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Nel baratro: Versione filologica del racconto
Nel baratro: Versione filologica del racconto
Nel baratro: Versione filologica del racconto
E-book67 pagine54 minuti

Nel baratro: Versione filologica del racconto

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Info su questo ebook

Questo, tra gli ultimi racconti di Čechov, è considerato il più significativo tra le centinaia di opere di questio genere testuale prodotte da Anton Pavlovič. Nabokov gli ha dedicato un lungo saggio nelle sue celebri lezioni di letteratura russa. Il baratro metaforico del titolo è un baratro morale prima ancora che geografico. Al suo interno, nel paese immaginario di Ukléevo, si consumano nefandezze di vario genere, senza che questo scalfisca la coscienza dei commercianti protagonisti della storia. Profondamente poetico, anche qui come spesso nel Čechov maturo la natura, gli uccelli, il sole, le stagioni, i versi delle rane hanno un valore simbolico sottile.
LinguaItaliano
Data di uscita4 apr 2020
ISBN9788831462044
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    Anteprima del libro

    Nel baratro - Čechov

    Antón Pàvlovič Čechov

    Nel baratro

    versione filologica del racconto

    (1899)

    a cura di Bruno Osimo

    Copyright © Bruno Osimo 2020

    Titolo originale dell’opera: В овраге

    Traduzione dal russo di Bruno Osimo

    Bruno Osimo è un autore/traduttore che si autopubblica

    La stampa è realizzata come print on sale da Kindle Direct Publishing

    ISBN 9788831462037 per l’edizione cartacea

    ISBN 9788831462044 per l’edizione elettronica

    Contatti dell’autore-editore-traduttore: osimo@trad.it

    Traslitterazione

    La traslitterazione dei nomi è fatta in base alla norma ISO 9:

    â si pronuncia come ‘ia’ in ‘fiato’ /ja/

    c si pronuncia come ‘z’ in ‘zozzo’ /ts/

    č si pronuncia come ‘c’ in ‘cena’ /tɕ/

    e si pronuncia come ‘ie’ in ‘fieno’ /je/

    ë si pronuncia come ‘io’ in ‘chiodo’ /jo/

    è si pronuncia come ‘e’ in ‘lercio’ /e/

    h si pronuncia come ‘c’ nel toscano ‘laconico’ /x/

    š si pronuncia come ‘sc’ in ‘scemo’ /ʂ/

    ŝ si pronuncia come ‘sc’ in ‘esci’ /ɕː/

    û si pronuncia come ‘iu’ in ‘fiuto’ /ju/

    z si pronuncia come ‘s’ in ‘rosa’ /z/

    ž si pronuncia come ‘s’ in ‘pleasure’ /ʐ/

    I

    Il paese di Ukléevo era in un baratro, tanto che dalla strada e dalla stazione della ferrovia erano visibili solo il campanile e le ciminiere delle fabbriche di cinz stampato. Quando i passanti domandavano che paese fosse, gli dicevano:

    «È quello dove il sacrestano ai funerali s’è mangiato tutto il caviale».

    Un giorno al banchetto funebre dal fabbricante Kostûkóv un vecchio sacrestano aveva visto tra gli antipasti il caviale in grani e si era messo a mangiarne con avidità; gli avevano dato di gomito, lo avevano tirato per le maniche, ma lui era come inturgidito dal piacere: non provava nessuna sensazione e solo mangiava. Aveva mangiato tutto il caviale, e nella scatola ce n’erano quattro o cinque libbre. Ed era passato tanto tempo da allora, il sacrestano era morto da un pezzo, ma del caviale continuavano a ricordarsi. Che la vita fosse tanto povera qui, o che la gente non fosse capace di ricordare nulla tranne questo avvenimento non importante, accaduto dieci anni prima, comunque del paese di Ukléevo non raccontavano altro.

    Qui la febbre non passava mai e c’era fango appiccicoso anche d’estate, soprattutto vicino alle staccionate, sopra le quali si incurvavano vecchi salici che facevano un’ampia ombra. Qui c’era sempre odore di rifiuti industriali e di acido acetico, che veniva usato per la lavorazione del cinz. Le fabbriche – tre di cinz e una conceria – non si trovavano proprio in paese, ma in periferia e a una certa distanza. Erano fabbriche piccole, e in tutto vi erano occupati tre o quattrocento operai, non di più. Per via della conceria l’acqua del fiume spesso era fetida; i liquami appestavano l’erba, il bestiame dei contadini soffriva di peste siberiana[1], e alla fabbrica era stato intimato di chiudere. Veniva considerata chiusa, ma funzionava in segreto con la compiacenza della guardia locale e del medico provinciale, ai quali il proprietario pagava dieci rubli al mese a testa. In tutto il paese c’erano solo due case perbene, di pietra, col tetto di ferro; in una c’era la direzione della circoscrizione, nell’altra, a due piani, proprio di fronte alla chiesa, abitava Cybùkin, Grigórij Petróv, borghese di Epifàn’.

    Grigórij aveva una bottega di alimentari, ma questo era solo per la facciata, mentre in realtà spacciava vodka, bestiame, pelli, grano, maiali, spacciava quello che capita, e quando, per esempio, dall’estero ci fu richiesta di soroki[2] per cappelli da donna, per ogni coppia ricaricava trenta copechi; faceva incetta di boschi da taglio, prestava soldi a usura, nel complesso era un filone di vecchietto.

    Aveva due figli. Il maggiore, Anìsim, lavorava alla polizia, nel reparto investigativo, ed era a casa di rado. Il minore, Stepàn, era nel commercio e aiutava il padre, ma un vero aiuto da lui non se l’aspettavano, perché era di salute cagionevole e sordo; sua moglie Aksìn’â, una donna bella, ben fatta, che di festa andava in giro col cappello e l’ombrellino, si alzava presto, andava a letto tardi e per tutto il giorno correva, tenendosi le sottane e facendo sferragliare le chiavi, ora nel granaio, ora in cantina, ora al banco, e il vecchio Cybùkin la guardava allegro, gli si accendevano gli occhi, e nello stesso tempo si dispiaceva che non l’avesse sposata il figlio maggiore, ma il minore, sordo, che, evidentemente, non ricavava gran senso dalla bellezza femminile.

    Il vecchio aveva sempre avuto una propensione per la vita familiare, e amava la sua famiglia più di tutto al mondo, soprattutto il figlio maggiore investigatore e la nuora. Aksìn’â, appena sposata col sordo, dimostrò uno straordinario spirito pratico e sapeva già a chi si poteva fare credito, a chi no, teneva lei le chiavi, non fidandosi nemmeno del marito, faceva scoppiettare il pallottoliere, controllava

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