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Non svegliarti
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E-book371 pagine5 ore

Non svegliarti

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Info su questo ebook

«Grandioso… Leggendo Non svegliarti ti sembra di stare sulle montagne russe.»
Angela Marsons

Un grande thriller

La cosa peggiore non è ciò che ti è accaduto. È che nessuno ti crede.

Quando Alex Taylor apre gli occhi, è distesa su un tavolo operatorio. Deve avere avuto un incidente, per questo non ricorda nulla. Ma è un medico, lavora in un ospedale, e sicuramente a breve i suoi colleghi la aiuteranno a ricostruire cosa è successo. C’è solo un problema… La persona che le sta di fronte non è un medico. E la scelta che la obbliga a compiere è indicibile. Poi Alex si risveglia. È molto confusa e non ha idea di come possa essersi salvata. Non appena i primi ricordi dell’esperienza traumatica riappaiono, nessuno è disposto a crederle. Le dicono che ha immaginato tutto, che è stato solo un brutto incubo. Emarginata dai colleghi, dalla famiglia e dal partner, Alex sta per cedere definitivamente all’idea di essere diventata pazza… ma poi incontra un’altra vittima. 

Un thriller che fa perdere il sonno

«Ha accelerato i battiti del mio cuore.»
Mojo Mums

«Sentivo i brividi che mi scivolavano lungo la schiena. Una storia che condensa dentro di sé così tante inquietudini da tenerti inchiodato fino all’ultima pagina.»
Echoes in an Empty Room
Liz Lawler
ha lavorato per vent’anni come infermiera, per poi dedicarsi alla scrittura a tempo pieno, collezionando bestseller. La Newton Compton ha pubblicato Non svegliarti, il suo scioccante thriller d’esordio, e La paziente scomparsa. 
LinguaItaliano
Data di uscita28 mar 2018
ISBN9788822720702
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    Anteprima del libro

    Non svegliarti - Liz Lawler

    Capitolo uno

    Furono dei rumori familiari a svegliarla. Erano stranamente rassicuranti, eppure la sua reazione istintiva fu fare un salto in preda al panico per vedere cosa diavolo stessero facendo le sue colleghe. Strumenti che venivano spostati su un vassoio d’acciaio. I monitor emettevano bip regolari, involucri sterili venivano strappati, e sullo sfondo l’onnipresente sibilo dell’ossigeno.

    Poteva vedere con chiarezza la scena nella sua mente e sapeva che doveva alzarsi, ma il sonno la attirava con forza e i suoi arti erano troppo pesanti per muoversi. Non ricordava di essersi stesa su una barella libera, ma evidentemente lo aveva fatto, a un certo punto della notte, per concedersi un’ora o due di sonno. Di norma, a svegliarla sarebbe stata una chiamata urgente o il perpetuo stridio del cercapersone: a quel punto avrebbe dovuto scattare in piedi e mettersi a correre ancora prima di aprire gli occhi. Ma quel sonno l’aveva resa fiacca, debole. Le palpebre erano pesanti, come se la pelle fosse troppo spessa.

    La luce intensa la accecò, gli occhi lacrimarono di fronte al bagliore. Fu doloroso, distingueva solo a fatica vaghe forme. La confusione e l’agitazione la misero all’erta, esaminò tutto ciò che le stava attorno. Non era in un lettino. Nel suo reparto non avevano luci simili: quelle erano piccole lampade sospese che potevano essere coperte con il palmo di una mano. Non sono in reparto. Questa è una sala operatoria. E perché? Sicuramente non era andata lì per schiacciare un pisolino. Pensa. Aveva dato una mano per un’emergenza? Erano a corto di personale? Altamente improbabile, ma non inconcepibile. Abbassò gli occhi e si bloccò. Rabbrividì violentemente quando vide il suo corpo ricoperto dal tessuto verde. Ogni suono intorno a lei era attutito, soffocato dal rombo del sangue nelle orecchie, così rumoroso che non riusciva a sentire nient’altro. Le sue braccia erano distese e immobilizzate con cinghie di velcro fissate a braccioli imbottiti. Un manicotto per la pressione era avvolto intorno al braccio sopra il gomito destro, e un pulsossimetro era attaccato al dito medio. Ma le cose che la spaventarono di più furono le due larghe cannule inserite in entrambe le braccia. Siringhe arancioni – ovvero, una violenta reidratazione, che nel suo mondo era sinonimo di un tremendo shock.

    Le flebo serpeggiavano attorno all’asta e poi ancora più in là, invisibili. Riusciva a scorgere la pesante parte inferiore delle sacche colme di fluido pulito, ma il tragitto del liquido che finiva nel suo corpo poteva solo immaginarlo. Guardò più giù, oltre il tessuto verde sul petto e l’addome, e fu presa dal panico quando vide le unghie dei piedi dipinte di rosa sollevate in aria. Le cosce, si rese conto, erano divaricate, i polpacci sorretti da dei supporti e le caviglie bloccate negli appositi sostegni – era distesa su un tavolo da sala operatoria con le gambe in alto. La bocca asciutta e la mente annebbiata le fecero capire che il sonno da cui si era risvegliata non era naturale, ma era stato indotto dall’anestesia.

    «Ehi?», chiamò per attirare l’attenzione della persona che maneggiava gli strumenti. Il frastuono dell’acciaio contro l’acciaio continuava ininterrotto. Snervata, chiamò più forte: «Ciao. Sono sveglia».

    Fu colpita dalla sua stessa calma. Bizzarra, date le circostanze. Era spaventata e ansiosa, ma nonostante questo le sue conoscenze professionali le permettevano di interrogarsi su cosa poteva essere successo, mentre giaceva in attesa di una spiegazione.

    Aveva finito il suo turno. La sua memoria recuperò l’ultimo pensiero consapevole… Attraversava il parcheggio dello staff con il suo nuovo vestito svolazzante e le scarpe rosa, aveva un appuntamento con Patrick. Questo ricordo le confermò che doveva aver avuto un incidente. Champagne e rose, pensava. La promessa che le aveva fatto dopo la lunga giornata di lavoro. Champagne e rose, e, se aveva capito bene, una proposta di matrimonio.

    Dov’era lui ora? Fuori, stava senza dubbio camminando su e giù per un corridoio, in trepidante attesa di notizie. Pronto a piombare su chiunque potesse dargli una risposta. Era stata investita? Un’auto uscita troppo in fretta, forse, che lei non aveva notato, presa dall’impazienza di scorgere quella di Patrick?

    Le affiorò un vago ricordo, di lei malferma sui tacchi altissimi, petto in fuori, pancia in dentro per risplendere al meglio con il nuovo abito. E poi un’onda di vertigini che le aveva piegato le gambe e schiacciato le ginocchia a terra, un dolore alla nuca, una pressione sulla bocca, niente aria, nausea e poi… nulla.

    Un’angosciosa paura l’afferrò e il suo respiro divenne affannoso per il panico che minacciava di sopraffarla. Le sue condizioni erano gravi? Stava morendo? Era per questo che non c’era nessuno intorno a lei? L’avevano semplicemente lasciata lì a crepare?

    L’esperienza e l’istinto corsero in suo aiuto. Valutazione primaria. ABCDE. No, piano, accontentati di ABC. Le vie respiratorie erano libere. Niente maschere d’ossigeno, niente cannula nasale. Respirava autonomamente, e quando inspirava non sentiva alcun fastidio. Circolazione? Il suo cuore batteva forte. Sentiva il battito su un monitor lì vicino. Ma perché allora le sue gambe erano in quella posizione? Stava perdendo sangue? Le fratture pelviche potevano essere traumi estremamente seri. Grandi, incontrollabili emorragie. Ma se quello era il suo caso, perché non si era risvegliata circondata da chirurghi preoccupati e ombrosi? Perché non avevano bendato e stabilizzato il bacino?

    «Ciao, mi senti?», chiese con meno gentilezza.

    Il suono degli strumenti che venivano spostati e sfregati tra loro cessò. Mosse il collo con cautela e non fu affatto sorpresa di scoprire un ferma testa e un collare che la bloccavano. Non avevano ancora scartato la possibilità di una lesione alla colonna vertebrale, evidentemente. Cominciò a fremere di rabbia. Ma chi diavolo era che si stava prendendo cura di lei? Ah, voleva proprio dirgli due paroline! Avevano lasciato che si svegliasse da sola, e già questo era un errore grave, ma aprire gli occhi e ritrovarsi con le gambe tirate su e la testa e le braccia legate era assolutamente intollerabile. Avrebbe potuto infliggere a se stessa un danno irreparabile se avesse avuto un attacco di panico o avesse strappato via le apparecchiature indispensabili per la sua salute.

    Sentiva il suono di un paio di zoccoli che avanzavano verso di lei sul pavimento. Poi, fluttuante ai margini del campo visivo, scorse un lampo blu-verde: qualcuno che indossava un camice da chirurgo. Colse di sfuggita un collo pallido e la sagoma di una maschera bianca, ma il resto del viso – naso e occhi – era proprio sopra le luci troppo intense. Impossibile vedere bene.

    Sentì le lacrime salirle improvvisamente agli occhi e scoppiò in una risata amara. «Odio i dannati ospedali». Il suo visitatore rimaneva fermo e in silenzio, riversando nuove ventate di paura nella sua mente iperattiva. «Mi spiace per la crisi di pianto. Sono a posto ora. Guarda, voglio solo i fatti nudi e crudi. Sono in pericolo di morte? Ho subito un trauma terribile che comporta una drastica riduzione della qualità della vita? Presumo che tu sappia che lavoro qui, che sono un medico, perciò per favore non darmi la versione soft. Preferirei sapere la verità».

    «Non ti è successo nulla».

    La voce la fece sobbalzare, come se provenisse da un altoparlante. Sbatté le palpebre, confusa. Era la persona accanto a lei a parlare, o qualcuno nascosto dietro uno schermo? Era nella stanza della TAC, forse, invece che in una sala operatoria? La voce apparteneva a un uomo, ma non le era familiare. Di certo non era nessuno dei chirurghi che conosceva. Strizzò gli occhi e cercò di mettere a fuoco il viso mascherato. «Sei tu il dottore? O forse i medici sono in un’altra sala? Siamo nella stanza del tomografo?»

    «Sono il dottore».

    Cristo, c’era qualcosa che non andava nelle sue orecchie. Sembrava che le stesse parlando proprio lì accanto, eppure allo stesso tempo la voce era lontana, come se le arrivasse dalla cornetta di un telefono. Perché non spegneva quelle dannate luci, non si levava la maschera e non le parlava come si deve? Già che c’era poteva anche tenerle la mano, no? Sospirò, agitata. «Così sono a posto? Non avete trovato nulla che non vada?»

    «Non c’è nulla che non vada in te».

    Spazientita, gli rispose con voce più acuta, stridula. «Ascolta, facciamo un passo indietro, d’accordo? Esattamente perché mi trovo qui? Perché sono stata portata in questa stanza? Cosa dice la mia cartella clinica?»

    «Sai, non dovresti agitarti così, davvero. Hai il battito accelerato. Il tuo respiro è irregolare e la saturazione di ossigeno è solo al 94 per cento. Fumi?».

    I suoi occhi schizzarono al monitor sul carrello accanto a lei. Riusciva a vedere i cavi, sapeva che erano attaccati a elettrodi sul petto.

    «Guarda che non voglio essere sgarbata. Probabilmente hai avuto una lunga giornata, ma sono un po’ incazzata. Sai, mi sveglio e mi ritrovo sola… Ora, tanto per essere chiari, non mi lamenterò ma voglio proprio sapere chi sei. Voglio il tuo nome. Dimmi che succede».

    «Bene, Alex», disse la voce, sollevando le mani coperte da guanti viola. Stringeva una cucitrice cutanea. «Meglio che la situazione sia immediatamente chiara per entrambi. Se non moderi il linguaggio non escludo di cucirti le labbra. Hai una bella bocca. Sarebbe un peccato rovinarla».

    Un’onda di terrore le perforò istantaneamente lo stomaco. Muscoli contratti, occhi spalancati: la paralisi le bloccava i pensieri, la collera, la voce.

    «La rabbia non ti aiuterà qui», affermò l’uomo, perfettamente calmo.

    Champagne e rose, pensava lei. Concentrati su quello. Patrick. Pensa a lui.

    «Così va meglio». C’era un’inflessione soddisfatta adesso in quella voce. «Non riesco a lavorare con il rumore».

    Mille scene diverse le scorrevano nella testa come un film mandato avanti veloce. Era da qualche parte nell’ospedale. Qualcuno l’avrebbe trovata, prima o poi. Qualcuno avrebbe sentito le sue grida. Era un pazzo. Un paziente a piede libero. Un dottore? O qualcuno che ne aveva preso il posto. Aveva assunto il controllo di una delle sale operatorie, questo era evidente. E lei… lei in qualche modo era finita tra le sue grinfie. La bocca, aveva sentito una forte pressione. La nausea dopo che era caduta in ginocchio nel parcheggio… Era stato lui. L’aveva trascinata in quel posto. L’aveva colpita, messa fuori combattimento, imbavagliata. Con un panno, magari. Doveva averla anestetizzata. Cloroformio o etere…

    «Per favore non urlare», le disse la voce, come se le avesse letto nel pensiero. «Siamo soli e, davvero, non vorrei arrivare a ridurti al silenzio bruscamente. Ho già un brutto mal di testa. Mi viene sempre, colpa del vento freddo. Anzi, mi sorprende che tu non ce l’abbia, sei vestita così leggera in una notte fredda come questa».

    E in un attimo si rese conto di essere completamente nuda sotto il telo verde. I seni e la vagina esposti, il sedere leggermente sollevato, il polpaccio che cominciava a soffrire di crampi per la posizione innaturale.

    Patrick. Doveva pensare a lui o a qualsiasi altra cosa, tranne che all’incubo che stava vivendo. Alla mamma, al lavoro, al paziente morto quel giorno. Alla gente che l’avrebbe cercata. Pensa, Alex. Stabilisci una connessione razionale con lui. Impegna la sua mente. Doveva parlargli di sé. Spiegargli chi era. Umanizzarsi ai suoi occhi. Era quello che insegnavano i libri di testo, no? Aveva messo in pratica così tante volte le nozioni apprese sui manuali. Prima regola: non ignorare la rabbia del paziente. Seconda regola: disinnescala.

    «Il mio nome è Alex e sono un medico».

    Lui replicò con calma: «Sai di avere l’utero retroflesso? Ho dovuto usare uno speculum curvo mentre rimuovevo la spirale».

    Sbalordita, non poté far altro che guardarlo a bocca aperta. Le aveva già messo le mani addosso. Mentre giaceva priva di sensi le sue mani l’avevano violata. Pensa, si ordinò. Metti a punto una strategia prima che sia troppo tardi. Prima che sia finita. Sii gentile con lui. Devi piacergli. Almeno provaci, cazzo, si rimproverò severamente. La sua lingua giaceva inerme nella bocca come una grossa lumaca.

    «Gr… grazie per la tua premura. Non tutti si sarebbero mostrati così attenti».

    «Di niente».

    La sua risposta le diede un esile barlume di speranza. Stava funzionando. Si stavano parlando. Lei non aveva visto il suo volto, e lui probabilmente lo sapeva. Poteva dirgli che non avrebbe mai potuto descriverlo o ricostruire il suo aspetto, anzi, avrebbe dimenticato immediatamente ciò che le aveva già fatto. Nessun danno, nessun rancore. Ognuno per la sua strada e via.

    «Mi chiedo», gli disse con cautela, «se puoi essere così gentile da permettermi di alzarmi per usare il bagno».

    «Non ce n’è bisogno». Le sue mani guantate sparirono sotto i teli e le toccarono la pelle nuda. Trasalì. «Calma», le ordinò lui mentre le palpava il basso addome. «La tua vescica è vuota. Ti ho già messo il catetere. La diuresi è buona».

    «Perché l’hai fatto?»

    «Si tratta di un’operazione importante, Alex», disse, usando il suo nome con la familiarità di un collega abituato a lavorare al suo fianco giorno dopo giorno. «Sarà doloroso urinare normalmente per un po’».

    Un singhiozzo profondo le salì dal petto. Non riuscì a trattenersi, il suo pianto disperato risuonò nella stanza.

    «Che mi hai fatto?»

    «Te l’ho già detto. Non ti è successo nulla. Non ancora. La decisione è tua. Devi rispondere semplicemente a questa domanda: che significa no?».

    Pensieri confusi. Cercò di trovare un senso a quelle parole. Che diavolo le stava chiedendo?

    «Queste, per esempio». L’uomo sollevò le scarpette rosa chiaro con i tacchi a stelo e i delicati cinturini – sapeva che Patrick li avrebbe trovati eccitanti, benché camminare con quei cosi ai piedi fosse praticamente impossibile. «Queste significano no? E queste?». Adesso sopra il suo viso ondeggiavano le calze. «Sicuramente non significano no. Quando ti ho spogliata non avevi il reggiseno e le tue mutandine erano così minuscole che a stento sarebbe stato possibile ricavarci un fazzolettino».

    Le sue caviglie strattonarono con forza le cinghie di pelle, che si tirarono al massimo mentre cercava di stringere le ginocchia. Adesso aveva capito cosa le stava chiedendo. «Per favore», lo supplicò. «No».

    «È una domanda semplice, Alex. Penso che entrambi sappiamo cosa intendi quando dici no, vero?».

    L’odio ebbe la meglio sulla paura, e per un momento si sentì libera e coraggiosa. Sputò fuori le parole furiosamente. «Non capisco la tua domanda, cazzo. E la mia saturazione è bassa per colpa di quello che mi hai dato. Devi rimetterti a studiare. Sei un dottore fallito? È questo il problema, coglione?».

    Sentiva il suo respiro, il lieve sbuffo infastidito sotto la maschera. «Collera, ah, la collera non ti aiuterà. Ecco, mi hai appena spinto a prendere la mia decisione».

    Si girò di lato e spinse in avanti un carrello scintillante di acciaio inossidabile che conteneva una lunga serie di strumenti, tutti fin troppo familiari. Uncino chirurgico, forbici uterine, uno speculum vaginale Cusco, una maschera per l’anestesia. Il suo corpo si irrigidì di paura quando gliela vide tra le mani. Una Schimmelbusch. Alex ne aveva vista una identica solo una volta: in un armadietto di vetro nello studio di un anestesista in pensione. Ricordava un po’ la protezione che si indossa nella scherma: una grossa copertura per naso e bocca. Solo che questa era una versione più rudimentale: grande più o meno come un pompelmo, aveva un reticolo sottile sul davanti intessuto di garza, in modo che il liquido anestetico potesse gocciolare all’interno e venire assorbito prima che il soggetto lo inalasse.

    «Circuito aperto», disse calmo. «La vecchia scuola non si batte. Niente cannule, niente aghi, nessuna macchina da monitorare. Garza e maschera, nient’altro. E gas, naturalmente. Così hai le mani libere di fare altro».

    Alex si accorse che il coraggio l’aveva abbandonata. Non aveva più un briciolo di autocontrollo. Non c’erano discorsi da fare, non c’era via di fuga. Quell’uomo poteva farle tutto ciò che voleva e lei non aveva modo di fermarlo. Un pensiero fugace le passò per la mente. Non sarebbe stato meglio morire lì su quel tavolo? Avrebbe potuto lasciarsi la vita alle spalle senza nemmeno rendersi conto che era finita.

    «D’altra parte, se ti metto fuori gioco, non avremo modo di parlare. Non si sa mai, potrei avere bisogno del tuo aiuto se le cose si mettono male. Potrei darti uno specchio, così saresti nelle condizioni di guidarmi in caso di problemi. Le vulvectomie possono essere complicate».

    Ormai Alex aveva il respiro spezzato, troppo veloce. La testa le girava in modo incontrollabile mentre fissava la maschera nella mano di quell’uomo. Non riusciva a respirare. Non riusciva a parlare…

    «Ultima offerta, Alex. Posso rendere tutto molto più facile. Un breve sonno per te, mentre faccio ciò che dovresti accettare, come sappiamo entrambi. Poi a casa, a nanna. Quindi te lo chiederò un’altra volta: che significa no?».

    Un tremore intenso le squassò il corpo. I grandi muscoli nel petto, nei glutei e nelle gambe si muovevano senza sosta. Il ferma testa e il collare, le cinghie alle braccia e alle caviglie venivano scossi rudemente. Le lacrime scorrevano sul suo viso, mischiandosi al muco e alla saliva. Mentre la sua bocca si apriva per urlare un silenzioso «No», la sua voce disse l’esatto contrario.

    «Mi dispiace, non ho capito». Ora lui le rendeva impossibile farsi sentire. Aveva cambiato idea, la maschera già le copriva metà del volto e il gas liquido stava facendo il suo lavoro.

    «Ho detto sì», sussurrò assonnata. «No significa sì».

    Capitolo due

    Alex aprì gli occhi. Era distesa su una barella, avvolta in un lenzuolo bianco, e due colleghe la fissavano con aria tranquilla. Fiona Woods, la sua migliore amica e infermiera capo reparto al Pronto soccorso, e Caroline Cowan, primario. Entrambe avevano la stessa espressione rassicurante e dispensavano sorrisi affettuosi. Sapeva esattamente dov’era. Perfino il numero della postazione. La 9.

    Sbirciò l’orologio da tasca di Fiona, che le disse che erano quasi le due. Aveva prestato servizio in quello stesso reparto appena cinque ore prima, si era fatta una rapida doccia nello spogliatoio dello staff, con i vestiti già pronti per essere indossati, il trucco e il profumo a posto. Era passato così poco tempo ed erano cambiate così tante cose. La sua vita, in bilico. Se avesse detto no… se si fosse rifiutata… se fosse stata più coraggiosa…

    Chiuse gli occhi, respirò profondamente, lentamente, e quando si sentì pronta li riaprì.

    «Ciao, dolcezza», disse Caroline con voce premurosa. «Puoi dirmi che cosa è successo? Che giorno è, dove pensi di essere?».

    Alex non se la sentiva di rispondere alla prima domanda. Si concentrò sulla seconda e la terza. «È domenica, 30 ottobre, e sono a Bath, nel mio ospedale e nel mio reparto».

    Caroline sorrise di nuovo. «Tutto giusto, dolcezza, solo che è il trentuno. Ci hai fatto prendere un bello spavento. La tempesta è stata terribile, pioggia e vento. Sì, ci siamo preoccupate di brutto». Annuì, rassicurante. «Ma adesso sei a posto. Un paio di escoriazioni alle ginocchia e un piccolo bozzo dietro la testa, ma per il resto stai bene. Meno male che Patrick ha insistito affinché le ricerche proseguissero, altrimenti magari adesso saremmo qui a curarti per ipotermia. Credo sia meglio tenerti sotto osservazione per la notte. Un po’ di controlli neurologici. Eri piuttosto fuori di te. Tra poco chiameremo qualcun altro e ti daremo una bella controllata. Tu sta’ serena e tranquilla, ti leveremo quel collare in un batter d’occhio».

    Lacrime di sollievo le riempirono gli occhi, le scacciò sbattendo le palpebre. Le sopracciglia chiare di Caroline schizzarono verso l’alto in un’espressione corrucciata. Dimostrava qualche anno in più, il corpo robusto e le braccia forti e toniche, non per il lavoro in ospedale, ma per gli anni trascorsi nei campi, aiutando il marito nella fattoria di famiglia.

    «Oh, dolcezza, non piangere. Vedrai, ti troverai seduta con una tazza di tè in men che non si dica. Fiona, va’ a chiamare qualcuno. Dobbiamo fare in modo che la nostra dottoressa preferita torni rapidamente in forma. Niente maschi, attenzione», avvertì Fiona in tono amichevole. «Sono sicura che Alex non voglia far vedere a tutti il suo bel culetto».

    Alex rimase distesa, immobile. Si sentiva profondamente stanca ed era piena di gratitudine nei confronti di Caroline, così concreta, semplice e allegra. Più tardi avrebbe potuto mettersi a gridare. Più tardi avrebbe potuto urlare come una pazza e gettarsi a terra, ma per il momento era meglio conservare la calma. Avrebbe avuto bisogno di restare lucida se voleva essere d’aiuto alla polizia.

    Tre infermiere tornarono nella stanza insieme a Fiona Woods.

    «Prendo io la testa», disse Fiona a Caroline. Le altre si disposero lungo il fianco di Alex, ognuna mise le mani su una parte diversa del corpo. Le bloccavano la spalla, l’anca e la gamba. In fondo al tavolo, Fiona le strinse la nuca con entrambe le mani mentre Caroline scioglieva il collare e rimuoveva il ferma testa. Il primario le posò attentamente i palmi dietro il collo. Risalendo dalla base del cranio, tastò la spina cervicale, alla ricerca di eventuali segni di lesioni o deformità.

    Sentì Alex sussultare. «Ti fa un po’ male?».

    Alex stava per far sì con la testa ma Fiona le ordinò di star ferma. «Ehi, dovresti saperlo meglio di me!». Il suo viso era solo a pochi centimetri da quello di Alex, odorava di fumo. A quanto pareva Fiona aveva ricominciato. Il vizio era troppo forte. Era un peccato, perché se la stava cavando bene con i cerotti.

    In pochi minuti, girata sul fianco, immobilizzata con la testa tra le mani forti di Fiona, le controllarono il resto della spina dorsale. Alla fine, e fu un momento di vera umiliazione, specialmente perché le conosceva tutte, Caroline le mise un dito nel retto per valutare il tono dello sfintere. L’esame finì, un largo sorriso illuminò il volto di Caroline mentre le infermiere la aiutavano a rimettersi in una posizione più naturale.

    «Stai bene, Alex. Non avrai bisogno del collare. Ti farò alzare e ti darò quella tazza di tè». Guardò Fiona. «Un paio di co-codamol non le faranno certo male».

    Caroline Cowan era una vera maestra delle situazioni di crisi, su questo non c’erano dubbi. Riusciva sempre a mantenere la calma: il ritmo, il tono della voce e in generale ogni suo movimento erano sempre modulati alla perfezione per tenere a bada l’isteria. Stava dando ad Alex il tempo per adattarsi alla nuova situazione, stendendo una patina di normalità, per quanto possibile, in modo da permetterle di affrontare al meglio le sofferenze in arrivo. Alex l’aveva sempre ammirata. Adesso più che mai. Caroline voleva accertarsi che fosse pronta.

    Mentre le infermiere lasciavano la postazione, Caroline si lavò le mani al lavandino. Un getto d’acqua le bagnò la tunica verde e i pantaloni, e lei ci scherzò su, si mise a ridere e tirò fuori i tovaglioli di carta dal dispenser sul muro. Perfino in quel momento quella piccola risata era un modo per farle capire che era tutto nella norma. Un passo alla volta. Niente fretta. Era al sicuro, e niente e nessuno avrebbe superato le difese di Caroline.

    «Allora, dolcezza, domande?».

    Alex si morse il labbro inferiore per fermare il flusso delle lacrime. Dopo, si era ripromessa. Avrebbe pianto dopo tra le braccia di Patrick, non un attimo prima.

    «La polizia. Non l’avete ancora chiamata? Devono bloccare tutte le uscite. E tutte le sale operatorie devono essere controllate da cima a fondo. Voglio tutto quanto: test dell’HIV, sifilide, gonorrea, gravidanza – qualsiasi cosa. Non mi importa se ci vorrà tutta la notte. Devo sapere cosa mi ha fatto».

    L’espressione rassicurante era sparita dal volto di Caroline, rimpiazzata da una smorfia di preoccupazione.

    «Alex, ma che dici? Perché dovrei chiamare la polizia?».

    Colpi regolari sotto lo sterno. Il respiro divenne più veloce e spezzato, le membra tremavano così forte che il lenzuolo le scivolò giù.

    In seguito, le dissero che la sua voce si sentiva in tutto il reparto. Copriva ogni altro rumore – le grida di dolore, di confusione e paura, il clangore dei carrelli che portavano le varie medicazioni nelle stanze, il bip dei venti monitor circa che pulsavano a ritmi diversi. La sua voce, le sue parole, sovrastarono tutto il resto.

    «Perché mi ha violentata».

    Capitolo tre

    Un caso di stupro verificatosi in un reparto di Pronto soccorso impone un livello di privacy speciale. Un protocollo particolare impostato sul silenzio e sul rispetto. L’infermiera di turno, il medico e la polizia si danno da fare senza che nessun altro nel reparto venga a sapere cosa è successo.

    Nel caso di Alex Taylor, nel reparto quella notte non c’era nessuno che non sapesse cosa era successo, o che non avesse sentito le sue accuse, urlate a pieni polmoni. Perfino prima della fine della visita si rincorrevano le voci più disparate su ciò che fosse accaduto veramente. L’opinione prevalente era che avesse subìto un colpo alla testa: confusione, commozione cerebrale, forse.

    Nella stanza, il medico della polizia e l’ispettrice non misero in dubbio le parole della donna sconvolta, né lo stupro, ma trovarono piuttosto difficile dar credito al resto della sua versione dei fatti. Solo Maggie Fielding rimase neutrale e obiettiva, attenendosi ai suoi doveri professionali, mentre completava la visita e ascoltava la lunga storia di Alex. Rispose immediatamente a ogni domanda della paziente.

    «La spirale è a posto, Alex. Nulla indica che sia stata rimossa. Riesco a vedere i fili, tutto sembra normale».

    Maggie Fielding aspettò un commento da parte di Alex. Mantenne il contatto visivo, senza fretta. Maggie era una donna appariscente, alta, braccia forti, fisico sinuoso. Aveva dei magnifici capelli color cioccolato. Quando li teneva sciolti le arrivavano ai fianchi.

    Il dottore della polizia era anche un medico di base, un neozelandese di nome Tom Collins, con un sorriso di simpatia perennemente incollato sulle labbra. Era uscito dalla stanza durante la visita.

    Le sollevarono il sedere per metterle sotto il telo di carta. Le passarono il pettine sui peli pubici per recuperare materiale probatorio. Poi telo, pettine e peli furono inseriti in una busta delle prove, sigillata, firmata, datata e consegnata all’ufficiale di polizia. Le tagliarono le unghie, che vennero raccolte in una busta separata. Le tagliarono anche i capelli. Sputò in un apposito barattolo, le fecero un tampone in bocca, nell’ano e nella vagina. Poi un prelievo di sangue. Alex guardò Maggie che passava un campione su una lastrina di vetro. Sapeva che l’avrebbero esaminato alla ricerca di tracce di sperma. Alla fine, ogni singolo centimetro del suo corpo venne controllato e ispezionato. Cercarono qualsiasi possibile ferita. Lividi. Tagli. Morsi o segni di denti che potessero identificare l’aggressore.

    Maggie Fielding si allontanò e Tom Collins venne richiamato nella stanza. Solo poche settimane prima, Alex si trovava nello stesso, identico punto in cui era adesso Maggie, accanto a quello stesso dottore che prelevava il sangue di una donna che era stata aggredita dal fidanzato.

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