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Shadir, i Guerrieri Ombra
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E-book368 pagine5 ore

Shadir, i Guerrieri Ombra

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Info su questo ebook

Sesto romanzo della scrittrice Erika Corvo, terzo della serie fantasy, autoconclusivo. In un mondo regredito a livello medievale in cui le armi più evolute sono l’arco e la spada, un popolo di mutanti invisibili alla luce del giorno combatte per il possesso del territorio e la ricerca di donne fertili. Personaggi dalle mille sfaccettature, con pregi e difetti, calati in una trama complessa e ricca di colpi di scena. Un intreccio in cui si intersecano amore, perfidia, candore, innocenza e malvagità, avventure e adrenalina, combattimenti mirabolanti, coraggio, inventiva e finale a sorpresa.
LinguaItaliano
Data di uscita13 gen 2020
ISBN9788831654630
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    Anteprima del libro

    Shadir, i Guerrieri Ombra - Erika Corvo

    La Memoria

    … C’è stato un tempo in cui umani e Shadir non combattevano tra loro.

    Gli umani prestavano alle Ombre una fanciulla ad ogni cambio di stagione proclamandola Sposa Sacra, affinché gli Shadir potessero anch’essi avere progenie, ma con il solenne impegno a proteggere e circondare detta fanciulla d’ogni cura e attenzione, e poterla dipoi restituire al villaggio natale dopo averla resa madre.

    I Guerrieri Ombra, per contro, prendevano impegno a favorevole commercio con gli umani del pellame da loro abilmente lavorato, e di cavalli di pura razza, e di prezioso metallo. Restavano essi lontani dal territorio di umana attività, e solenne giuramento era il non rapir fanciulle né rubar di bestiame.

    Fu giorno di sciagura, quando una Sposa Sacra venne trovata morta al limitare d’un villaggio. Gli uni accusarono gli altri; gli animi s’inasprirono. Bandito ogni precedente accordo, iniziarono sterminî e guerre a non finire; il Sacro Suggello della Sposa relegato all’angolo della memoria dei più anziani.

    …Tempi doppiamente cupi, doppiamente tristi: senza pace il popolo degli umani, il popolo Shadir senza più eredi…

    L’attuale

    «Ritrovate le donne! Le stanno portando verso la foresta!» gridò l’uomo trapassato da più frecce, prima di stramazzare al suolo.

    La neve era alta, e dove non era sciolta dal calore delle capanne incendiate, rifletteva i sinistri bagliori del fuoco. Gli uomini ancora validi si lanciarono verso la linea degli alberi ascoltando il monito del capovillaggio ormai agonizzante, ma si scontrarono con i guerrieri Shadir in un violentissimo corpo a corpo in cui i grandi coltelli degli Uomini Ombra avevano la meglio su bastoni e forconi, armi improvvisate degli abitanti sorpresi nel sonno. Solo in pochissimi riuscirono a passare.

    Un’alba livida e spettrale stava sorgendo, rendendo ancor più macabro il tappeto di morti e feriti riversi al suolo. La neve continuava a cadere in larghi fiocchi gelidi, lasciando intravedere qua un braccio, là una mano, più in là una larga chiazza di sangue raggrumato. La poca luce che filtrava attraverso la spessa coltre di nubi tolse ogni speranza ai pochi superstiti, rimasti intrappolati entro la cerchia delle casupole in fiamme. Il villaggio era circondato da una fitta schiera di Guerrieri Ombra.

    Gli umani trascorsero gli ultimi minuti guardando i propri nemici aspettando l’assalto finale ormai imminente, consapevoli di non avere più alcuna possibilità di salvezza. Difficile, riuscire a vedere gli Shadir e poterlo raccontare. Alti, possenti, le chiome lunghe e fluenti, calzoni e stivali in cuoio, a dorso nudo sotto le foltissime pellicce d’orso, armati di asce, coltelli, archi e frecce.

    L’alba. Il solo momento in cui gli abitanti del villaggio potessero riuscire a vedere in viso chi portava loro la morte.

    Per una bizzarra mutazione genetica, i raggi diretti del sole attraversavano i corpi degli Shadir rendendoli completamente invisibili durante il giorno, visibili dopo il crepuscolo fino all’alba seguente.

    Man mano che i raggi di un sole incerto filtravano attraverso le nubi, i Guerrieri Ombra sembrarono svanire nel nulla, spettri assetati di sangue dissolti nella luce del mattino. E dal nulla si levò, formidabile, il loro grido di guerra. Gli umani vennero sopraffatti senza poter neanche poter vedere da che parte arrivassero i fendenti mortali a mozzar loro teste ed arti, senza pietà.

    Rimase solo la neve rossa e calpestata a testimoniare l’accaduto.

    La risposta degli umani non si fece attendere a lungo. Ansiosi soprattutto di liberare e recuperare le donne rapite, oltre al vendicare i caduti, dieci villaggi si riunirono in consiglio e, radunati in un piccolo esercito i più robusti e i più abili in combattimento, batterono la foresta fino a ritrovare il villaggio Shadir da cui era partito l’attacco, seguendo le orme nella neve. Si mossero poi al calar del sole in modo da poter affrontare visivamente il nemico, e resero loro occhio per occhio e dente per dente.

    Iniziarono infilando covoni incendiati nelle aperture delle abitazioni seminterrate Shadir, provocando il panico e un fuggi fuggi generale. Terrorizzati dal fuoco, i cavalli ruppero gli steccati e galopparono da tutte le parti accrescendo la confusione generale, per poi perdersi nell’oscurità. Agli incendi seguì un combattimento furioso in cui furono gli Shadir ad avere la peggio, sorpresi ad uno ad uno mentre tentavano di uscire all’aperto, accecati e soffocati dal fumo denso ed acre. Furono i loro corpi, stavolta, a tappezzare il suolo di cadaveri di ogni sesso ed età. Le donne rapite, credendosi al sicuro all’interno delle abitazioni interrate, invece di cercare la fuga rimasero al coperto a soffocare in una trappola mortale, come topi in trappola, senza possibilità di fuga.

    A memoria umana, ormai, le cose andavano avanti così.

    Dai ricordi di Hennigan

    «E noi dovremmo credere a queste loro improvvise intenzioni pacifiche, padre?»

    «Sì, Vectralia. Entrambi i popoli ne trarrebbero vantaggio. Entrambi vorremmo prosperare, vivere in pace, e invece ci stiamo sterminando a vicenda. Non si può andare avanti così: in questo modo non rimarrà più nessuno!»

    «Non mi fido di loro».

    La ragazza spezzettò la pagnotta che aveva davanti a sé nella ciotola colma di zuppa fumante. Iniziò a mangiare lentamente, a grandi cucchiaiate.

    «Manderanno qualcuno per capire se siamo realmente disposti a riunirci e discutere insieme in pace per trovare un accordo», proseguì l’uomo, un colosso bruno la cui ispida capigliatura si fondeva in un tutt’uno con la barba, folta come una pelliccia d’orso.

    «E ne approfitteranno per attaccare il villaggio».

    «Non essere così malfidente, figliola: potrebbero farlo ugualmente in qualsiasi momento del giorno o della notte. Che bisogno avrebbero di informarci anzitempo del loro arrivo?»

    «Chiunque arrivi, ammazziamolo e rimandiamo la sua testa ai parenti».

    «Che bella idea! Tra una settimana, il nostro villaggio sarebbe ridotto ad un cumulo di macerie. Hai altre idee? Ah, Vectralia, Vectralia…» la rimproverò bonariamente l’omone. «Quando avevo vent’anni, anch’io ragionavo in maniera così drastica. Ma se sono arrivato alla mia età, lo devo al fatto di aver perso quelle idee lungo la strada, immaginando un mondo di pace e facendo attivamente qualcosa perché si possa vivere tutti quanti senza bisogno delle armi».

    «Può darsi», sbuffò lei con una smorfia. «Ma loro, la pensano allo stesso modo o pensano semmai ad ingannarci con tante belle parole?»

    «Questo, non posso saperlo ora. Ascoltiamoli; sentiamo cosa abbiano da proporre. Possiamo acconsentire, ma possiamo anche non farlo».

    «Padre, posso avere anch’io da mangiare, ora?»

    Una ragazzina di non più di sedici anni era seduta in terra in un cantuccio, scalza, vestita di una tunica leggera piuttosto consumata e con qualche filo di paglia tra i folti capelli ricci color del rame filato. Solleticata dall’odore della zuppa calda e fragrante, annusava l’aria profondamente ma senza guardare la tavola dove l’uomo e la ragazza erano seduti.

    «Ho quasi finito», rispose burberamente questi. «Ti puoi leccare la ciotola. Vieni qua! Non vorrai mica anche essere servita! Toh, c’è anche un po’ di pane: sei contenta?»

    La ragazzina si alzò agilmente da dove si trovava e, a tastoni, trovò prima la tavola, poi la ciotola e ciò che avanzava del pane.

    «Non qui, che sporchi tutto!» la respinse bruscamente la sorella.

    Senza ribattere, la ragazzina posò la ciotola sul pavimento e vi si sedette accanto, inzuppando il pane in quel po’ di brodaglia che avanzava sul fondo, mangiandolo poi a grandi morsi avidi.

    «Nel porcile, dovresti stare! Guarda che schifo, che fai: sembri una bestia», commentò la maggiore.

    «Non è colpa mia se i miei occhi non vedono. E ho fame».

    «Sì, appunto. Buona solo a mangiare! Finisci in fretta e vattene da qui, che la tua presenza mi mette di malumore. Sparisci!»

    La ragazzina non se lo fece ripetere due volte. Probabilmente era entrata nella stanza solo nella speranza che le fosse elargito del cibo. Non aveva l’aria di trovarsi a suo agio, là dentro, né di essere benvoluta.

    Sgocciolando dappertutto nella fretta di finire il misero pasto, portò la ciotola ormai vuota nell’acquaio e cercò di ripulirla come meglio possa fare una persona priva della vista. Si sciacquò il viso con l’acqua pulita del secchio e uscì di corsa. Il caldo sole estivo la inondò di luce non appena varcato l’uscio, illuminando le sue forme minute ma già femminili. Inspirò profondamente gli odori dell’erba e dei fiori, chiuse gli occhi volgendo il visetto grazioso verso il sole, assaporandone il tepore. Poi si riscosse e, allungando un braccio per sfiorare i muri delle abitazioni con la mano ed orientarsi in base ad essi, si allontanò dal villaggio a passo spedito.

    Houk attirò la mia attenzione, indicandomi dove guardare.

    Incredibile! Una giovane Hum, una hoby tutta sola, seduta sull’erba intrecciando lunghi steli, cantando qualcosa a mezza voce che, a quella distanza, udivo appena. Avevo fatto bene a non seguire mio padre fino al villaggio, nella sua missione: se fossi stato fortunato, sarei riuscito a tornare in tahanna accoppiato, quella sera.

    Ma era veramente lì da sola, quella hoby? Come poteva essere possibile?

    «Houk, avrà un compagno, uno shoyo, da qualche parte qui nei paraggi, non ti pare?»

    «La logica lo suggerirebbe, ma io fiuto soltanto la sua pista, te lo assicuro. Non c’è nessuno, con lei».

    «Be’, e che aspettiamo, allora? Tu aspettami qui. È pieno giorno, non mi può vedere. Una botta in testa e, quando si sveglia, chissà dove siamo già arrivati… farò in un attimo».

    Cercai di fare il minor rumore possibile. L’erba frusciava un po’ sotto i miei piedi, ma di solito gli humàh si fidano più dei loro occhi che di tutto il resto. A dieci passi da lei, la vidi alzare la testa e respirare a fondo. Piano, pensai. Fai piano. Se chiama aiuto è un bel guaio. Ancora un passo… due… tre… dai, su, ci siamo…

    «Ciao».

    Rimasi immobile, impietrito. Cosa diavolo succedeva?

    «Ciao», ripeté lei, dolcemente. «Chi sei? Non conosco il tuo passo né il tuo odore, quindi non sei del villaggio. Da dove arrivi?»

    Questa, poi! E da quando, gli humàh fiutano l’aria e hanno un udito così fine? Confesso che ci rimasi di stucco, e il mio bel progetto di tornare in tahanna in compagnia vacillò pesantemente.

    «Ciao», risposi. «Mi chiamo Hennigan e arrivo da molto lontano, sono in viaggio con mio padre. E tu, come ti chiami?»

    «Deirdre», rispose lei. «Vuoi sederti un po’ qui con me? Mi farebbe piacere, un po’ di compagnia.

    «Perché no? È un bel nome, Deirdre. Si mastica, quasi. Lo senti scrocchiare sotto i denti».

    Una risata argentina le illuminò il viso.

    «Non ho mai sentito un commento simile, sul mio nome. Hennigan. Vuol dire qualcosa?»

    «Non credo; è solo un nome. Non hai paura, a stare qui da sola? Potrebbe arrivare uno Shadir e rapirti: com’è che ti lasciano allontanare così dal villaggio?»

    «Sai che affare, a rapirmi! Mio padre dice che non servo a niente e che sono buona solo a riempirmi la pancia. Lo dice perché i miei occhi non vedono, e non riesco a fare i lavori come le altre ragazze. E poi, non ho ancora le miei regole anche se ho già sedici anni. Cosa se ne fa, uno Shadir, di una come me? Chissà il tempo che passa, prima di potergli partorire un figlio… Per questo, non ho paura».

    «E per questo, il tuo fiuto è così preciso e il tuo udito così fino. A proposito di fiuto… lei è Houk».

    Alle sue orecchie di Hum, il nome Houk dovette sembrare un semplice abbaiare.

    Houk mi aveva seguito con lo sguardo da dove era rimasta in attesa e, visto il cambio di programma aveva deciso di raggiungermi.

    «È il tuo cane? Che bello! Com’è affettuoso!»

    Houk le si avvicinò, scodinzolando ironicamente nei miei confronti.

    «Faccio in un attimo, eh?»

    Per fortuna, Deirdre non poteva capire la sua lingua.

    «Veramente, a chiamarla cane, la offendi: è una lupa. E il suo nome significa, appunto, Mamma Lupa».

    «L’hai addomesticata proprio bene, allora: guarda come mi annusa e mi lecca le mani! È la prima volta che tocco un lupo. Che bel pelo! Mi piace!»

    «E tu piaci a lei. Di solito non ama farsi toccare da chi non conosce».

    «E tu, non hai paura di incontrare gli Shadir? Dicono che tra qualche giorno ci sarà una riunione tra i capi dei loro villaggi e dei nostri… Se questa riunione ci sarà davvero, tra breve sarà pieno di Shadir, qua in giro».

    Be’, l’avrete capito da soli che io sono uno Shadir.

    E mio padre era venuto fino lì proprio per parlamentare e chiedere di organizzare un consiglio di capi. Ma non ritenni opportuno farglielo sapere.

    «So difendermi, sai? Sono grande, grosso e forte».

    «Davvero? Mi fai vedere?»

    «Hai appena detto che non vedi».

    «Io vedo con le mani. Toccando. Posso toccarti e vedere come sei fatto?»

    «D’accordo, fai pure». Cominciavo a divertirmi.

    «Dammi le tue mani, ti prego. Iniziamo da lì: le mani sono lo specchio della personalità».

    Gliele porsi. Non avevo mai immaginato una cosa del genere. Sembrava possedere davvero degli occhi supplementari sulla punta delle dita: mi toccava con vera attenzione valutando pelle, muscoli e ossatura. Forse vedeva anche più che con gli occhi.

    «Sono mani forti, avvezze al lavoro duro, ma non con le callosità dei contadini che impugnano la vanga tutto il giorno. Tra il pollice e l’indice, il muscolo è forte e solido da ambo le mani: tu sei un guerriero, e impugni le armi indifferentemente con la destra e la sinistra, dato che sono sviluppate in modo identico. E qui, l’indice e il medio della mano destra… aspetta…»

    Mise in bocca le due dita e le tastò con la lingua. Grande Orso, che sensazione esplosiva! Ora capivo molto bene per quale motivo Houk si fosse lasciata toccare!

    «La callosità è qui. Sai tirare con l’arco, oltre che maneggiare la spada».

    Ero strabiliato. Le stava imbroccando tutte, una dietro l’altra.

    «È tutto giusto, va’ avanti».

    «Fammi vedere il tuo viso, adesso».

    «Sono qui, toccalo pure».

    Per l’Orso! Aveva due manine piccole, tenere; un tocco delicatissimo e carezzevole che mi dava sensazioni e brividi mai provati prima.

    «Capelli lunghi e folti, morbidi, senza nodi… hai molta cura, di te. Di che colore sono?»

    «Hanno il colore del grano estivo, Deirdre».

    Si avvicinò di più per poterli annusare. Per la Madre, mi stava facendo impazzire, facendo scorrere le dita tra i miei capelli. Mi sarei fatto toccare così tutta la vita! NO. Volevo che mi toccasse così, tutta la vita.

    «Hanno anche il profumo, del grano estivo, sai? Vediamo… fronte ampia, occhi grandi, zigomi alti, bocca piccola e ben fatta, mascella forte, barba rasata e pelle liscia. Non hai molti anni più di me. Puoi averne una ventina, ma non di più. I lineamenti sono dolci e regolari… mi sa che sei molto, molto carino, tu».

    «Be’, la bellezza è questione di opinioni… comunque mi fanno piacere, i tuoi complimenti».

    «Figurati. Bene, qui c’è il collo, le spalle…», proseguì nel suo esame mettendosi in ginocchio per vedermi meglio. «Vergine del Grano, che spalle larghe! Ma quanto sei grande? Hai ragione a dire di non temere nessuno: sei più grosso di mio padre che è l’uomo più grosso del villaggio! Accidenti, che muscoli!» Rimase un attimo in silenzio passando le manine sui miei pettorali, tornò a misurare l’ampiezza delle spalle, poi scese sugli addominali e sui fianchi. «Sembri un albero ricoperto di velluto. Ti è venuta la pelle d’oca. Hai freddo?»

    «No. È che quando mi tocchi mi metti i brividi: hai le mani così piccine e delicate… mi piace, quando mi tocchi».

    «Ohi, ohi, le braccia non sono da meno di tutto il resto! Mi fai vedere quanto sei alto? Alzati in piedi, ti prego».

    Ci alzammo entrambi. Lei mi arrivava sì e no all’altezza della spalla. C’è da dire che supero il metro e novanta, mentre lei poteva essere sì e no un metro e sessanta, e molto snella. La alzai da terra e la baciai su una guancia.

    «Arrivo qui». Non pesava più di un gattino.

    «Sei alto!»

    Mi sembrava di aver superato un esame. Le piacevo.

    Houk se ne andò a zonzo inseguendo un coniglio, credo. Noi passammo il resto del pomeriggio chiacchierando, parlando di noi e delle nostre abitudini. Io cercavo di essere più vago possibile, riguardo alla mia provenienza. Quella hoby mi piaceva davvero, ed ero certo che se avesse saputo della mia vera natura si sarebbe spaventata. Se poi avesse saputo che mi ero avvicinato per rapirla, figuriamoci! Se volevo rivederla dovevo mentire, anche se mentire non è nella mia indole e neanche sono bravo a farlo: mi contraddico in continuazione. Però, dovevo, o lei non sarebbe più tornata.

    Più tardi, il discorso cadde nuovamente sugli Shadir.

    «Ogni tanto ne parlano, ma non ho mai capito davvero cosa facciano. So solo che tutti li temono. Tu ne sai qualcosa?»

    Mmmh! Che bella domanda!

    «Le loro origini sono chiaramente hum…ane, ma la Vergine Radioattiva li ha mutati. La luce diretta del sole li attraversa; per questo, di giorno, gli hum…ani non possono vederli». Accidenti, mi veniva da dire humàh, piuttosto che umani. Non sono proprio bravo, a mentire. «Dal tramonto all’alba, o al chiuso, li si può vedere, e allora non hanno proprio niente di diverso da nessun altro. Vivono in tahannàh, le tane seminterrate e, quando va tutto bene, con gli hum…ani, ci commerciano. Il problema del popolo Shadir è che scarseggiano le hobàh, le femmine. E siccome ne hanno un bisogno disperato, le rapiscono dai villaggi. Così scoppiano le guerre».

    Prudentemente, non le dissi che viviamo in simbiosi con i lupi, che comprendiamo la loro lingua e che, al pari di loro, preferiamo la carne cruda della preda appena uccisa, sebbene talvolta ne mangiamo anche di cotta. Omisi anche che il pezzo forte dei nostri commerci sono armi e pellicce. Le armi degli humàh sono imprecise e tendono a rompersi facilmente; quanto alle pelli, gli humàh non sono proprio capaci di trattarle e cucirle come noi. Messi a confronto, loro vestono di stracci mentre noi indossiamo capolavori: abiti impermeabili, caldissimi e leggeri, resistenti e con mille lavorazioni diverse.

    «Tu credi che dopo questa riunione, le guerre potranno cessare?»

    «Lo spero. Vedere morire i propri cari non piace a nessuno. Sei nata cieca o lo sei diventata?»

    «Ho preso un colpo in testa quando ero molto piccola, avrò avuto tre o quattro anni… non ricordo niente di quando ci vedevo. Non ricordo neanche i colori. Faccio dei sogni, e nei sogni ci vedo, ma non so se sia la stessa cosa. Però, riesco a distinguere bene il giorno dalla notte. A volte mi sembra di vedere qualcosa, ma credo sia solo una mia illusione».

    «Ti crea molti problemi, non vedere?»

    «Io avrei tanta voglia di fare quello che fanno le altre ragazze, ma non mi lasciano. Certo che hanno ragione: sai che disastro se dovessi essere io ad accendere il fuoco, o a provare di cucinare qualcosa… mi sa che brucerebbe l’intero villaggio. So come si fa, sai? Conosco i movimenti e le cose da fare, ma è meglio che non lo faccia. Figurati, poi, se potrei mai accudire un neonato o tessere una stoffa colorata al telaio! Così, non mi vuole nessuno. Dicono che sono buona soltanto a mangiare; un peso per tutti. La mamma era l’unica persona a volermi bene, ma se la sono presa gli Shadir, tanti anni fa… Sarà morta, ormai; lo pensano tutti».

    «Mi dispiace. Ma non è vero che non ti vuole nessuno: a me, piaci».

    «Ti ringrazio, ma forse lo dici solo perché non mi conosci, altrimenti diresti anche tu che sono buona a niente».

    «Io, invece, sono convinto che con un po’ d’aiuto potresti fare molte cose».

    «Lo dici solo per farmi piacere».

    «No, no; ne sono proprio convinto».

    Prima che il pomeriggio finisse, eravamo entrambi sdraiati nell’erba alta assaporando il calore del sole estivo, la testa di lei nell’incavo della mia spalla e una manina sul mio petto.

    No, non l’avrei rapita. Non so perché, ma avevo cambiato idea. Almeno per un po’, le cose potevano rimanere come stavano. Ma volevo, dovevo rivederla. A qualsiasi costo, volevo ancora che quelle manine mi toccassero, così eccitanti e carezzevoli.

    Naturalmente, ci si rivide il giorno dopo.

    «Il consiglio si terrà, Vectralia», disse l’omone barbuto finendo di lavarsi con l’acqua del mastello. «È venuto uno di loro, un certo Brunwald, il capo dei Lupi Grigi, dicendo che sono stufi di stragi e sterminî, e che sia meglio trovare una soluzione pacifica ai nostri problemi comuni. Magari, ripristinare l’usanza della Sposa Sacra. Mi è sembrato sincero».

    «Com’è?»

    «Grosso come un orso e forte come una quercia».

    «Magari, anche puzzolente, come un orso».

    «Se vogliamo parlamentare, non possiamo arenarci su simili piccolezze; lo capisci o no?»

    «Va bene, e allora?» sbuffò lei, sprezzante, sistemandosi la veste.

    «Allora, ho invitato dei messaggeri, cosicché tra una settimana saranno qui i capi di altri nove villaggi. Lui manderà a chiamare altrettanti capi tribù… capi branco… chi lo sa come si chiamano, tra di loro».

    «E secondo te, questa è una cosa buona? Trattare con quei mezzo-bestia come se fossero nostri pari? Dove andremo a finire, di questo passo, padre? Perché non li invitiamo anche alla nostra tavola?»

    «Non essere sempre così drastica, nei tuoi giudizi, figliola. Non fa piacere neanche a noi, trattare con quelli, ma è sempre meglio che veder bruciare le nostre case con dentro le persone che amiamo, magari domani notte stessa».

    «Cedete al ricatto della paura, ecco la verità».

    «Cediamo al buonsenso e alla comune volontà di pace, ecco la verità».

    «La tua, verità» ribatté lei, sarcastica.

    «Va bene, la mia, se ti fa piacere. E adesso fammi andare alla fucina, ragazza, che ho parecchio da fare, oggi. Dov’è, Deirdre? Non dirmi che dorme ancora: il sole è già sorto da un pezzo!»

    «Buona a niente, quella. Adesso ci penso io».

    La ragazza aprì la porticina sgangherata che dava su di una piccola stalla. Tanta paglia, quattro pecore e due agnelli, tre galline e una ragazzina rannicchiata sotto uno straccio di coperta piena di buchi. La svegliò con un calcio.

    «Sveglia, pigrona!» la rimbrottò bruscamente, al posto del buongiorno «Mungi le pecore e vedi di portarle fuori a brucare un po’ d’erba! Muoviti», intercalò con un altro calcio, «se vuoi guadagnarti il pane!» La ragazzina si svegliò, mugolando. «Non sei tornata che al tramonto, ieri: dove sei stata?» chiese la sorella, aspramente.

    «Al campo della camomilla. Mi piace l’odore che c’è lì».

    «E allora vedi di portarci le pecore, che piacerà di sicuro anche a loro».

    «Va bene», mormorò Deirdre.

    Portare al pascolo le pecore! Non facile, per chi non vede. Di solito era un vicino di casa ad occuparsi di quei pochi capi di bestiame, unendoli ai suoi e riportandolo all’ovile all’imbrunire. Per lui, diceva, non era un peso. Magari chiedeva in cambio qualche rattoppo alle vesti o altri lavoretti di poco conto, ma a volte, Vectralia insisteva perché fosse Deirdre a portarle fuori. Doveva pur rendersi utile in qualche modo, la fannullona.

    Anche mungerle, per la ragazzina non era un’impresa da poco, e riuscire a cavar fuori da esse un mezzo secchiellino di latte, quasi un miracolo. Senza dimenticare che il più delle volte, insieme al latte, nel secchiello finivano paglia, insetti, bioccoli di lana e molte altre cose. In compenso, Deirdre poteva berne qualche sorso prima di portare a casa il secchiello, e aveva così tanta fame che, qualsiasi cosa ci fosse stata dentro, non conveniva andare tanto per il sottile.

    Se a sedici anni compiuti non aveva ancora le sue regole, probabilmente era dovuto al fatto che la nutrissero di avanzi.

    Per farle portare fuori gli animali avevano inventato un sistema piuttosto semplice: un collare munito di campanacci al collo di ogni pecora e una lunga, lunga corda che legasse gli animali l’uno all’altro, passando di collare in collare: l’ultimo tratto di corda in mano alla ragazzina, per potersele tirare dietro tutte in fila indiana. Gli agnellini, anch’essi muniti di collare e campanaccio, non erano legati perché da soli seguivano le madri.

    Fortunatamente per Deirdre, tutto attorno al villaggio era una distesa di campi verdeggianti, e il terreno a pascolo non mancava.

    Per quel poco che rientrava nelle capacità della ragazzina di allontanarsi dal villaggio, non doveva far altro che camminare dritta davanti a sé finché non avvertiva l’erba alta tutto attorno a lei. Alla sera, non era raro che fossero le pecore a riportare a casa lei, piuttosto che il contrario. Gli animali restavano sempre legati tra loro, ed era facile localizzarli in base al suono dei campanacci. Poteva quindi lasciarli pascolare legando l’ultimo tratto di corda all’albero più vicino, ad una roccia, una radice, o anche alla propria caviglia.

    «Pecore? Buone!» sentenziò Houk leccandosi le labbra, vedendo in lontananza il minuscolo gregge e l’altrettanto minuscola guardiana.

    «Mamma Lupa, non possiamo rubarle le pecore ed essere anche suoi amici, non credi?» ribattei, pronto.

    «E lei, come pensa di poter essere nostra amica, se non ci concede nemmeno una pecora?»

    «Discorso sensato, ma non convincente. Niente pecore.» risposi, scuotendo la testa come diniego.

    «Neanche un agnello?» fece Houk, contrariata.

    «Neanche. Non credo le abbia portate per noi, quindi sarà meglio che tu non ti faccia venire in testa idee sbagliate».

    «Peccato. Vado a cercare qualcosa di tenero da mettere sotto i denti, allora. Quell’abbondanza mi ha fatto venire l’acquolina in bocca!»

    «Vieni sottovento, quando torni, o le spaventerai a morte».

    «D’accordo», uggiolò, allontanandosi a grandi balzi.

    Quella mattina ero stato al fiume, e dopo aver cacciato qualcosa per me e mio padre avevo costruito un flauto di canna, con l’idea di farle piacere e forse di insegnarle a suonare, se ne avesse avuto voglia.

    A cento metri da lei, iniziai a zufolare un motivetto. Si drizzò a sedere di colpo e annusò l’aria come avrebbe fatto Houk.

    «…Hennigan…» mormorò a bassa voce, e un enorme sorriso la illuminò tutta. «Hennigan! Sei tu?»

    Era bello sapere che fosse felice di incontrarmi di nuovo.

    «Certo che sono io», confermai, raggiungendola.

    Mi gettò le braccia al collo non appena riuscì a localizzare la mia posizione, a cinque centimetri da lei.

    «Cos’era quella musica? Era bellissima!»

    «Stavo suonando il flauto, ho pensato che potesse piacerti».

    «È così, infatti. Ma com’è fatto, un flauto?»

    «Non ne hai mai visto uno? Mai sentito?»

    «L’ho sentito in qualche festa al villaggio, ma non ho mai potuto vederlo da vicino».

    «Tieni, guardalo».

    Lo girò e lo rigirò da tutte le parti, guardandolo con le sue manine. Lo soppesò, lo annusò e lo leccò.

    «È fatto con una canna di fiume! Come fai a farlo suonare? »

    «Si mette la cannuccia piccola in bocca e ci si soffia dentro. Mentre soffi, bisogna tenere le dita sui buchini e tenerli aperti o chiusi in un certo modo. Sediamoci: ti faccio provare, se vuoi, quando avrai visto come faccio io».

    Si mise di fronte a me. Io suonai qualche nota, mentre mi toccava il viso per vedere come tenessi in bocca la canna e come muovessi le dita.

    «Fammi provare, ora, ti prego!» si entusiasmò.

    Mi sedetti dietro di lei, in modo da poterle guidare le dita nei movimenti. Prima le singole note, poi la sequenza giusta per riprodurre il motivetto di poc’anzi. Altro che buona a niente! Imparava, e imparava in fretta. Poteva essere anche cento volte cieca, ma era cento volte in gamba. Seduto alle sue spalle, praticamente la tenevo tra le braccia, e lei ci si accoccolava dentro completamente a suo agio, fiduciosa e solare, tutta concentrata sul

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