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E-book279 pagine3 ore

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Info su questo ebook

La diagnosi di un cancro in fase avanzata colpisce Zacary come un fulmine a ciel sereno. Il verdetto è devastante: tre mesi di vita. La notizia fa divampare sentimenti nuovi nell'animo del piccolo criminale, che trova il coraggio di divincolarsi dalla morsa di Ray, un gangster che gestisce i suoi loschi affari a New York, e del suo sicario Al. Durante questo difficile cammino, Zacary verrà assistito dalle affettuose cure di Rosmary, un'infermiera precaria con un marito alcolista e un figlio a carico.
LinguaItaliano
Data di uscita19 nov 2014
ISBN9788867931347
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    Anteprima del libro

    Sica - Enrico Tirotto

    © Edizioni SENSOINVERSO

    Collana AcquaFragile

    www.edizionisensoinverso.it

    ufficiostampa@edizionisensoinverso.it

    Via Vulcano, 31 – 48124 – Ravenna (RA)

    ISBN 9788867931347

    1° edizione – Ottobre 2014

    Immagine di copertina | Antonello Fine

    © 2014 - Copyright | Tutti i diritti riservati

    Sensoinverso - P.I. 02360700393

    Creazione e impaginazione eBook | http://creoebook.blogspot.com

    Enrico Tirotto

    Sica

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

    Il collimatore quella mattina sembrava immerso in una nebbia londinese e la difficoltà nel sostenere lo Steyr impegnativa. Era da tempo che si sentiva stanco e debilitato, ma aveva addebitato il tutto ai suoi sessant’anni mal portati.

    Riportò la canna del fucile di fabbricazione austriaca in posizione orizzontale inquadrando nuovamente il bersaglio.

    In linea retta con l’apertura della camera di scoppio riapparve l’attico: un ampio terrazzo con piscina, situato all’ultimo piano della Bloomberg Tower a Manhathan, arredato in modo raffinato ma con linee pulite, alternava ampi spazi finemente pavimentati a piante e arbusti ornamentali. Gli arredi di un candido avorio erano rivestiti in pelle di bufalo e quel rosso porpora era come un pugno su quell’occhio addossato al collimatore.

    Posò nuovamente il fucile e agguantò il fazzoletto, asciugandosi la fronte e il resto del viso. Il fianco destro aveva ripreso a tormentarlo, come un riccio stretto sul palmo di una mano. Era necessario fare in fretta e portare a termine il lavoro, o Ray non glielo avrebbe perdonato.

    Riprese lo Steyr colpendo col palmo della mano il caricatore posto all’estremità e assicurandosi che il colpo in canna fosse già inserito.

    Di recente, pensò, anche la memoria lo stava abbandonando, visto che non ricordava proprio se quel gesto abituale lo avesse già compiuto.

    Impugnò l’arma con un cenno di stizza e riprese il puntamento dal palazzo di fronte. Vi era arrivato stremato, al settantaseiesimo piano, dopo aver percorso i tremiladuecento pioli della scala d’emergenza evitando di proposito i diciannove agili e confortevoli ascensori a disposizione.

    Imprecò per quel lavoro che il destino gli aveva assegnato e per il pensiero diffuso che fosse un mestiere se non altro ben retribuito: pregna anche la malavita di caste e privilegi, si sentiva emarginato e stanco come un qualsiasi dipendente vicino alla pensione.

    L’aria afosa e carica di umidità innalzava quella soglia di nervosismo, già di per sé colma, possibile foriera di errori. Il vaso di Ray era pieno e sarebbe bastato poco per traboccare. Quel lavoro doveva andare liscio o i suoi servigi li poteva richiedere al creatore.

    È tutto facile per lui…, sentenziò con stizza torcendo la bocca.

    Qualcosa si mosse nell’attico: la porta scorrevole che immetteva nell’ampio terrazzo si aprì lasciando che la tenda svolazzasse al di fuori.

    La canna dello Steyr automatico seguì i movimenti dell’uomo. Il bersaglio lasciò andare la vestaglia di seta senza degnarsi di raccoglierla, prontamente agguantata dal maggiordomo, che lo seguiva. Zacary cercò di inquadrare il petto dell’uomo ma riuscì a vedere solo gli spruzzi dell’acqua sollevarsi per il tuffo in piscina.

    Il dolore al fianco arrivò come un pugno e il fucile si inpennò come una belva ferita. Spalancò la bocca respirando a pieni polmoni come un pugile dopo il gong al dodicesimo round. Mise la mano sul fianco attendendo che lo spasmo si attenuasse, ma questo sembrava aver preso dimora in lui, deciso a non concedere tregua.

    Riprese il fucile tirando su l’anca per non distendere il fianco e goffamente avvicinò l’occhio al collimatore con tale enfasi che impattò sulla lente.

    Serrò le palpebre con forza mentre quella fitta si aggiunse all’opprimente dolore al fianco. Maledisse quella giornata assieme a tutte le altre della sua vita, mentre sfregava l’occhio dolorante. Socchiuse le palpebre ma fu peggio che guardare da un fondo di bottiglia.

    L’occhio buono era andato e il sinistro, con cui non aveva mai mirato e dal quale avrebbe avuto una mediocre visione, era l’unica flebile risorsa.

    L’aroma dolce e pungente della cipolla fritta li avvolse mentre attraversavano le cucine dell’Oklahoma.

    Posto all’angolo fra la quattordicesima e la Main, il ristorante proponeva piatti tipici della cucina texana. Era stato rivisto e riammodernato negli arredi ma permaneva uno stile Old America, in linea con il menu, in cui prevalevano spesse bistecche affogate in pinte di birra gelate con una variegata quantità di salse e insalate.

    L’aiuto chef ripose lo sguardo sulla piastra intinta di olio, dopo aver intravisto il gruppetto di uomini che attraversavano l’angusto passaggio che portava alla sala interna. I tre gli passarono davanti senza curarsi di lui e proseguirono come se quel suolo fosse di pubblico dominio.

    Al precedeva facendo strada, mentre Ray e Nero si separarono inoltrandosi in una sala appartata. Danny, il propietario, si accorse per caso della loro presenza mentre sistemava una pila di menu sul tavolino del metrè.

    Al lo raggiunse con la sua tipica andatura ondeggiante e vacua: dava l’impressione di un’evidente instabilità di equilibrio, accentuata certo dai suoi centonovantcinque centimetri di altezza.

    Danny fece per parlare ma Al lo anticipò: Ray non vuole essere disturbato, portaci il solito e due bottiglie di Chardonay. Quindi si scagliò contro Danny colpendolo al volto con una testata, spezzandogli il naso e lasciandolo esanime in un lago di sangue…

    Fu destato dalla voce baritonale di Al: Hai capito cosa ho detto!?.

    … Certo, certo che ho capito….

    Al lo guardò torvo una seconda volta prima di allontanarsi e aggiungere: Oggi sei più rincoglionito del solito, non farmelo ripetere e sbrigati!.

    Danny maledisse, come spesso gli accadeva, il giorno che aveva accettato il denaro di Ray per ristrutturare il locale. Quel prestito, ormai non più estinguibile, aveva raggiunto quote vertiginose, assieme alla pressione sanguigna di Danny.

    Ray vi si era arroccato in pianta stabile e dirigeva spesso da lì i suoi loschi traffici. Danny cercava disperatamente una soluzione per liberarsi di quel gangster di quart’ordine, ma fino a quel momento era piovuto sul bagnato.

    Al raggiunse Ray a discorso inoltrato: … Non mi aspetto niente di buono da quel cialtrone di Zacary. Se potessi tornare indietro, incaricherei un altro.

    Nero, il braccio destro e factotum di Ray, non eccepì a quella considerazione: Per me è cotto, ultimamente non ne ha imbroccata una; se porta a termine questo lavoro, dovrai comunque prendere una decisione.

    Ray inarcò la testa all’indietro inspirando profondamente, mentre lentamente estraeva le dita dai guanti in pelle nera dove erano immerse: Quell’ebreo è maldestro e penso anch’io sia giunto al capolinea… Ma non avevo scelta.

    Avresti dovuto mandarci Al, aggiunse Nero in tono saccente.

    Al non gradì queste parole, così accomodandosi rispose: Non spetta a te suggerire cosa devo o non devo fare!.

    Ray sradicò quel principio di polemica: Hai detto bene, spetta a me… In fin dei conti mandare al creatore quel commercialista è cosa semplice: perfino Danny sarebbe capace di strangolarlo col grembiule! A proposito, hai ordinato?.

    Al, data la sua corporatura, dava l’impressione che fosse appollaiato su un trespolo, mentre quella sedia spariva completamente sotto quel corpo smisurato: Come al solito capo.

    Nero riprese il discorso passandosi la mano sul capo lucido e completamente calvo: Io l’avrei fatto con le mie mani. Derubarci così impunemente….

    Ray lo fermò, lievemente infastidito: Non ci ha derubato!... Mi ha derubato. Ha fatto la cresta al mio denaro, non al tuo!.

    Nero rettificò istantaneamente, con grande soddisfazione di Al: Certo, Ray, è del tuo denaro che stiamo parlando, non intendevo….

    Il gangster allisciò il lussuoso soprabito che ancora portava sulle spalle: quelle maniche non erano mai state attraversate, un vezzo che aveva sempre contraddistinto la sua maniera di indossarlo. Non è soltanto per il denaro, quella mezza tacca mi ha mancato di rispetto!.

    Ray era un malavitoso di quart’ordine, ma amava atteggiarsi a piccolo padrino. Cultore della triade di Francis Ford Coppola, emulava certi comportamenti tipici della malavita italo-americana, tanto da essersi guadagnato l’appellativo di italianino, anche se lui mal sopportava quel nomignolo che a volte lo faceva proprio imbestialire.

    Quel punteruolo infilato idealmente nel fianco lo stava martoriando senza sosta. Zacary riprese lo Steyr invitando l’occhio sinistro a farsi strada nel collimatore. La visione era pulita ma quella posizione atipica insinuava in lui una sensazione d’incertezza.

    Trovò il bersaglio, già accomodato sulla sdraio con i capelli ancora umidi, crogiolarsi al sole con nelle mani una copia dell’Herald Tribune. Era la rappresentazione dell’uomo realizzato, e lo ostentava sfacciatamente. Provò invidia ma non così tanto da volerlo uccidere: questo doveva farlo per restare in vita.

    La posizione era ottimale, così puntò dritto al centro del petto, ancora visivamente pulsante per l’impetuosa nuotata. Esibiva un fisico atletico e ben curato, dimostrando un’età non ben definita ma sicuramente non oltre i quaranta.

    Rimase un attimo a riflettere sulla sua di età e sul disastroso fisico che la natura gli aveva donato. Ripensò ai capelli persi appena dopo i sedici anni, poco prima di uscire dall’orfanotrofio dove aveva vissuto la sua infanzia. Le donne lo avevano sempre evitato e lui, per non essere da meno, era stato in disparte senza disturbarle.

    Un’altra fitta nell’addome ricacciò via quei pensieri. Mise il dito sul grilletto pronto a porre fine a quella vita e a recarsi da un dottore per accertarsi su cosa poteva attendersi dalla sua.

    Zacary non vide arrivare il maggiordomo, né riuscì a udire il cigolio delle ruote del porta-vivande che questi spingeva innanzi a sé. Lo Steyr ruttò dal silenziatore, come se avesse bevuto due coppe di champagne: il proiettile attraversò entrambe le natiche del maggiordomo, bucò l’Herald Tribune e finì per spegnersi nella piscina con uno sbuffo d’acqua.

    Vide il domestico saltellare come un canguro, prima di abbandonare il fucile a se stesso e accasciarsi al suolo. Si rialzò a fatica e si avviò verso le scale d’emergenza con il fiato corto e un opprimente senso di nausea.

    Si rese conto che non sarebbe stato in grado di compiere neppure le prime due rampe. Si voltò verso uno degli ascensori, lo raggiunse rapido e spinse il pulsante di richiamo come fosse quello d’emergenza. Cadde in ginocchio e, in quella posizione, un conato di vomito lo raggiunse. Non si era mai sentito così e quell’attesa divenne insopportabilmente lunga.

    Il cicalino lo avvertì che l’ascensore era arrivato, mostrando l’assenza di persone al suo interno. Stremato si trascinò carponi nel piccolo vano e si distese all’interno. Allungò la mano alla ricerca di quel tasto H che appariva sbiadito anche all’occhio sinistro. La mano tastava la parete dell’ascensore, totalmente rivestita in morbido sky, alla ricerca dello spiraglio di un’improbabile fuga, quando i sensi lo abbandonarono.

    Inaspettatamente le porte si chiusero senza che Zacary avesse premuto niente. La rapida discesa gli diede la sensazione di sprofondare nel buio più assoluto e la luce sopra di lui si affievolì gradualmente prima di scomparire del tutto.

    Lanny, la colazione è pronta! Mi hai sentito?.

    Rigirò ancora una volta le uova nel tegame, incamiciandole a dovere prima di trasferirle nei piatti. La voce roca e assonnata del figlio permeò la stanza assieme al profumo di bacon.

    Sono già le sette?.

    Già da un pezzo, fa’ colazione e poi va’ a lavarti!.

    Lanny guardò la madre già in divisa da lavoro e col viso ancora stanco per le ore di straordinario della sera precedente.

    Le tue rughe sono più profonde oggi, lo sai, mamma?.

    Rosemary guardò in volto il figlio con dolcezza: un ragazzo di sedici anni che la natura o la sfortuna aveva fermato a otto, ma a cui lei voleva un bene infinito, e che era un sinergico sostegno in quella sua difficile esistenza.

    Le rughe sono come le acque del mare: più sono distanti più sono profonde, replicò la donna agghindandosi i capelli dietro la nuca.

    Non si era mai considerata bella, ma per il marito che il Signore aveva scelto per lei lo era più che a sufficienza.

    Rosemary terminò la colazione che il figlio aveva lasciato, non potendo permettersi sprechi nelle sue già ristrette condizioni.

    Lanny uscì dal bagno con la camicia che penzolava sui pantaloni e i bottoni disallineati. La madre rimise tutto a posto e gli donò un bacio sulla fronte. Lo accompagnò alla porta di quell’angusto bilocale, dove la povertà aveva lasciato le redini all’indigenza assoluta.

    La scuola era situata a meno di un isolato di distanza. Rosemary lo seguì avviarsi con lo sguardo, appoggiando la spalla allo stipite della porta. Lo trovava più indifeso e vulnerabile di sempre, una percezione che cresceva in proporzione all’amore che provava per lui.

    Signora Wash, finalmente la trovo!.

    Rosemary, colta alla sprovvista, si voltò di scatto per rientrare in casa, ma il corpo sudaticcio e l’alito sgradevole del padrone di casa, il signor Paul Richardson, la fecero desistere.

    È da una settimana che la cerco, non posso più aspettare!.

    La donna fece qualche passo indietro prima di rispondere: Deve avere pazienza ancora per qualche giorno.

    Se dovessi campare con queste scuse, finirei sul lastrico! Sono due mesi di arretrato, non posso!.

    Ho avuto delle difficoltà… Le chiedo solo di attendere finché non mi pagano. Lavoro all’ospedale, adesso.

    Paul accennò un timido sorrisetto sul suo faccione da pesce lesso: Ho saputo, un misero contratto di tre mesi. No, signora, ci vuole ben altro per farmi dormire tranquillo.

    Lentamente fece due passì in avanti lasciando che la sua prominente ipa sfiorasse un lembo del grembiule della donna: Se lei fosse più gentile, potrei concederle una dilazione… Una comoda dilazione….

    Rosemary sfilò con destrezza alla destra dell’uomo e rientrò veloce in casa serrando l’uscio alle sue spalle, inorridita da quell’ennesima proposta indecente.

    Il signor Richardson si appoggiò alla porta fregando la mano sull’uscio e con voce alterata disse: Domani verrò a prendere i miei soldi e, quant’è vero Iddio, se non li avrò la caccerò!.

    Emise un sospiro di sollievo e si strinse fra le proprie braccia rivolgendo al cielo uno sguardo disperato. Era iniziata male quella mattinata e per di più decisamente presto, indicava l’orologio. Lasciò il sostegno della porta d’ingresso e, agguantata la borsetta, riaprì l’uscio preparandosi a chiuderlo dietro di sé.

    Un altro volto conosciuto e che avrebbe voluto evitare la stava osservando da vicino: Ho saputo che hai trovato lavoro.

    Che ci fai tu qui… Cosa vuoi?, rispose sgarbatamente Rosemary.

    L’uomo si avvicinò con un mezzo sorriso e una buona dose di sarcasmo: Solo un po’ di rispetto, in fondo sono ancora tuo marito.

    La donna si ritrasse leggermente verso l’interno dell’abitazione: Tu per me non sei niente, non abbiamo più nulla da dirci.

    Oh sì, invece, replicò lui salendo sul gradino che immetteva dentro casa.

    Lei conosceva bene quello sguardo, che non prometteva niente di buono. Tentò di barricarsi chiudendo la porta, ma il piede di Malcom fu più lesto. L’intensa ma inutile resistenza della donna fu vinta con uno spintone che fece ricadere Rosemary riversa sul pavimento. Lui chiuse la porta e le si avvicinò, quindi le impose un piede sul collo.

    Da quando fai l’infermiera ti dai un sacco di arie e trascuri i tuoi doveri di moglie.

    Lei si oppose stringendo con le mani lo stivale che le impediva di respirare e con voce strozzata ribatté: Brutto bastardo, toglimi….

    Malcom si chinò e raccolse la borsetta, la aprì e svuotò del contenuto, per poi agguantare al volo il portamonete e lasciar cadere il resto. Avidamente frugò al suo interno ed estrasse una sola banconota: Solo venti dollari, miseria ladra, poi rivolse lo sguardo verso la donna: Per oggi basteranno.

    Non puoi! Sono per tuo figlio, schifoso di un alcolizzato!.

    Il sorriso si spense sul viso dell’uomo, al che lo stivale la schiacciò ancora più forte. Pensi che io non ci tenga a Lanny? È tutta colpa tua se sono in questo stato, e così mi terrai, che tu voglia o no.

    Malcom cacciò la banconota in tasca allentando la presa. Lei guardò con disprezzo quel viso tondo e quella barba incolta, e colse nei suoi occhi il desiderio irrefrenabile di bere. Malcom se ne andò infatti alla ricerca di alcol da consumare sbattendo la porta, con la promessa che sarebbe ritornato per prendersi ciò che, a suo dire, gli spettava.

    Rosemary avrebbe voluto piangere e sfogarsi, ma non ne aveva il tempo. Guardò allo specchio il livido lasciatole sul collo dalla suola del marito, neppure paragonabile a quello impressole a fuoco nell’animo.

    Il sapore amaro del palato fu il presagio di un risveglio dal medesimo gusto. Le pareti vuote e l’arredamento minimalista non lasciavano dubbi su dove fosse. Lasciò che la mente risvegliasse i suoi ricordi, che non tardarono ad affiorare e trascinare con sé angoscia e livore: lo stesso che sentiva sul suo corpo dolorante e stanco, ma che a suo avviso era tale e quale agli ultimi giorni.

    Vide alla sua destra l’ampolla di vetro da cui percolavano candide gocce. La soluzione permeava dall’ago infilato nel braccio e penetrava all’interno del suo corpo.

    Volse lo sguardo verso la finestra situata alla parte opposta della stanza e riconobbe il Bridge Tower dai vetri scuri e bombati: non poteva che essere il General Hospital e quella una delle stanze esposte nel lato sud dell’edificio.

    Tastò il fianco e questo rispose sgarbatamente con una fitta pungente, come se fosse stato destato da un profondo letargo. Attese che il tutto si attenuasse prima che, dopo aver riguardato la flebo, la mente ripercorse gli ultimi eventi.

    I brividi accarezzarono il suo corpo nel rammentare il disastro del giorno precedente, che Ray non gli avrebbe certo perdonato. Non sapeva da quanto tempo stava in quel letto ma il suo capo ne era sicuramente a conoscenza e probabilmente anche la polizia.

    Scoprì i polsi accertandosi che non vi fossero già state applicate le manette: liberi, ma il pallore delle mani lo costrinse a considerare prioritario il suo stato di salute.

    Un fatto era certo: a meno di non essere al purgatorio, era ancora vivo. La domanda successiva fu per quanto tempo ancora lo sarebbe stato. Ray avrebbe provveduto a sistemare le cose prima di qualsiasi cura o dell’epilogo di una qualche infausta malattia.

    Provò a mettersi seduto sul letto, ma non appena si mosse, qualcosa alle sue spalle iniziò a emettere un fastidioso e ripetitivo bip. Qualche istante dopo la porta si aprì e spuntò il volto grassoccio di un’infermiera, seguito dall’abbondante resto del corpo.

    Senza guardarlo in volto spense il cicalino e gli rivolse la parola: Bentornato, signor…, e fece tre passi indietro per cercare un suggerimento dalla cartella appesa sulla sponda del letto. … Belimbau, come si sente?.

    Zacary fece una smorfia, poi rispose: Come se fossi stato all’interno delle Twin Towers l’undici settembre….

    L’infermiera non parve gradire il leggero sarcasmo e continuò con asettica professionalità: Non bene, quindi.

    Zacary questa volta si limitò a un laconico: Già!.

    La donna soffermò il suo sguardo sulla flebo e, sollevata la mano sul regolatore, aumentò leggermente il flusso della soluzione. Zacary seguì con distacco quei movimenti, mentre il prominente corpo dell’infermiera ondeggiava al suo fianco.

    La porta si spalancò nuovamente e un altro camice bianco fluttuò davanti al letto: Ci lasci soli, per cortesia.

    La donna si allontanò senza proferir parola chiudendo la porta alle sue spalle e lasciò i due a guardarsi in volto.

    Era giovane ed esercitava con eccessiva sicurezza la sua professione; sosteneva una cartella in mano, sulla quale stava concentrando la sua attenzione in ugual misura al paziente. Zacary pendeva da quelle labbra che a breve avrebbero sancito un verdetto che avrebbe voluto evitare.

    Il medico si tolse gli occhiali dalla sottile montatura prima di rivolgergli la parola: Signor Belimbau, dai referti ci risulta che lei è affetto da un epatocarcinoma; era già a conoscenza di questa condizione?.

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