Esalfa
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Esalfa racconta della contrapposizione, costante nell’esistenza dell’uomo, tra l’invalicabilità del limite, rappresentato dalla finitezza e dalla transitorietà dell’esistenza, e il desiderio di trascenderlo, in un delirio di infinita onnipotenza.
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Anteprima del libro
Esalfa - Nino Branchina
Epilogo
Indice
Indice
Prologo
Muhlberg, aprile 1547
Il palazzo di Toledo
Il ritorno a casa
Il tribunale
Un giorno di terrore
Amore e Passione
La morte in agguato
Nel rifugio di Ramon
Il morto di Dio
L’Inferno di fuoco
L’albero di Rafael
Una misteriosa minaccia
Il cadavere piovuto dal cielo
Il giudizio di Dio
Epilogo
NINO BRANCHINA
ESALFA
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.
Freud scriveva che nessun uomo crede, in fondo, alla propria morte, e che ciascuno è inconsciamente convinto della propria immortalità
.
Esalfa racconta della contrapposizione, costante nell’esistenza dell’uomo, tra l’invalicabilità del limite, rappresentato dalla finitezza e dalla transitorietà dell’esistenza, e il desiderio di trascenderlo, in un delirio di infinita onnipotenza.
Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, affinché tu arbitrario plasmatore di te stesso, possa collocarti in quella forma che vorrai. Potrai degenerare verso gli infimi gradi o potrai rigenerarti nei divini gradi superiori, secondo la decisione del tuo animo.
Pico della Mirandola
Prologo
Mio Dio, quando cesserà l’uomo di sfidare la tua onnipotenza? Esiste desiderio umano più insano del volere primeggiare con la tua Sapienza? L’animo dell’uomo è un universo indefinibile. Nel buio dell’esistenza assistiamo alla comparsa di bagliori che sembrano illuminare, più del verbo divino, il nostro percorso, ma che poi si estinguono come la fiamma di una candela. Ho vissuto quando comparve uno di questi bagliori: Lutero, il monaco sassone. Quando le eresie di Lutero puntarono il dito contro i fondamenti della fede, lo scontro con la Chiesa di Roma fu inevitabile. Le basi del suo pensiero erano poche, ma capaci di minare, alla base, il fulcro del nostro credo. Lutero sosteneva che l’uomo, corrotto dal peccato dei progenitori, poteva essere giustificato soltanto dalla fede nell’Altissimo, e che il papa, non avendo ricevuto dall’apostolo Pietro alcuna autorità, non avesse più diritti di qualsiasi altro uomo. Negava inoltre che la Chiesa avesse corpo, ma essendo dotata soltanto di spirito, non poteva essere visibile: che senso aveva, quindi, la presenza di tutta quella gran corte di monaci e cardinali, persino un esercito, a disposizione del papato? A parte la santissima Eucaristia e il Battesimo, Lutero non riconosceva altri sacramenti, giacché istituiti non da Cristo ma dalla Chiesa terrena. Il monaco sassone ammetteva invece la Santissima presenza del corpo e del sangue del Redentore nella natura propria del vino e del pane. Dio mio, quante sciocche fantasie! Lutero, non ritenendo ingannevole la sua personale interpretazione delle Sacre Scritture, credeva di essere l’unico a detenere la verità.
Papa Leone denunciò le eresie del monaco, il quale, per tutta risposta, ne bruciò, pubblicamente, la lettera di condanna nella piazza della città di Wittenberg. L’imperatore Carlo, difensore della Santa Chiesa, incontrò Lutero nel tentativo di farlo desistere dal diffondere quelle eresie, ma il monaco gli oppose un netto rifiuto. Al papa non rimase altro che scomunicarlo.
Se Roma condannò il monaco, la Sassonia abbracciò il credo luterano, accolto con grande entusiasmo dai principi e dalle popolazioni locali, di cui stimolò il fervore religioso e anticlericale. Addirittura, Federico di Sassonia ospitò Lutero nel proprio maniero, dove si fece tradurre le Sacre Scritture in lingua natia. Le eresie si diffusero, non tardarono a scoppiare i tumulti, nelle città cominciò a scorrere il sangue, il demonio teneva gli occhi spalancati e sorrideva.
A quel tempo Carlo, impegnato nelle campagne militari contro il re di Francia, costretto quindi dalla necessità a prendere tempo, aveva concesso che i monaci luterani potessero prendere moglie e officiare le funzioni religiose nella loro lingua.
Ottenuta la pace con i francesi, l’imperatore tornò ad occuparsi di Lutero e del suo seguito: cominciò con il revocare tutte le licenze che aveva concesso in precedenza ai monaci, e minacciò di rappresaglie l’aristocrazia sassone che si era schierata apertamente dalla parte del monaco. Per tutta risposta, i principi sassoni, anziché piegarsi al volere di Dio, della Chiesa e dell’imperatore, si allearono a Smalcalda e raccolsero un poderoso esercito con l’intento di opporsi a ogni tentativo di rivalsa del papa e dello stesso imperatore.
Il bicchiere era colmo. La mortale radice luterana stava per germogliare e doveva essere quanto prima sradicata.
Muhlberg, aprile 1547
Era una buia alba di aprile. Avevo dormito poco, e sentivo i brividi sulla pelle: il freddo certo, ma anche, e soprattutto, l’angoscia per quanto stava per accadere. Mi affacciai fuori dalla tenda e scorsi la distesa oltre la collina. La bruma del mattino stava svanendo rivelando ai miei occhi la collocazione sul terreno delle truppe di Carlo. Sono un medico e capisco poco di tecnica militare, ma la prima volta che vidi la disposizione di quei soldati, ne rimasi affascinato: i picchieri si disponevano a quadrato al centro, gli archibugieri formavano quattro ali agli angoli della precedente formazione. Di fronte si disponevano le linee dei moschettieri.
I picchieri, con le loro lance, avevano il compito di difendere i corpi degli archibugieri durante i lunghi processi di ricarica delle armi. Gli archibugieri, a loro volta, sparavano in file allineate, e dopo ogni tiro si ritiravano nell’ultima fila per ricaricare, avanzando nella propria colonna. In questo modo, man mano che completavano le operazioni di caricamento dell’arma, si ritrovano ancora di fronte al nemico quando erano di nuovo pronti a sparare.
Rientrai nella tenda e mi abbandonai al ricordo di quanto era successo nelle ore precedenti. Al tramonto, gli esploratori Ussari avevano riportato la notizia di un grosso concentramento di truppe sassoni lungo la riva opposta del fiume Elba. Incontrata l’avanguardia nemica, c’era stato qualche breve scambio di colpi. La notizia ebbe l’immediata conseguenza di accelerare il posizionamento dei pezzi d’artiglieria sul declive della collina, così da dominare lo schieramento nemico. A cena, avevo consumato un pasto frugale e, subito dopo, m’ero sdraiato sulla branda. Mi addormentai quasi subito, ma venni svegliato per soccorrere alcuni soldati.
La verità è che nei ranghi non c’erano soltanto uomini di mestiere, ma anche giovani reclute che possedevano tanto entusiasmo ma poca esperienza. Due grossi cannoni erano stati già fissati in posizione, quando un giovane artigliere, per errore, aveva appiccato il fuoco a un sacco pieno di polvere da sparo, rimanendo bruciato assieme ad altri quattro soldati. Tre erano morti subito, il quarto dopo qualche ora di tremenda agonia.
In mente avevo ancora i volti di quei giovani deformati dalla maschera della morte, quando sentii lo squillo delle trombe e l’eco dei primi colpi. Alvares de Toledo aveva appena ordinato agli archibugieri e ai moschettieri di oltrepassare le acque dell’Elba e di scontrarsi con i picchetti sassoni.
I colpi si facevano più intensi, la fanteria sassone avanzava a sua volta minacciando le nostre prime linee. I rombi dei cannoni coprivano il rumore delle fucilate. Nonostante la distanza, potevo udire chiaramente le grida dei nostri uomini mentre si scontravano con il nemico; le loro urla e bestemmie, quando vennero corpo a corpo coi sassoni, erano un modo per esorcizzare la paura e intimorire il nemico.
Le forze nemiche erano superiori, ma i nostri fanti, con grande coraggio, sostenevano l'urto, impavidi: su quel terreno fangoso, li scorgevo vacillare, cadere, quindi recuperare lo spazio perduto.
Avevo la gola secca. Afferrai la fiaschetta e bevvi un lungo sorso d’acqua. Dalla mia posizione, continuai a osservare il campo di battaglia. Era impossibile farsi un’idea del numero dei nostri soldati caduti, perché nonostante fossero fatti mira dell’artiglieria nemica, continuavano ad avanzare in massa nascondendo i cadaveri alla vista.
Un sommesso brusio m’indusse a volgermi alle spalle. L’imperatore, in sella al suo cavallo, avanzava maestoso fra le due ali di soldati e ufficiali che si aprivano al suo passaggio. Carlo appariva tranquillo: ci fu un breve conciliabolo con gli ufficiali, poi gli attendenti corsero via a impartire i nuovi ordini ai reparti, e l’imperatore s’intrattenne a osservare lo svolgimento della battaglia. Credo che lui non avesse il minimo dubbio che la sorte, quel giorno, sarebbe stata dalla nostra parte.
Ci si era premurati di cogliere il nemico alle spalle. Infatti, durante la notte, alcuni uomini, tra i più valorosi, attenti a non farsi notare dal nemico, avevano attraversato a nuoto le acque del fiume, in un punto a valle rispetto alla posizione attuale, e si erano impadroniti di alcune vecchie imbarcazioni. I genieri si erano messi al lavoro, e utilizzando il legname delle barche, avevano costruito un ponte per collegare le due sponde del fiume. Inoltre, alcuni contadini del luogo, ostili a Lutero e ai principi sassoni, ci avevano mostrato un tratto di fiume poco profondo e facilmente guadabile. In altre parole, la Provvidenza ci stava dando i mezzi per potere sorprendere il nemico.
All’improvviso, un tremendo boato si propagò nel suolo, simile a un terremoto che di lì a poco avrebbe raso al suolo il terreno e inghiottito ogni uomo nell’abisso. Non era però la forza imperiosa della natura quella che si stava scatenando contro i sassoni, piuttosto il furioso scalpitio di centinaia di cavalli lanciati al galoppo, che squassavano il terreno con gli zoccoli ferrati. La polvere sollevata da quella carica era tale da oscurare la visuale, e il fragore così forte da costringere Alvares de Toledo, a gridare a squarciagola gli ordini ai suoi uomini.
Spostai lo sguardo e vidi squadroni di archibugieri e moschettieri che guadavano il fiume, mentre gli Ussari, con gran parte della cavalleria, stavano attraversando il ponte pronti a dare man forte ai primi.
Ovunque volgessi lo sguardo vedevo soltanto violenza e morte. I colpi degli archibugieri raggiungevano coloro cui erano destinati, le lame dei moschettieri s’incrociavano nell’aria con quelle sassoni emettendo terribili e fragorosi suoni rotti dai gemiti e dalle urla disperate di quanti cadevano in quel campo di sangue e sudore.
Improvvisamente, i colpi dei cannoni mi fecero volgere gli occhi in un’altra parte del campo. Giovanni Federico, il comandante sassone, aveva appena disposto la fanteria al centro dello schieramento, supportata ai fianchi dalla sua potente cavalleria, e piazzato i pezzi di artiglieria dietro la fanteria.
Carlo, a sua volta, mosse la cavalleria pesante contro quella sassone impegnandola ai lati della fanteria, lasciando alla cavalleria leggera il compito di penetrare nel cuore dello schieramento nemico. Dal canto suo, la nostra artiglieria cominciò a far la voce grossa dalle colline retrostanti, con continui e ripetuti canti di morte. La terra venne investita dai colpi che piombavano come astri di fuoco dal cielo: il suolo veniva squarciato e sollevato, scavando abissi di morte dove si perdevano le vittime.
Un grido si levò sul campo, ed era quello del crudele duca Alvares de Toledo che, non volendo lasciare tutto il merito della vittoria ai cannoni, ordinò ai suoi uomini un’impetuosa carica contro ciò che rimaneva dello spiegamento nemico.
Il muro sassone cominciava a cedere. Giovanni Federico urlava ai suoi soldati affinché mantenessero le posizioni per non compromettere, irrimediabilmente, le sorti della battaglia. Tuttavia, nel tentativo di proteggersi dall’avanzata dei cavalieri e dei fanti di Carlo, i sassoni si concentrarono a cerchio, ma, nonostante l'ardore profuso, appiedati, appesantiti dal peso delle proprie armi e senza più l’appoggio della cavalleria, caddero inesorabilmente colpiti dai nostri uomini. Prese dal panico, nel disordine più assoluto, le truppe sassoni cominciarono a ripiegare verso Wittenberg.
Carlo se ne stava sulla collina, tranquillo.
Mi trovavo a circa trecento metri dal campo di battaglia, e scrutavo il tutto inorridito. Non smetterò mai di supplicare Dio affinché non mi faccia mai dimenticare quanto l’uomo possa essere crudele contro i suoi simili.
Nel tardo pomeriggio, fummo raggiunti dalla notizia che la battaglia era stata vinta, e Giovanni Federico fatto prigioniero: ad ogni angolo del campo si levò un grido di esultanza. Dio stesso aveva guidato l’imperatore e il suo esercito alla vittoria.
Si rideva e si piangeva, mentre i primi carri che trasportavano i cadaveri giungevano all’accampamento. Osservando quelle scene di morte e disperazione, mi venivano in mente le parole di quell’antico filosofo, Epicuro, per il quale la morte non era così terribile, perché quando c’era lei, non c’erano gli uomini, e quando c’erano gli uomini, mancava lei, la vecchia mietitrice. Epicuro si sbagliava: in quella pianura, vita e morte erano entrambe presenti, contendendosi il destino degli uomini. Dire della morte è attribuirsi un sapere che non abbiamo.
E intanto proseguiva il corteo funebre. In seno a quella massa di feriti, si sentivano gemiti di dolore, bestemmie, e suppliche alla Vergine perché fossero preservati dall’oscurità dell’abisso.
A quel tempo gli eserciti del continente erano stati attrezzati con un servizio medico. I grandi nobili erano assistiti dai loro medici privati, mentre le truppe utilizzavano i servizi dei barbieri-chirurghi. Personalmente, in qualità di medico, non ero al servizio di nessuno. Mi ero arruolato spinto soltanto dalla necessità di fare esperienza diretta sul campo, e dal desiderio di mettere in pratica quanto i miei maestri mi avevano insegnato circa il trattamento delle ferite di guerra.
Montai a cavallo e andai a perlustrare il campo. I feriti erano addossati agli alberi in attesa di un carro che li portasse via, i morti stavano stesi sul terreno zuppi del loro stesso sangue, ovunque alberi bucati dalle palle dei cannoni, terreni e campi fumanti, pali spezzati e,