Leonardo da Vinci. Il mistero di un genio
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Info su questo ebook
Un grande romanzo
Firenze, 1482.
Il giovane Leonardo da Vinci si è già fatto un nome, come apprendista alla celebre bottega del Verrocchio. Ma insieme alla fama il talento gli ha portato anche molti nemici, tanto che la città non è più un luogo ospitale per lui. Così, quando Lorenzo il Magnifico, suo protettore, gli offre una possibilità di riscatto, Leonardo accetta senza remore. Dovrà recarsi a Milano, dal duca Ludovico il Moro, alleato dei Medici. Ufficialmente sarà uno dei valenti artisti chiamati a dare lustro alla corte degli Sforza, e avrà l’occasione di creare capolavori che lo renderanno immortale. Ma quella che nasce come una nobile collaborazione finirà presto per trasformarsi in un insidioso legame, quando il nuovo mecenate di Leonardo si rivelerà il suo antagonista… Tra storia e leggenda, una sfida pericolosa per un genio che non ha avuto pari.
Un nuovo, straordinario romanzo dall’autrice bestseller di In nome dei Medici e I sotterranei di Notre-Dame
Il genio di Leonardo alle prese con un mistero che solo lui può svelare
Hanno scritto dei suoi libri:
«Una studiosa che ha dedicato anni di lavoro e altre opere a questo argomento… Si legge con gusto.»
Umberto Eco
«È un libro che si beve.»
Corrado Augias
«Una studiosa “prestata” alla narrativa, come Eco, Manfredi, Barbero.»
Il Giornale
Barbara Frale
È una storica del Medioevo, nota in tutto il mondo per le sue ricerche sui Templari. Autrice di varie monografie, ha partecipato a trasmissioni televisive e documentari storici. Ha curato la consulenza storica per la serie I Medici. Masters of Florence in onda sulla RAI ed è autrice, insieme a Franco Cardini, del saggio La Congiura. La Newton Compton ha pubblicato con successo I sotterranei di Notre-Dame, In nome dei Medici, Cospirazione Medici, La torre maledetta dei templari, Leonardo da Vinci. Il mistero di un genio e il saggio I grandi imperi del Medioevo.
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Anteprima del libro
Leonardo da Vinci. Il mistero di un genio - Barbara Frale
Indice
Prologo
1
HA QADMÒN. IL PRIMO ESSERE UMANO
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
2
RITRATTO DI UN APPESO
I
II
III
IV
V
3
IL DIO DELLA GIOIA
I
II
III
IV
V
4
L’ANGELO INCARNATO
I
II
III
IV
V
5
IL MOSTRO MARINO
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
Epilogo
Nota storica
narrativa_fmt.png2891
Della stessa autrice:
In nome dei Medici. Il romanzo di Lorenzo il Magnifico
I sotterranei di Notre-Dame
Cospirazione Medici
La torre maledetta dei templari
Prima edizione ebook: marzo 2021
© 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma
Copertina © Sebastiano Barcaroli
ISBN 978-88-227-5632-9
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma
Barbara Frale
Leonardo da Vinci
Il mistero di un genio
OMINO.jpgNewton Compton editori
Al mio grande amore immortale:
di ieri, di oggi, di sempre
Io continuerò.
Codice Atlantico, f. 673r
Prologo
Nel marzo 2020, mentre l’Italia era paralizzata dalla pandemia, uno studioso dell’Università di Bologna fece una singolare scoperta: in un manoscritto della Biblioteca Vaticana si trova un testo anonimo, con ogni probabilità un frammento di un trattato scritto intorno all’anno 1455 da Leon Battista Alberti, geniale architetto, matematico, inventore di audaci codici criptici. Questo trattato, custodito insieme a testi di scienziati arabi che la Chiesa del tempo guardava con molto sospetto, si intitolava De igne (Libro del fuoco) e parlava del ruolo misterioso che la luce giocò nel processo cosmico chiamato Creazione.
Il primo proprietario, che lo custodiva al riparo dall’occhiuta sorveglianza delle autorità religiose, era Pietro Leoni da Spoleto, medico di Lorenzo il Magnifico: amico di Leon Battista Alberti, di Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, il Leoni condivideva il loro fervente interesse verso le dottrine occulte, collezionava libri profetici e traduzioni di trattati ebraici e cabalistici. Gli ambienti ecclesiastici nutrivano sospetti circa la segreta passione di questi grandi intellettuali per certe dottrine religiose diffuse nel mondo antico che fondevano la religione cristiana ai dettami della filosofia neoplatonica: ad esempio quella del teologo Origene di Alessandria, vissuto nell’Egitto del secolo III, che in un suo trattato intitolato Sui principi dimostrava come le anime dei defunti possono reincarnarsi in un corpo nuovo, dopo la morte fisica. Aspramente combattuta dalla linea predominante della teologia cristiana, questa teoria venne sepolta nell’oblio con l’ordine del silenzio perpetuo.
Molti altri scritti fondamentali del mondo antico vennero fatti scomparire per prudenza, perché le teorie in essi contenute potevano confondere la debole mente del popolo che brancolava nell’ignoranza; sopravvissero tuttavia in segreto nel pensiero degli spiriti più illuminati, come semi di un sapere eletto e proibito in attesa di tempi meno oscuri in cui germogliare.
Nemmeno Leon Battista Alberti, benché funzionario di spicco nella Curia Romana, era al riparo dai roghi dell’Inquisizione. Nel suo misterioso trattato sulla natura e il potere del fuoco erano contenute affermazioni che, in aperto contrasto con la Bibbia, anticipano di cinque secoli le più moderne teorie scientifiche sulla formazione dell’universo:
La luce, nient’altro se non la luce, fu il creatore e il primo costruttore delle cose, della sfera del cosmo, che da un punto come un singolo atomo primigenio esplose per espandersi in ogni direzione
ms. Ottoboniano latino 1870, f. 158r
Di quello scritto perduto, che Leonardo da Vinci studiò mentre progettava la statua equestre di Francesco Sforza, restano oggi solo poche carte iniziali, simili a una finestra aperta su un orizzonte di questioni irrisolte.
1
Ha Qadmòn
Il Primo Essere Umano
I
Castello di Clos-Lucé, Francia
Maggio 1519
La piccola cuspide d’acciaio fendette l’aria. Fischiò, sfrecciò fulminea in cerchi concentrici come una vite che s’avvolge su sé stessa. Si conficcò nell’occhio destro dell’uomo, scoperto dall’elmo. Un urlo lancinante. Il tonfo sordo di un corpo giù nel fossato.
«Aprite, in nome di Dio!».
Dall’interno del castello nessuno rispose. Una figura abbigliata di sete scarlatte si sporse dalla vettura.
«Dobbiamo entrare», ordinò. «Se necessario, raggiungerete Amboise per procurarvi un ariete con cui sfondare il portale».
Il capo delle guardie che scortavano il porporato batté i talloni in segno di obbedienza. Gli altri armigeri caricavano le balestre, pronti a fare una carneficina.
Il frastuono di cavalli al galoppo li fermò. Un nugolo di polvere nella terra riarsa, e zoccoli che mandavano scintille frenando sui sassi della strada. Un uomo imbestialito si fece largo tra gli altri, avanzò in arcione a un destriero nervoso. Raggiunse la vettura, poi vide il cadavere galleggiare nel fossato riverso a faccia in giù.
«Chi è stato?!», tuonò. Sembrava un demonio, nella sua ira.
Dalla vettura si sporse la faccia lunga e compunta del cardinale. In quell’uomo furibondo vestito da caccia e impolverato come un bracconiere, Sua Eminenza Cristoforo Numai, legato apostolico di papa Leone X, riconobbe il re di Francia Francesco I; re Francesco riconobbe lui. Corse tra loro uno sguardo silenzioso e ostile.
«Mi spiace, sire», disse Numai. «Da molto sto intimando di aprire, ma la guarnigione che presidia questo fortilizio si rifiuta di lasciarci entrare».
Il re faticò a contenere la sua rabbia. Volente o nolente, doveva rispetto a quel tanghero seduto in vettura, un principe di Santa Romana Chiesa. Specie dopo che, nel mese di gennaio appena passato, era morto Massimiliano I d’Asburgo lasciando vacante il trono del Sacro Romano Impero. Re Francesco aveva ottime speranze di vedersi eletto, e l’appoggio del papa sarebbe stato determinante. Non era opportuno dare a Leone X un motivo per rivedere le sue preferenze; il sovrano finse dunque di ignorare da chi fosse partito l’ordine assassino.
«Il vostro soldato risponderà con la forca per la vita dell’uomo che ha ammazzato», ringhiò. «Non c’è nessuna guarnigione, a difendere Clos-Lucé. Quel poveraccio era forse l’unico a portare le armi!».
Cristoforo Numai gettò sul volto del sovrano uno sguardo scettico.
«So quel che dico, sire. La fortezza è inespugnabile».
Stizzito perché non poteva sfogarsi come voleva, re Francesco spronò il cavallo, aggirò il fossato, poi si fermò sotto una finestra a ogiva incassata nelle spesse mura al pianterreno. Portò le mani a coppa ai lati della bocca e chiamò ad alta voce.
«Beaujouard! Rispondi, Beaujouard. Sono io!».
Dietro i vetri cerchiati di piombo della finestrella apparve un faccino spaurito, che subito s’illuminò di sollievo quando riconobbe il suo re. Aprì all’istante.
«Dio vi benedica, maestà! Siamo sotto assedio…».
«Beaujouard, la porta è sprangata?»
«Certo, sire. Lo abbiamo detto più volte, ma il cardinale non sente ragioni».
«Quanto manca?»
«Due ore ancora, sire».
«Bene! Le occuperemo in modo degno», sogghignò il re. E tornò di fianco alla vettura guardando il cardinale in cagnesco.
«La porta si aprirà fra due ore. Giusto il tempo necessario per dare sepoltura cristiana a quel povero innocente che la vostra dabbenaggine ha spedito all’altro mondo!».
Ordinò quindi ai soldati di procurarsi quattro vanghe per scavare una fossa adatta a contenere il corpo. E pretese che Numai desse il buon esempio di carità cristiana e umiltà sollevando le prime palate di terra con le sue mani guantate di porpora.
Il cardinale si guardò intorno: la sua altissima dignità nei ranghi della Chiesa non avrebbe certo fatto da corazza, se si fosse rifiutato, contro i quaranta soldati dai ceffi patibolari che a un cenno del re s’erano avvicinati con espressione feroce.
Aprì lo sportello, discese lentamente; la coda del mantello di damasco ne seguiva i passi come la lunga scia iridescente di una lumaca. Si sfilò i guanti di seta in tinta con la veste, pagati quanto tre mesi di stipendio del più alto in grado tra quegli armigeri, li affidò a uno dei servi, imbracciò la pala, colpì la terra: riarsa da settimane di primavera siccitosa, la zolla ferita echeggiò sotto il colpo con un tonfo secco, dura come un sasso.
«Coraggio, eminentissimo!», lo incalzò re Francesco, beffardo.
Dopo mezz’ora di quel supplizio, Cristoforo Numai grondava sudore nell’abito troppo pesante per certe fatiche; due grosse vesciche erano spuntate sotto le falangi delle sue bianche mani ecclesiastiche. Francesco I pensò che potesse bastare. Ordinò ai suoi di finire la fossa, di arrangiare una croce con rami sbozzati, mentre il Numai dovette dare al cadavere recuperato dalle acque il viatico dei morti, e celebrare una messa di requiem.
Intanto, la faccia del maggiordomo Beaujouard tornò a sporgersi dalla finestrella.
«Sire! Mancano cinque minuti!».
Il re guardò il cardinale esausto, gli fece cenno di seguirlo. Insieme si accostarono al grande portale del castello.
«Che succede?», chiese Numai.
Francesco I non rispose. Attendeva con il fiato sospeso.
All’improvviso fu tutto uno sferragliare d’ingranaggi, gracchiare di ruote dentate, tintinnìo di catene in movimento. Dopo quella specie di canto metallico, la porta s’aprì da sola come un essere vivo, animato e magico. Cristoforo Numai si fece il segno della croce.
«Non c’è niente da temere. Entriamo», disse il re.
Varcata la soglia, il cardinale poté vedere con i suoi occhi quale fosse il poderoso contingente umano che gli aveva tenuto testa: il maggiordomo Beaujouard, un facchino dalle braghe nere di carbone, uno sguattero di cucina e una vecchia servente sciancata.
Re Francesco adocchiò una grossa credenza addossata al muro, con un’anta socchiusa.
«Salta fuori, Marie!», ordinò. «Il cardinale è venuto in pace».
Da quell’anta arrivò un tramestio sommesso, poi si spalancò di colpo rivelando la figuretta di una ragazzina rannicchiata, con le ginocchia che toccavano il mento. Del suo faccino si vedevano soltanto due occhioni nerissimi, intensi e sbigottiti, sotto il candore della cuffia.
«La figlia di Beaujouard», mormorò il re. «Le vostre prodezze belliche devono averla spaventata a morte, povera creatura. Sarà proprio lei che rende inespugnabile il castello?»
«Vi prendete gioco di me!», strillò Numai. Era inviperito.
Francesco I lo invitò a voltarsi. La parte interna del portale era un mosaico di spranghe metalliche tanto larghe da sembrare travi: un meccanismo complesso le guidava come serpenti dalla pelle lucente fuori e dentro grossi passanti disposti a scacchiera lungo tutta la superficie. Una volta richiuso, il congegno rendeva la porta simile a una lastra d’acciaio compatta e impenetrabile.
«Mio Dio… Cos’è?», sibilò il cardinale.
«Un chiavistello».
«Mai visto niente del genere!».
«Questo lo direte spesso, oggi».
«Perché tante precauzioni, sire? Quale tesoro custodite fra queste mura, per giustificare una simile cautela?».
Il re fece un sorriso sornione. «Leonardo da Vinci», rispose.
E s’inoltrò nell’ambulacro d’ingresso, seguito dal cardinale che camminava spaesato a naso in aria.
«Il congegno serve a tenere lontani gli intrusi e i seccatori», spiegò il sovrano. «Ser Leonardo lo attiva quando si dedica a qualche esperimento che non può interrompere. In tali situazioni, non resta che aspettare».
Il legato papale non credeva alle sue orecchie.
«Ma… Persino il re aspetta?!».
«Persino il re è un uomo; il tempo e la natura, invece, sono divini. Venite, adesso. Intanto che Leonardo finisce di attendere ai suoi lavori, ci faremo servire la cena. E parleremo del motivo che vi ha condotto fin qui, eminentissimo».
«Sarà un discorso ingrato, maestà. I lavori che Leonardo ha condotto a Roma hanno sollevato molte perplessità tra i prelati della Curia. Veementi sospetti. Oscure vociferazioni. E quel ch’è peggio, il malumore di Sua Santità».
II
Il cabalista scrutò l’orizzonte: c’è sempre un arcano potere racchiuso nel velo dell’ultima tenebra. Allungò il braccio per esporre una pietra di diaspro a quell’aria oscura, densa di nebbia, perché la gemma fosse pervasa dalla sua virtù.
Aveva trovato alloggio in un ostello a buon mercato tra i vicoli della Suburra, forse la zona più malfamata di Roma, covo di ladri e tagliagole, ruffiani e prostitute; lì nessuno faceva tante domande, e di sicuro i reverendi padri dell’Inquisizione non sarebbero venuti a frugare in quei paraggi, schifati all’idea d’insozzare le loro vesti talari nel fango dei rioni poveri.
Lui non era toccato da tutto quello squallore. Gli interessava soltanto captare la magica energia del cosmo: e il cielo era sempre lo stesso, lì, in mezzo alle tane dei briganti, come sopra gli ampi loggiati di marmo che fiancheggiavano la basilica di san Pietro. La sozzura del luogo e le pessime frequentazioni non erano cosa che potesse contaminare l’esercizio dell’Arte Regia; si accinse dunque al suo lavoro: ormai caricato di un potere soprannaturale, il diaspro andava inciso con precisi simboli, perché divenisse un potente sigillo astrale.
Un rumore brusco attirò la sua attenzione. Una vettura aristocratica s’inoltrava a fatica dentro quel vicolo stretto, immerso nella fitta oscurità. Aveva lo stemma accuratamente coperto perché non fosse riconosciuto; ma data la ricchezza dei finimenti, non serviva un indovino per capire che il proprietario apparteneva alla più alta cerchia della corte papale.
Una figura scendeva, nobile nell’aspetto e nel contegno, ricoperta da un lungo mantello nero. Quattro uomini armati la scortavano sino all’ingresso del tugurio, dove l’oste sdentato e volgare avrebbe indicato loro la stanza più alta dell’edificio.
Pochi minuti dopo, il cabalista sentì bussare tre colpi secchi alla porta. Aprì. Gli uomini armati si scostarono per lasciar passare la figura ammantata di nero. L’uomo si slacciò la fibbia del mantello e lo gettò con noncuranza su una sedia. La discreta luce delle candele creò un gioco di riflessi sul nobile volto di Giovanni de’ Medici, figlio del celeberrimo Lorenzo il Magnifico, divenuto capo di Santa Romana Chiesa con il nome di Leone X. Che si fosse vestito da laico per quella sortita notturna diceva chiaro che era un obbligo mantenere assoluto riserbo circa la sua visita.
«Cerco un medico di Spagna chiamato Leone Ebreo. Siete voi?».
Aveva una bella voce sonora e squillante, senza sbavature d’incertezza. Il giudeo chinò la testa.
«Il mio nome è Giuda Abravanel. Ma avete ragione, Padre Santo: qui a Roma mi chiamano come voi dite».
Il papa parve rilassarsi, e guardò la brocca del vino con chiara intenzione di essere servito.
«A cosa devo l’onore della vostra visita, Santità?».
Giovanni de’ Medici finì di bere senz’alcuna fretta. Lo schiocco sordo che fece il bicchiere di coccio sul legno del tavolo, tuttavia, tradiva un’ansia pressante.
«Avete una buona nomea, mastro Giuda. Siete ebreo, ma non praticate l’usura. Non vi si conoscono vizi, a quanto dice la gente».
«Ringrazio il Signore, che mi guida lungo la retta via».
«Inoltre, siete un sapiente. Vi ritengono esperto della Cabala».
Incerto se fosse bene dire la verità o invece tacere, l’ebreo scelse una prudente mezza misura.
«Tutti i rabbini s’intendono di Cabala. Ciò appartiene alla nostra cultura».
«Sì, ma voi più degli altri», rintuzzò il papa. «E ho saputo che la Cabala non è tanto una scienza divinatoria, quanto una disciplina teologica. Più che rivelare il futuro, insegna all’uomo come ricercare la verità sulle sue origini».
«C’è del vero in quanto vi hanno detto, Padre Santo».
«Bene, me ne compiaccio. Voglio interrogarvi in tal senso».
In quell’ultima frase, la voce del papa aveva risuonato di note minacciose. L’ebreo benedisse Dio che la sua famiglia si trovasse altrove, e non fosse dunque esposta a possibili rappresaglie. Subito dopo, tuttavia, il papa mostrò un sorriso accattivante, chiaro segno di distensione.
«Mastro Giuda, mi riferiscono che voi avete conosciuto un ingegnere fiorentino. Ser Leonardo di Piero da Vinci».
«Non lo nego, Padre Santo. Lavorava al vostro servizio, allora».
«Quali erano i vostri rapporti?»
«Ci scambiavamo opinioni. Facevamo discorsi da studiosi».
«Voi siete ebreo. E non siete ingegnere. Quale disciplina poteva accomunarvi a Leonardo?»
«L’interesse verso la natura, Santità».
Leone X annuì con molta intenzione. Aveva condotto l’altro esattamente dove voleva.
«L’interesse verso la natura», ripeté. «Questo soltanto? Avete o non avete tradotto per Leonardo molti testi di autori pagani?»
«Certo. Aristotele, per esempio. E anche varie opere di Archimede».
«Libri di miscredenti, ovviamente».
«Santità, voi non possedete forse innumerevoli libri di autori greci? E latini. E copti. La vostra biblioteca è un faro di scienza che illumina il mondo…».
«Lo so! Ma non tutto è da salvare, del pensiero antico. Volete negare che Leonardo conobbe grazie a voi le dottrine di certi filosofi come Anassagora?».
«Ho tradotto per lui dal greco un testo di quell’autore, è vero».
Leone X sogghignò, poi cavò dalla borsa un foglio che esibì all’ebreo. O meglio, quasi glielo tirò in faccia. Sul foglio, scritte nella particolarissima grafia di Leonardo, si leggevano le annotazioni che avevano indignato il pontefice.
Anassagora: ogni cosa viene da ogni cosa, e d’ogni cosa si fa ogni cosa, e ogni cosa torna in ogni cosa, perché ciò ch’è nelli elementi è fatto da essi elementi.
«Cosa intendeva con quella frase, Leonardo?», tuonò il papa. «Forse voleva negare la Creazione? Dire che la natura produce da sola gli animali e persino gli uomini?»
«Lo ignoro. Immagino che ser Leonardo in realtà avesse solo ricopiato una massima di quell’antico filosofo pagano».
Il pontefice allora sbandierò un altro foglio, sopra il quale, sempre nell’inconfondibile grafia di Leonardo, si leggeva questo:
Il sapientissimo Platone philosofo approva come in trentasei migliaia d’anni questo nostro mondo ritornerà da capo.
«Che significa? Parlate!».
«Santità, sono credenze degli antichi. I filosofi stoici insegnavano che il mondo va soggetto a cicli vitali. Ogni ciclo si risolve nel fuoco, per dare poi luogo a una rinascita».
Nello sguardo del papa rifulse una luce astuta.
«Proprio ciò che sospettavo! Il fuoco è il regno del diavolo. Ammettete dunque che Leonardo teneva presso di sé libri pericolosi?»
«Non so cosa avesse con sé. Vidi solo quei testi che mi affidò per tradurli. Come posso giudicare cosa è giusto o ingiusto secondo la vostra dottrina, Santità? Io sono giudeo».
«Quello che cerco è un libro molto speciale, mastro Giuda: non si può confondere con nessun altro. Contiene affermazioni tanto blasfeme e aberranti che il celebre Leon Battista Alberti, riportandone alcuni brani in uno dei suoi trattati, creò un codice crittografico per trascriverlo in un linguaggio indecifrabile, così da non confondere le menti degli incauti che lo avessero voluto leggere. Sfortunatamente, anche quel trattato dell’Alberti è scomparso. Ne conosciamo solo il titolo in latino: De igne. Il trattato sul fuoco».
«Leon Battista Alberti, avete detto? In tal caso, Padre Santo, voi ne dovete sapere molto più di me. Vostro padre Lorenzo il Magnifico possedeva molti libri dell’Alberti. E altri giunsero a vostro fratello Piero de’ Medici dopo che ser Pietro Leoni da Spoleto venne ass… Dopo che cadde ubriaco in un pozzo», glissò abilmente.
Leone X era in cocente imbarazzo. Le oscurissime illazioni circa la fine del medico che per anni aveva curato il Magnifico avevano percorso l’Italia e varcato le Alpi, raggiunto Roma in un soffio, fatto tremare gli archi del Colosseo e addensato sul Vaticano nere nubi di tempesta. Per settimane lui, Giovanni de’ Medici, aveva temuto di veder sfumare la propria brillante carriera curiale per la stolida imprudenza commessa da suo fratello Piero.
Guardò l’ebreo con ostilità. Prendere il discorso alla larga era stato un errore: meglio puntare dritto all’obiettivo senza altri giri di parole.
«Cosa potete dirmi di Origene? Conoscete questo autore, scommetto».
«Lo conosco, Santità. Ma non bene quanto i vostri teologi».
«Sapevate che Origene venne censurato dalle autorità religiose del suo tempo? Che uno dei suoi trattati creò addirittura una scissione nel mondo religioso? C’era anche un libro di questo antico teologo, fra quelli che avete tradotto per Leonardo? Rispondete!».
Il giudeo cominciò a sudare, ringraziando Dio che il copricapo di lana indossato per osservanza della legge nascondesse i segni del suo disagio. Trovò comunque un modo per