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Ace fatale
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E-book278 pagine4 ore

Ace fatale

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Info su questo ebook

Claudia apprende dell’improvvisa morte del suo fratellastro, Alberto, per uno strano incidente avvenuto negli spogliatoi della scuola di tennis che frequentava, e, insospettita, decide di indagare iscrivendosi, a sua volta, alla scuola, con il suo diverso cognome, che dovrebbe nascondere il suo legame con Alberto. Inizia, però, lo stesso, a ricevere strane lettere anonime che suggeriscono che qualcuno sappia chi è ed a subire quelli che paiono, a tutti gli effetti, attacchi intimidatori.
Il buon senso consiglierebbe di lasciare al commissario Fazio, incaricato del caso, eventuali ulteriori indagini, ma il suo apparente disinteresse per i nuovi elementi da lei portati, la volontà di scoprire la verità e, forse, un’imprudente infatuazione che vorrebbe nascondere anche a sé stessa, la spingono a continuare quel gioco che si rivela sempre più intricato e pericoloso, tra continui capovolgimenti di scena sempre più torbidi, fino ad un epilogo che la costringerà ad una scelta complicata.
LinguaItaliano
Data di uscita20 giu 2019
ISBN9788834143803
Ace fatale

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    Anteprima del libro

    Ace fatale - guido quagliardi

    ACE FATALE

    Guido Quagliardi

    PERSONAGGI

    - Claudia Baraldi: giovane studentessa

    - Alberto Adami: allievo scuola tennis, fratellastro di Claudia

    - Giovanni Adami: padre di Claudia e Alberto

    - Sandra Adami: moglie di Giovanni, madre di Alberto.

    - Patrizia Zambon: vecchia compagna di scuola di Claudia

    - Commissario Fazio: commissario polizia di Verona

    - Federico Antinori: maestro del Rafa Nadal Tennis Club di Verona

    - Maria Cortes: seconda maestra scuola tennis

    - Ayşa: addetta ristorante/bar scuola tennis

    - Omar: addetto manutenzione campi, marito di Ayşa

    - Dottor Sartori: medico della scuola tennis

    - Sara Sensini: allieva scuola tennis, deceduta in un incidente

    - Pino Sensi: allievo scuola tennis

    - Carlo Baratta: allievo scuola tennis

    - Karl Fisher: allievo scuola tennis

    - Franco Schiavon: allievo scuola tennis

    - Bruno Dellera: allievo scuola tennis

    - Arturo Senisi: allievo scuola tennis

    - Cecilia Santandrea: avvenente allieva scuola tennis

    - Arianna Rossi: allieva scuola tennis

    - Debora D’Urso: allieva scuola tennis

    - Giovanna Rocco: allieva scuola tennis

    - Marco Dalla: membro club tennis

    - Sandro Salemi: membro club tennis

    - Gino Rosi: responsabile sicurezza hotel Sardegna

    I

    In quei primi giorni di giugno la temperatura era ancora mite e nel cielo non c’era una nube. Immobile, attendeva il servizio dell’avversario. Controsole, alle due di una giornata torrida, doveva tenere gli occhi socchiusi per filtrare in qualche modo i suoi raggi abbaglianti.

    Era sceso in campo per la prima volta dopo quel tragico venerdì, non potendo evitare di presentarsi a un torneo cui si era iscritto da tempo, e non se la sentiva proprio di giocare, ma non poteva perdere.

    Con i muscoli tesi e le ginocchia flesse attendeva il servizio dell’avversario che gli aveva appena strappato il servizio, portandosi su 4-2.

    Non riusciva però a concentrarsi e continuava a rivedere, nella propria mente, quel corpo inanimato sul pavimento. Il ricordo gli dava la nausea. Una seconda morte violenta dopo quella di lei. Due allievi dello stesso piccolo club a pochi mesi di distanza l’uno dall’altra! La polizia non aveva ipotizzato collegamenti, ma il fatto non poteva non destare sospetti.

    Il tormento sconvolgeva il suo animo e non gli dava pace: Prima Sara, alcuni mesi prima. Ricordava ancora quando l’aveva vista arrivare al club la prima volta, così bella e sensuale. Quel viso d’angelo su un corpo da sballo! Qualcosa era scattato dentro di lui già dal primo momento, anche se aveva mascherato a lungo il suo interesse. Dopo la sua morte aveva cercato di reprimere le sue emozioni e i suoi rimorsi, e dimenticare, ma poi... Ora Alberto! Giorni prima era venuto a parlargli. Aveva intuito qualcosa, ma non abbastanza da capire cosa fosse successo, né dove portava la sua intuizione. Gli era costato caro!

    Il missile arrivò ad almeno 180 Km/ora, esattamente all’incrocio delle righe, alla sua destra. Nulla da fare. Ace! 15-0. Il preciso e fortissimo servizio era il maggior punto di forza dell’avversario e, quando riusciva a piazzarlo angolato a bordo campo, c’era ben poco da fare.

    Si spostò a sinistra per ricevere il nuovo servizio, ma le immagini di qualche giorno prima continuavano fluttuare nella sua mente, perseguitandolo. Una seconda morte! Nella sua mente rivedeva ancora Alberto steso sul pavimento, in quella posizione innaturale, con un filo di sangue che gli usciva dalla tempia.

    Questa volta il nuovo servizio atterrò alla sua sinistra, per una volta non troppo forte, ma proprio sulla riga. Riuscì a intercettarlo, ma non a rimettere la pallina in campo. 30-0. Maledizione!

    Ora di nuovo al ricevimento, sulla destra. Possibile che quel maledetto le mettesse tutte dentro di prima, così forti e precise? O forse era lui che non riusciva a concentrarsi abbastanza. La mano che teneva la racchetta era sudata. La asciugò rapidamente sui pantaloncini prima di rimettersi in posizione.

    Il servizio arrivò nuovamente al centro, fortissimo e indirizzato al corpo come il precedente, ma, per fortuna, fuori di poco. Aveva dovuto scattare di lato per evitare di essere colpito da quel missile. Tirò un respiro di sollievo.

    Il secondo servizio, in kick, era più abbordabile e riuscì a respingerlo di diritto, ma con un tiro non sufficientemente forte e angolato. L’avversario, quindi, potè entrare a sua volta di diritto e piazzare un precisissimo, irraggiungibile tiro a fondo campo, alla sua destra. 40-0.

    Se perdeva anche questo gioco le possibilità di recuperare il set sarebbero state minime. Avrebbe voluto scagliare la racchetta per terra, ma non doveva mostrare la sua frustrazione, o avrebbe inutilmente contribuito a galvanizzare l’avversario. Pur a fatica mantenne dunque la calma, per lo meno apparente. Doveva concentrarsi! Non poteva permettersi di perdere contro un avversario sulla carta a lui molto inferiore. Che figura avrebbe fatto?

    Si impose di scacciare, almeno per qualche minuto, ogni spiacevole pensiero dalla mente e si preparò a ricevere quel quarto servizio che poteva determinare il game e, probabilmente, il set. Usa il cervello, si disse. Aveva già giocato contro di lui. Psicologicamente non aveva una grande tenuta. Fosse riuscito a togliergli un po’ della sua sicurezza, avrebbe ripreso la partita in pugno. Il suo avversario aveva una battuta formidabile, ma era prevedibile nella sequenza: non batteva mai due volte il primo servizio nella stessa direzione. L’ultimo era stato al centro, quindi ora doveva aspettarsi un tiro angolato. Probabilmente sul suo rovescio.

    Come previsto, la palla arrivò fortissima alla sua sinistra e riuscì, così, a intercettarla e a piazzare un precisissimo rovescio lungolinea, imprendibile. 40-15.

    Un sospiro di sollievo. Aveva evitato il peggio, ma doveva mantenere alta l’attenzione. La massima concentrazione era indispensabile per vincere quella, come qualsiasi altra partita.

    Ora nuovamente a ricevere sulla destra. L’altro mancò nuovamente il primo servizio. Aveva quindi una seconda opportunità per recuperare un quindici. Non doveva sbagliare! Focalizzò l’attenzione sul movimento dell’avversario per capire la direzione del tiro. Angolato. Fece il tempo a scattare a destra e a piazzare un ancor più angolato diritto che fulminò l’avversario. 40-30.

    Un passo dal deuce! Ancora uno sforzo per pareggiare. Poi, ai vantaggi, avrebbe avuto la meglio, ne era convinto. Se almeno non avesse avuto quel maledetto sole negli occhi! Provò a spostarsi un passo più indietro, per allungare di una frazione di secondo il tempo di reazione.

    Nuovo servizio di prima, ma questa volta intercettato, anche se rimettendo la palla un po’ troppo corta e al centro. Maledizione! Ora era nei guai! L’avversario, però, lasciatosi ingolosire, provò un fortissimo diritto che andò a fermarsi sul nastro. Che culo! 40 pari! Un momento di sbandamento, causato dalla fretta di approfittare dell’occasione, e quel fesso si era lasciato raggiungere.

    Lo vide sbattere rabbiosamente la racchetta a terra. Dunque, i suoi nervi cominciavano a cedere. Doveva approfittarne! Quando l’avversario perde la concentrazione, mai concedergli l’opportunità di recuperarla!

    Il successivo primo servizio andò fuori. Aveva visto giusto: la fiducia acquisita dall’avversario con il break conquistato poco prima stava vacillando. Ora massima concentrazione! Sul secondo servizio intervenne d’anticipo, piazzando una palla a due centimetri dalla riga di fondo. L’avversario dovette indietreggiare, rispondendo con un tiro non troppo forte e centrale. Drop-shot perfetto, che l’altro non riuscì a raggiungere. Vantaggio esterno.

    Ora un ultimo sforzo, per recuperare il break di svantaggio!

    Non servì neppure quello: doppio fallo. 3-4. Ancora sotto di un game, ma ora al servizio e con l’avversario molto meno convinto delle proprie possibilità.

    Rientrando in panchina, cercò di mantenere l’attenzione sulla partita. Doveva imporsi di non pensare a quanto lo turbava, pur se non era facile. Avrebbe avuto tutto il tempo di farlo dopo. Quello non era il momento di dare all’avversario l’opportunità di recuperare il morale! Cercò di concentrarsi facendo rimbalzare più volte a terra una palla.

    Al rientro in campo, con la battuta a disposizione e il sole ora a favore, vinse facilmente il game, e poi riuscì a strappare quello dell’avversario ai vantaggi, portandosi sul 5-4.

    Cambio campo, e nuovamente con il sole negli occhi. Concentratissimo, non ebbe difficoltà a vincere il decimo game e chiudere, così, il primo set. Il secondo, vinto 6-1 contro un avversario ormai demoralizzato, fu una passeggiata.

    Raggiunta la rete gli strinse sorridendo la mano e, raccolta la borsa, si avviò verso gli spogliatoi. Entrarvi gli dava ancora la nausea, ma doveva imporsi di non lasciarlo trasparire e continuare a comportarsi come abitualmente.

    II

    L’aveva trovato Omar, il guardiano, entrando negli spogliatoi prima di chiudere i cancelli del club, come ogni sera, per controllare che tutto fosse in ordine e nessuno dei ragazzi avesse lasciato rubinetti aperti.

    Alberto giaceva a terra nel corridoio sul quale si aprivano i servizi, con la testa sul bordo del piatto doccia della prima cabina. Era nudo, salvo per l’asciugamano avvolto intorno alla vita. Vicino a lui un flacone di shampoo, parte del quale rovesciato lì intorno.

    Immaginò che gli fosse sfuggito dalle mani mentre stava per entrare a lavarsi e che, poi, fosse scivolato sul pavimento divenuto sdrucciolevole. Una brutta caduta, evidentemente. Quel ragazzo che dopo l’allenamento sui campi rimaneva spesso a lungo a fare esercizi di stretching era sempre l’ultimo a lasciare gli spogliatoi. Gli altri allievi, che invece preferivano normalmente correre a casa senza cambiarsi, dovevano essere già usciti prima che lui cadesse. Per quanto ricordava, quella sera non c’erano in giro neppure altri membri del club. Nessuno aveva quindi potuto soccorrerlo.

    Si era chinato per rianimarlo, supponendo che avesse semplicemente perso i sensi, ma si era subito accorto, con raccapriccio, che Alberto era morto. Non aveva avuto dubbi. Ne aveva viste altre di morti violente, nel suo paese, in gioventù. Solo allora aveva notato la piccola macchia di sangue sul piatto doccia. Doveva esser caduto veramente male, povero ragazzo.

    Sconvolto, aveva lasciato gli spogliatoi per correre a chiamare qualcuno. Ma chi occorreva avvertire, si era domandato a quel punto: il pronto soccorso, il medico che di tanto in tanto controllava i ragazzi del club, il maestro Antinori, o, forse, la polizia? E poi, compito più ingrato, qualcuno doveva avvertire anche la famiglia di Alberto.

    Alla fine, il primo a cui aveva telefonato era stato il medico, il dottor Sartori, anche se era ben conscio che il suo intervento ormai non avrebbe potuto aiutare il giovane che giaceva lì a terra.

    Poi aveva provato a telefonare al maestro Antinori, nella speranza che potesse occuparsi lui di tutto il resto, ma non lo aveva trovato. Si era allora ricordato che, a volte, la sera il maestro chiudeva il cellulare per non essere disturbato dai genitori degli allievi più piccoli, che cercavano spesso di mettersi in contatto con lui fuori orario per discutere delle questioni più stupide.  O, forse, la batteria del suo cellulare si era scaricata senza che se ne accorgesse. Comunque, non poteva raggiungerlo. Era stato dunque costretto a chiamare la Cortez, la nuova maestra argentina che lo affiancava da poco più di un mese, pur sapendo che lei, straniera e da poco a Verona, non era la persona ideale per gestire un simile problema. Avrebbe però potuto, se non altro, scaricare su di lei la responsabilità di informare la famiglia di Alberto.

    In mancanza di Antinori toccava invece a lui, a quel punto, avvertire la polizia: ufficialmente, la Cortez non aveva ancora il permesso di lavoro e, quindi, non poteva sicuramente farlo lei. Meglio si tenesse il più possibile defilata, facendosi passare per una semplice tennista straniera di passaggio per qualche torneo. Alzando la cornetta, però, per un attimo era stato preso dal panico: e lui l’aveva rinnovato il maledetto permesso? Stupido! Certo che lo aveva fatto! tre mesi prima. Di cosa si preoccupava?

    Il centralinista del commissariato, che gli aveva inizialmente risposto con voce alquanto annoiata, si era subito fatto più attento quando gli aveva spiegato dell’incidente, confermandogli che, al più presto, sarebbe giunta sul posto una pattuglia per verificare l’accaduto. Che intanto non toccasse nulla, lo aveva ammonito.

    La pattuglia era effettivamente arrivata dopo non più di un quarto d’ora, più o meno contemporaneamente al dottor Sartori, e, insieme, erano entrati negli spogliatoi, accompagnati da Omar.

    Il dottore, chinatosi qualche minuto sul corpo a terra, aveva subito ipotizzato la morte per un’emorragia interna dovuta al trauma prodottosi nella zona temporale sinistra del cranio, trauma verosimilmente causato dalla caduta e dal conseguente impatto contro il bordo del piatto doccia. I due poliziotti avevano redatto il verbale e anticipato al loro comando, per radiotelefono, il risultato dei loro primi accertamenti, che ipotizzavano morte per cause accidentali.

    Quando erano ancora tutti negli spogliatoi, all’improvviso era entrata anche la Cortez che, visto il cadavere ancora a terra, si era sentita mancare. Arrampicatosi sugli specchi per inventare qualcosa da raccontare ai due poliziotti per spiegare chi fosse e come mai fosse lì a quell’ora, Omar aveva poi dovuto accompagnarla al baretto del club, che intanto sua moglie Ayşa era accorsa ad aprire, farla sedere e spingerla a mandar giù un bicchierino di cognac, così che potesse riprendersi.

    Finalmente, dopo qualche minuto, la giovane aveva recuperato il sangue freddo necessario per chiamare la famiglia di Alberto, compito sicuramente non facile. Balbettando, nel suo italiano stentato, si era limitata a segnalare un grave incidente e a pregare il padre, che aveva risposto, di venire al club al più presto. Erano passati solo pochi minuti prima che arrivasse al club anche lui, con la moglie. Evidentemente non abitavano molto lontano. Lì era toccato al dottor Sartori e ai due poliziotti occuparsi di fornire ai due genitori disperati i dettagli dell’accaduto e accompagnarli a vedere il figlio, che giaceva ancora negli spogliatoi. Una scena straziante alla quale Omar non aveva potuto sottrarsi.

    Il trambusto si era protratto fino a tarda notte, prima con l’arrivo del Commissario Fazio che, appreso quanto accaduto e trovandosi nei paraggi per una cena con amici, aveva voluto venire ad accertarsi di persona dei fatti, e, poi, degli infermieri incaricati di trasferire la salma all’obitorio dove sarebbe stata effettuata l’autopsia, pur se non parevano esserci dubbi sulle cause accidentali della morte che, infatti, erano state confermate nel giro di qualche giorno.

    III

    Claudia, all’estero per una breve vacanza in Francia, avendo avuto problemi di connessione, aveva appreso della morte del fratellastro solo quella domenica mattina, al suo rientro a Milano, da una telefonata di suo padre. Appreso che i funerali si sarebbero tenuti nel pomeriggio dello stesso giorno, si era precipitata alla stazione per prendere il primo treno per Verona, senza neppure disfare i bagagli.

    Lei e Alberto erano entrambi figli dello stesso padre, Giovanni Adami, ma di madri diverse. Mentre Alberto era l’unico figlio legittimo nato dal matrimonio di Giovanni con sua moglie Sandra, Claudia era nata da una sua precedente, burrascosa relazione giovanile con una ragazza che, dopo un’ennesima furibonda lite, lo aveva piantato in asso, per poi partire quasi subito per un lungo viaggio in India, senza neppure comunicargli che era rimasta incinta.

    Claudia e Alberto avevano scoperto di esser fratelli solo alcuni anni prima, quando la madre di Claudia, che mai si era sposata, messo da parte l’orgoglio, avendo perso il lavoro si era alla fine decisa a rivolgersi al compagno di tanti anni prima per chiedergli di aiutarla a sostenere le spese per l’università di quella figlia che lui, fino a quel momento, non aveva mai saputo di avere.

    Suo padre, nel comunicarle la triste notizia, le aveva proposto di fermarsi da lui la sera del funerale e, magari, qualche giorno in più, ma lei, imbarazzata all’idea di dormire sotto lo stesso tetto con sua moglie Sandra, che conosceva solo di sfuggita per averla incontrata al massimo un paio di volte, aveva rifiutato, dicendo di non voler provocare addizionale disturbo in giorni già tanto difficili.

    Poi, deposto il cellulare, aveva subito prenotato un hotel. Solo per una notte, pensando di rientrare a Milano la mattina successiva. Poi, preparata in tutta fretta uno zainetto con il minimo necessario, si era precipitata in stazione per prendere il primo treno per Verona, ma questo aveva fatto ritardo per dei lavori sulla linea ed era così arrivata proprio all’ultimo, quando già parecchi di coloro che non erano parenti stretti stavano lasciando la chiesa. Essendo i posti vicino a suo padre e Sandra ancora occupati, si era seduta un paio di file dietro, in attesa che si alzassero, e, anche dopo che si furono alzati, dovette attendere, a pochi passi da loro, che finissero di parlare con alcune persone che li avevano immediatamente circondati.

    Quando poi, finalmente, aveva potuto avvicinarsi e abbracciare suo padre, aveva avuto occasione di scambiare solo poche parole con lui, che aveva subito dovuto allontanarsi per riportare a casa sua moglie, colta da un malore. Così, più tardi, lo aveva chiamato per chiedere se potevano trovarsi da qualche parte, prima del suo rientro a Milano, la mattina successiva. Aveva invece risposto Sandra. Non potendole passare suo padre, uscito per parlare con qualcuno, l’aveva invitata a casa, insistendo che si fermasse anche a cena. Non voleva crearle disturbo in un’occasione simile, ma, d’altra parte, rifiutando avrebbe potuto offenderla, o dare l’impressione di scarso interesse per la morte del fratello, per cui, di fronte alla sua insistenza, aveva finito per accettare.

    Venti minuti dopo era già di fronte alla loro porta. Prima di suonare, si aggiustò velocemente i capelli. Poi, fattasi coraggio, premette il campanello. Si sentiva ancora imbarazzata di fonte alla moglie di suo padre, anche se doveva ammettere che, le poche volte che si erano viste, si era sempre mostrata molto amichevole. Sperava, quindi, che suo padre fosse intanto rientrato.

    Venne ad aprire Sandra. Erano già le dieci, ma era ancora in vestaglia e alquanto dimessa.

    Ciao Sandra, sono arrivata troppo presto?

    Figurati Claudia, entra pure. Scusami se è ancora tutto in disordine, ma da quando... non me la sento proprio di rigovernare! Non riesco a fare altro che pensare ad Alberto. La notte mi alzo e vado a cercarlo nella sua stanza, nella speranza che sia stato solo un brutto sogno, ma non è così, purtroppo. Dai, entra, non rimanere sulla porta! Gianni dovrebbe rientrare da un momento all’altro.

    La fece accomodare in salotto. Claudia notò i suoi occhi pesantemente cerchiati e il tremito delle mani. Avrebbe voluto poterla confortare, ma si conoscevano appena e non sapeva da dove incominciare.

    Posso offrirti qualcosa, intanto? Hai fatto colazione? Vuoi una tazza di caffe? le chiese Sandra appena si furono sedute, rialzandosi subito per andare a preparare qualcosa.

    Per un impulso improvviso, Claudia la trattenne: Non ti preoccupare, Sandra! Ho già fatto colazione. Invece, potremmo magari scambiare due parole prima che rientri mio padre, se non ti dispiace. L’ho trovato completamente distrutto e non mi sento di parlare con lui di qualcosa che... non so come dire... nelle disgrazie le donne sono spesso più forti degli uomini...

    Sandra la guardava senza parlare, in attesa che arrivasse al dunque.

    Claudia si fece forza e continuò: Ecco, non è che ascoltassi, ma ieri, in chiesa, ero proprio dietro di te quando stavi parlando con tua sorella. Sulle prime non l’avevo riconosciuta, avendola incontrata precedentemente solo una volta, per cui ero rimasta lì vicino in attesa che finiste, ma poi, ricordato chi era, stavo per interrompervi per salutare anche lei, quando ho involontariamente sentito qualche vostra parola e ho preferito non intromettermi. Ci ho però ripensato tutta la notte e, quindi, scusami se te ne parlo. Dal poco che ho udito, mi è parso di capire che tu non sia del tutto convinta della ricostruzione dei fatti della polizia. Posso chiederti perché?

    Hai sentito bene, Claudia! E non ti scusare. Hai perfettamente ragione di chiedermi il perché dei miei dubbi, ma non ne parlare con Gianni, o mi darà ancora della matta! Può anche darsi che lo sia, eppure c’è qualcosa che non mi convince nell’incidente di Alberto. Forse è solo una sensazione. Sarà che, essendo sua madre, non ne voglio accettare la morte, ma non riesco a credere che sia caduto vittima di un così stupido incidente. E poi, dopo quanto già successo a Sara solo qualche mese fa... O quel club è veramente jellato, oppure... Ma lasciamo perdere, sono solo stupide elucubrazioni di una madre disperata che ha appena perso un figlio!

    Poteva sicuramente essere così, ma quelle parole avevano destato l’attenzione di Claudia, anche lei angosciata per la scomparsa di quel fratello da poco ritrovato e subito perso: Non dire così, Sandra. Questa disgrazia pare strana pure a me, conoscendo Alberto, anche se gli incidenti accadono quando meno te li aspetti. Ma da cosa ti sorgono dubbi e chi è questa Sara di cui parli?

    Sandra, dapprima titubante, si decise allora ad aprirsi e spiegarle le ragioni delle sue perplessità. Per prima cosa lo shampoo. Alberto, per paura di finite pelato come il padre, aveva un’attenzione quasi maniacale per i suoi capelli e usava regolarmente uno speciale shampoo antiforfora acquistabile solo in farmacia, mentre il flacone che aveva visto sul pavimento delle docce, in quella tragica serata, era di una marca da pochi soldi. Forse aveva finito il suo shampoo, ma le era parso strano, conoscendo suo figlio. Ne aveva accennato al commissario il giorno dopo, quando, più lucida, ci aveva ripensato, ma il commissario non aveva preso seriamente in considerazione la cosa.

    Poi, la strana coincidenza delle disgrazie che avevano colpito due ragazzi del club a pochi mesi l’uno dall’altra. Ad accrescere le sue perplessità vi era, infatti, anche lo strano incidente di un’altra allieva, Sara Sensini, precipitata dal balcone dell’hotel di Agrate dove era alloggiata con altri compagni che partecipavano a un torneo. Possibile che due allievi fossero morti di morte violenta in così breve tempo?

    Si interruppe però bruscamente quando sentì girare

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