi i suoi ripetuti allarmi sulle infiltrazioni della ’ndrangheta in Lombardia, ribadendo che le sue dichiarazioni si riferivano a fatti ormai accertati e definiti con sentenze irrevocabili; e nella stessa occasione ha espresso il proprio apprezzamento per la sensibilità dei tre sindaci del milanese che hanno riconosciuto nella presenza della ’ndrangheta sul territorio una minaccia sicuramente maggiore rispetto alla microcriminalità di origine straniera.

    L’operazione contro le ditte gestite dai Barbaro-Papalìa ha in ogni caso rappresentato una ulteriore conferma del fatto che a Milano e in provincia l’edilizia privata è controllata in regime quasi di monopolio dalla mafia calabrese attraverso un meccanismo ormai consolidato:

    Inizialmente società operanti con capitali mafiosi ma intestate a prestanome incensurati e apparentemente privi di collegamento con i clan, acquistano terreni agricoli ottenendo poi dai Comuni le relative licenze edilizie e facendo fronte agli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria. In un secondo momento le stesse società affidano la costruzione di unità immobiliari, attraverso contratti di appalto, a società in cui compaiono invece imprenditori o loro familiari legati in modo più diretto ai gruppi della ’ndrangheta. Il pagamento del contratto di appalto non avviene poi in denaro bensì con la cessione di una quota, di solito il 50 per cento, delle unità immobiliari costruite che l’impresa costruttrice vende subito ad altre società immobiliari anch’esse legate ai clan che rivendono a privati. Tale meccanismo consente quindi di porre degli schermi di salvaguardia tali da non attirare troppo l’attenzione sul reale beneficiario finale dell’attività edilizia e tutte le società coinvolte (che si alimentano con continui ingenti finanziamenti soci con i quali poi vengono pagate le reciproche prestazioni) hanno la possibilità di nascondere l’origine di somme provenienti dai traffici illeciti e di ottenere in modo abbastanza semplice flussi di denaro pulito.

    (Relazione sulla ’ndrangheta della Commissione parlamentare d’inchiesta, febbraio 2008)

    La penetrazione nel settore delle costruzioni edili non è una novità, anzi. Per le cosche calabresi quello del mattone è un affare antico, tanto più che i costi delle imprese amiche vengono abbattuti grazie all’utilizzo di operai a bassa specializzazione arruolati attraverso il cosiddetto caporalato delle braccia. La manodopera, infatti, è costituita perlopiù da clandestini approdati sulle coste calabresi con le carrette del mare e fatti poi uscire dai Centri di permanenza temporanea di Crotone e Rosarno. I curdi e i turchi approdati sulle coste del crotonese e del catanzarese vengono portati su in Lombardia per lavorare nelle ditte di facchinaggio.

    Le aziende che invece non fanno parte dell’organizzazione e che stanno sul mercato senza l’assenso della ’ndrangheta, ricevono messaggi chiari: incendi nei cantieri, danneggiamenti di attrezzature. Per la verità raramente si ricorre ad azioni di forza perché in alcune aree le ’ndrine gestiscono l’edilizia in regime di monopolio, come ad esempio accade in Brianza o nel triangolo Buccinasco-Corsico-Trezzano, dove nessuno osa fare concorrenza agli amici degli amici. Ovviamente ai criminali è indispensabile la compiacenza di rappresentanti della pubblica amministrazione. E che l’edilizia rappresenti un affare al quale non si può rinunciare, lo dimostrano alcuni episodi avvenuti a Buccinasco, il comune della provincia di Milano definito la Platì del Nord perché ospita moltissimi calabresi originari del piccolo centro del reggino. Proprio a Buccinasco, infatti, la ’ndrangheta ha dovuto rinunciare alla strategia dell’inabissamento, quando tra il marzo 2003 e il novembre 2005 furono date alle fiamme le automobili del sindaco Maurizio Carbonera, finito nel mirino per essersi impegnato ad approvare un piano regolatore poco in linea con le aspettative dei mafiosi. In un’altra occasione, invece, a Carbonera è stata recapitata una busta con dentro un proiettile di mitragliatrice. Che Buccinasco sia considerata la Platì del Nord, lo ha confermato pure il pentito Saverio Morabito, esponente dell’omonima famiglia, nel corso della puntata del 31 agosto 2008 di Blu Notte – Misteri italiani, la trasmissione di Carlo Lucarelli: «Loro avevano trasformato la zona di Buccinasco in un clone di Platì. Certo, mancavano soltanto le montagne, però le capre le avevano anche qui. Ci si riuniva, facevano le loro mangiate, proprio come a Platì. L’unica cosa è che qui avevano delle automobili un po’ fuoriserie, montagne di soldi che giravano nelle tasche. Però la mentalità, le abitudini, i modi e gli usi erano quelli di Platì».

    I calabresi, dunque, sono diventati così forti e potenti da indurre il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Francesco Forgione, ad affermare:

    Milano e la Lombardia rappresentano la metafora della ramificazione molecolare della ’ndrangheta in tutto il Nord, dalle coste adriatiche della Romagna ai litorali del Lazio e della Liguria, dal cuore verde dell’Umbria alle valli del Piemonte e della Valle d’Aosta […]. Il 13 gennaio 1994 nel corso dell’XI Legislatura la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia approvava la relazione sugli insediamenti e le infiltrazioni di organizzazioni di tipo mafioso in aree non tradizionali, le principali regioni del Nord e del Centro Italia. La relazione si collocava contestualmente in quella stagione straordinaria di lotta alla mafia che, soprattutto in Lombardia, aveva visto la disarticolazione di intere organizzazioni a seguito di operazioni di Polizia coordinate dalle procure distrettuali che avevano portato all’arresto, e quasi sempre alla condanna, di migliaia di appartenenti a gruppi criminali soprattutto affiliati alla ’ndrangheta. La relazione già evidenzia come in Lombardia la ’ndrangheta era l’organizzazione più potente, cita i risultati di operazioni quali Wall Street e Nord-Sud che allora erano in pieno svolgimento e che, insieme alle successive, in particolare l’operazione Count Down dell’ottobre 1994 e l’operazione Fiori della Notte di San Vito, del novembre 1996, riguardante il clan Mazzaferro, sono sfociate nei grandi dibattimenti sino ai primi anni del 2000 che si sono conclusi con centinaia di condanne […]. Si può affermare che con tali operazioni è stata quasi eliminata la componente militare di imponenti organizzazioni, dai soldati fino ai generali, e sono stati riconquistati dalle forze dello Stato territori che erano fortemente condizionati da cosche come quelle di Coco Trovato nel lecchese, i Morabito-Palamara-Bruzzaniti e i Papalìa-Barbaro-Trimboli. Da allora nessun’altra indagine approfondita di impulso parlamentare si è occupata

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