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Il duello: Novella
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E-book178 pagine1 ora

Il duello: Novella

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Info su questo ebook

In questa novella-capolavoro del 1891, Čechov si concentra in modo particolare su un tema che tra le righe aveva già caratterizzato alcune altre opere: quello della (scarsa) differenza tra animale non umano e animale umano. Per farlo, ha scelto come protagonista lo zoologo Von Koren, che può essere considerato un Antón Pàvlovič Čechov estremamente darwiniano. L’urgenza del raffronto emerge da frasi come questa, in cui si accostano “versi” degli uni e degli altri:
Laévskij indossò cappotto e berretto, mise in tasca le sigarette e si fermò perplesso; gli sembrava di dover fare qualcos’altro. Nella via conversavano piano i padrini e stronfiavano i cavalli, e questi suoni nel primo mattino umido, quando tutti dormono e il cielo riluce appena, riempirono l’animo di Laévskij di una disperazione simile a un brutto presentimento.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2021
ISBN9788898467952
Il duello: Novella

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    Anteprima del libro

    Il duello - Čechov

    Antón Pàvlovič Čechov

    Il duello

    versione filologica del racconto lungo

    (1891)

    a cura di Bruno Osimo

    Copyright © Bruno Osimo 2020

    Titolo originale dell’opera: Дуэль

    Traduzione dal russo di Bruno Osimo

    Bruno Osimo è un autore/traduttore che si autopubblica

    La stampa è realizzata come print on sale da Kindle Direct Publishing

    ISBN 9788898467969 per l’edizione cartacea

    ISBN 9788898467952 per l’edizione elettronica

    Contatti dell’autore-editore-traduttore: osimo@trad.it

    Traslitterazione

    La traslitterazione dei nomi è fatta in base alla norma ISO 9:

    â si pronuncia come ‘ia’ in ‘fiato’ /ja/

    c si pronuncia come ‘z’ in ‘zozzo’ /ts/

    č si pronuncia come ‘c’ in ‘cena’ /tɕ/

    e si pronuncia come ‘ie’ in ‘fieno’ /je/

    ë si pronuncia come ‘io’ in ‘chiodo’ /jo/

    è si pronuncia come ‘e’ in ‘lercio’ /e/

    h si pronuncia come ‘c’ nel toscano ‘laconico’ /x/

    š si pronuncia come ‘sc’ in ‘scemo’ /ʂ/

    ŝ si pronuncia come ‘sc’ in ‘esci’ /ɕː/

    û si pronuncia come ‘iu’ in ‘fiuto’ /ju/

    z si pronuncia come ‘s’ in ‘rosa’ /z/

    ž si pronuncia come ‘s’ in ‘pleasure’ /ʐ/

    Prefazione. Per una concezione zoologica dell’uomo civilizzato

    In questa novella-capolavoro del 1891, Čéchov si concentra in modo particolare su un tema che tra le righe aveva già caratterizzato alcune altre opere: quello della (scarsa) differenza tra animale non umano e animale umano. Per farlo, ha scelto come protagonista lo zoologo Von Koren, che può essere considerato un Antón Pàvlovič Čéchov estremamente darwiniano. L’urgenza del raffronto emerge da frasi come questa, in cui si accostano versi degli uni e degli altri:

    Laévskij indossò cappotto e berretto, mise in tasca le sigarette e si fermò perplesso; gli sembrava di dover fare qualcos’altro. Nella via conversavano piano i padrini e stronfiavano i cavalli, e questi suoni nel primo mattino umido, quando tutti dormono e il cielo riluce appena, riempirono l’animo di Laévskij di una disperazione simile a un brutto presentimento.

    Oppure qui, dove l’inutilità esistenziale di Laévskij è espressa da un suo comportamento analogo a quello delle scimmie, un po’ come se si stesse spulciando:

    Laévskij aveva l’abitudine, intanto che parlava, di esaminarsi con attenzione il palmo rosa della mano, di rosicchiarsi le unghie o di lisciarsi i polsini con le dita. Ed era proprio quello che stava facendo adesso.

    Quando poi Laévskij ha una crisi isterica, per lo zoologo è equivalente a un cane rabbioso, e invita il padrone di casa a toglierglielo di mezzo, come se fosse il suo cane molesto:

    «Toglilo di torno, Aleksàndr Davìdyč, se no me ne vado io», disse von Koren. «Finirà per mordermi».

    Anche nelle relazioni amorose, gli umani si orientano come animaletti selvatici: preferenze e idiosincrasie sono regolate da odori, dettagli corporei, sfumature... l’umano cerca di vestire questi suoi gusti di un manto intellettuale, ma sotto sotto viene sempre fuori il mero corpo:

    Questa volta a Laévskij meno di tutto di Nadéžda Fëdorovna piacque il collo bianco, scoperto e i boccoli sulla nuca, e gli venne in mente che ad Anna Karénina, quando si è disamorata del marito, più di tutto davano fastidio le orecchie di lui, e pensò: «Com’è vero! com’è vero!»

    Ci sono situazioni in cui l’atmosfera umanocentricamente solenne di certi eventi è infranta proprio dalla presa di coscienza di un’analogia zoologica:

    "Le talpe" venne in mente al diacono, seduto tra i cespugli.

    Qui al diacono Pobédov viene in mente una spiegazione data dallo zoologo Von Koren circa i costumi delle talpe quando s’incontrano sottoterra, una sorta di duello che ingaggiano dopo avere scavato uno spiazzo nel terreno. Il duello è metafora della selezione naturale:

    Sparare alla gamba o al braccio, ferirlo, poi ridergli in faccia, e come un insetto con la zampina rotta si perde nell’erba, che anche lui con la sua sorda sofferenza si perda poi nella folla di persone insignificanti quanto lui.

    Čéchov è un entusiasta sostenitore del darwinismo di recente diffusione, ed è schifato dall’ipocrisia della società borghese, in cui l’individuo agisce le proprie pulsioni istintuali, ma di nascosto:

    «Noi malediciamo il vizio solo dietro le spalle della gente, ed è come mostrare il dito tenendo la mano in tasca».

    Si tenga presente che in quello stesso anno esce Quattro documenti sul caso Nina R. di Freud, che affronta l’isteria e temi affini. Decide allora di servirsi narrativamente di uno zoologo come personaggio, per mettere in luce quello che al Čéchov dottore in medicina, al Čéchov uomo di scienza, preme dire sulla volgarità. Questo disegno narrativo appare esplicito in una battuta di dialogo:

    «Io sono zoologo, o sociologo, che è la stessa cosa, tu sei medico; la società crede in noi; siamo tenuti a indicarle il terribile danno che minaccia le generazioni presenti e future: l’esistenza di personaggi come questa Nadéžda Ivànovna».

    Questa equivalenza dichiarata del sociologo e dello zoologo è molto interessante: segna la fine della concezione in base a cui l’uomo prevale su tutti gli altri animali – e non ha nessuna delle loro caratteristiche – e spiana la strada a una morale non meno moralistica, ma di certo più naturalistica. In questa concezione, la volgarità non consiste tanto nelle nostre caratteristiche zoologiche – sesso, aggressività, appetito – quanto nel modo in cui le ammettiamo o le disconosciamo.

    La volgarità (póšlost’) in Čéchov non è soltanto quella che tutti consideriamo tale, come in questo caso:

    «Perché non me l’hai detto prima, che è morto? Non sarei andata al picnic, non avrei riso in quel modo atroce... Gli uomini mi dicevano volgarità. Ho fatto peccato, ho fatto peccato! Salvami, Vànja, salvami... Sono fuori di senno... Sono perduta...»

    Qui le volgarità che presumibilmente questi uomini dicevano a Nadéžda Ivànovna riguardavano la sua facilità a concedersi, dato coerente – secondo loro – con la sua convivenza con Laévskij al di fuori del matrimonio. Ma per Čéchov la volgarità non è copulare – attività zoologicamente normale e necessaria: è essere passionali:

    «Questi passionali nel cervello devono avere un’escrescenza particolare tipo sarcoma che comprime il cervello e governa l’intera psiche».

    La passionalità, ossia il crogiolarsi nelle pulsioni istintuali, l’assecondarle a scapito del vivere civile, è considerata una malattia, una malformazione, un’escrescenza del cervello, che colpisce gli stessi personaggi che sono anche definiti isterici.

    La risata si fece sempre più alta e si trasformò in qualcosa di simile al latrato di un cagnolino bolognese. Laévskij voleva alzarsi da tavola, ma le gambe non gli obbedivano e la mano destra in modo strano, al di fuori della sua volontà, saltava da un capo all’altro del tavolo, afferrava convulsamente i bigliettini e li appallottolava. Vide gli sguardi stupiti, la faccia seria, spaventata di Samójlenko e lo sguardo dello zoologo, pieno di fredda derisione e disgusto, e capì di avere una crisi isterica.

    Qui va detto che Čéchov si dimostra più avanti di Freud stesso, attribuendo l’isteria non a una donna ma a un maschio. Perché per Freud l’isteria era ancora quel disturbo collegato all’utero e alle sue funzioni e disfunzioni. Laévskij, poi, vergognandosi da morire, cerca una giustificazione al proprio attacco isterico e freudianamente dà tutta la colpa alla civiltà che produce nevrosi:

    «Sì, è stata una storia buffa», disse, continuando a sorridere. «È tutta la mattina che rido. Il curioso degli attacchi isterici è che sono assurdi, e mentre dentro di te ci ridi sopra, nello stesso tempo singhiozzi. Nell’epoca delle malattie nervose siamo schiavi dei nostri nervi; sono loro a dettar legge e fanno di noi quello che vogliono. Sotto questo aspetto la civiltà ci ha reso un favore da orso...»

    Quella del favore da orso è una metafora che nella cultura italiana non conosciamo. Per scacciare una mosca dalla faccia dell’amico eremita, l’orso colpisce anche la faccia, uccidendo l’amico. Quindi Laévskij si lamenta che la civiltà fa più danni che benefici, benché non si renda conto che il suo sostentamento, in un’ottica zoologica, è possibile solo grazie alla civiltà che agisce in contrasto alle leggi dell’evoluzione delle specie:

    «Lavora, tu dici. Ma come lavora? Per il fatto che è arrivato qui, è migliorato forse qualcosa, e i funzionari sono più solerti, onesti e cortesi? Al contrario, con la sua autorità di intellettuale con istruzione universitaria non ha fatto che sancire la loro depravazione. È solerte solo il venti del mese, quando riceve lo stipendio, mentre gli altri giorni non fa che sciabattare per casa sforzandosi di atteggiarsi a chi stia facendo al governo russo una grande concessione per il fatto di vivere nel Caucaso. No, Aleksàndr Davìdyč, non intercedere per lui. Sei insincero dal principio alla fine. Se davvero gli volessi bene e lo considerassi un tuo prossimo, prima di tutto non saresti indifferente alle sue debolezze, non lasceresti correre, ma faresti di tutto per renderlo innocuoper il suo stesso bene».

    Qui lo zoologo si sostituisce alla natura e provvede gentilmente a eliminare le bestie malriuscite, i parassiti che nessun altro elimina e che, anzi, la morale cristiana tende a perdonare e ad aiutare.

    «Non parliamone più», disse lo zoologo. «Ricorda solo una cosa, Aleksàndr Davìdyč, che erano la lotta per l’esistenza e la selezione a difendere l’uomo primitivo da tipi come Laévskij; ora invece la nostra cultura ha indebolito in maniera cospicua la lotta e la selezione, e dobbiamo farci carico noi dell’eliminazione dei cagionevoli e degli inetti, altrimenti, quando i Laévskij si moltiplicheranno, la civiltà soccomberà, e l’uomo subirà una degenerazione assoluta. Sarà colpa nostra.»

    Non è sufficiente che lo scienziato (alias: l’uomo pensante) si adagi sulla morale cristiana pensando, in questo modo, di avere messo in salvo l’anima.

    Io considero il tuo Laévskij uno schifoso, non lo nascondo e lo tratto da schifoso, in piena buona fede. Se poi tu lo consideri tuo prossimo, puoi anche baciartelo; lo consideri un tuo prossimo, quindi significa che lo tratti come me e il diacono, cioè in nessun modo. Sei indifferente allo stesso modo con tutti.

    Qui Čéchov sferra un attacco frontale al cristianesimo, accusandolo, insieme a tutte le altre ideologie ’buoniste’ diremmo oggi, di pervertire la selezione naturale proteggendo individui che la selezione eliminerebbe.

    «Pregiatevi di continuare a vivere e avere a che fare con signori di tal fatta!» disse lo zoologo e in segno di spregio calciò in un angolo un pezzo di carta. «Cerca di capire, che questa non è bontà, non è amore, ma codardia, depravazione, veleno! Quello che la ragione fa, lo distruggono i vostri cuori fiacchi, buoni a nulla! Quando al ginnasio mi sono ammalato di tifo addominale, mia zia per compassione mi nutriva a funghi marinati, e per poco non sono morto. Tu e mia zia dovete capire che l’amore per l’uomo deve trovarsi non nel cuore, non sotto lo sterno, non alla cintola, ma qui dentro

    Esiste una morale umanistica, tramandata di generazione in generazione, che in nome del buon cuore compie molte scempiaggini. Ma è difficile attaccarla, perché è così buona che attaccandola si fa la figura dei cattivi, crudeli, disumani.

    Le scienze umane di cui parlate soddisfaranno il pensiero umano solo quando nel loro movimento incontreranno le scienze esatte e vi si affiancheranno. Se si incontreranno al microscopio, o nei monologhi di un nuovo Amleto, o in una religione nuova, non lo so, ma credo che prima che ciò accada la terra si coprirà di una crosta di ghiaccio. La più tenace e viva di tutte le conoscenze umanistiche è naturalmente l’insegnamento di Cristo, ma guardate come persino quello viene concepito in modo diverso! Alcuni predicano di amare il prossimo, e così dicendo fanno eccezione per i soldati, i delinquenti e i matti: ai primi danno il permesso di uccidere in guerra, i secondi li si può isolare o giustiziare, e ai terzi viene vietato sposarsi. Secondo altre interpretazioni s’insegna ad amare il prossimo senza eccezioni, senza distinguere vantaggi e svantaggi.

    È la denuncia – di impressionante attualità – di come i benpensanti non ’scientifici’ possono, con una buona fede solo apparente, portare alla decadenza e alla rovina la società seguendo la ’legge del cuore’. Qui l’attacco frontale alla morale cristiana non è di stampo socialista o anarchico, ma biologico, positivista, evoluzionistico.

    «Laévskij è senza dubbio nocivo e altrettanto pericoloso per la società quanto un microbo del colera», continuava von Koren. «Affogarlo è un’azione meritoria».

    È scientificamente, evoluzionisticamente necessario eliminare le creature nocive, allo stesso modo in cui un giardiniere elimina le erbacce.

    «Non t’indispettire, ragiona invece», disse lo zoologo. «Beneficare il signor Laévskij secondo me è stolto quanto innaffiare un’erbaccia o nutrire una locusta

    Altrimenti si determina la degenerazione:

    Immaginatevi che vi riesca di inculcare alle api idee umane nella loro forma non elaborata,

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