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Aspettando Natale
Aspettando Natale
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E-book197 pagine2 ore

Aspettando Natale

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Info su questo ebook

Aspettando Natale inizia stimolando il senso dell’olfatto, con i gusti della tipica Cucina Emiliana, svegliando la protagonista, Clio, all’interno di un paradiso di leccornie note, con l’eccitazione del Natale e dei regali desiderati, più che ottenuti.
Questo nome, Clio, è un po’ il fil rouge della storia, che accompagna la protagonista, attraverso una serie di vicende spassose e dolorose, che la renderanno donna, moglie, amante e complice.
Non è un libro sul femminismo, né sulle conquiste di una donna risoluta che ha saputo sgomitare sino ad avere successo e girare il mondo. È un libro sulla vita felice e, a volte, dura di una donna semplice ma complicata, che si riassume in una sola frase: “Mi chiamo Clio, sono femmina, punto!”
Raccomandato a chi ama le passioni forti.

Clio Petazzoni vive e lavora fra la maestosità delle Alpi Apuane e la serenità del Mare della Versilia. Nata a Ferrara, a cavallo degli anni ’60 e ’70 gode della rinascita industriale della città, prima di trasferirsi definitivamente in Versilia, di cui diventa cittadina adottiva, appassionata e fortemente attaccata. Dopo una vita di lavoro e viaggi, dove ha avuto modo di visitare le più belle e solari parti del mondo, ritornata a casa ha iniziato a raccontare e a raccontarsi, e, inspirata dal mare che vede aprendo la finestra, condivide con gli altri quello che ha nel cuore. La sua Famiglia, i Valori che l’hanno accompagnata nella vita, il profumo della Cucina Emiliana, e il piacere dell’Ospitalità radicata nella sua origine, sono parti integranti della sua narrativa. Racconta anche di sé stessa, nata femmina, delle cose che per questo le sono state negate, delle battaglie che ha vinto, delle soddisfazioni e dei successi che ha avuto. Spesso, anche dei segreti grandi e piccoli di cui, da femmina, è la depositaria.
 
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2019
ISBN9788855087711
Aspettando Natale

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    Aspettando Natale - Clio Petazzoni

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    Clio Petazzoni

    Aspettando Natale

    EDIFICARE

    UNIVERSI

    © 2019 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it

    I edizione elettronica novembre 2019

    ISBN 978-88-5508-771-1

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri

    A mio marito Bruno, grazie di amarmi

    Parte prima

    I

    «Mamma?»

    «Mamma, sono pronta, ho finito, mettiti il costume, ti aspetto in piscina, ho preso io gli asciugamani».

    Con passo lento entro nella zona della grande piscina idromassaggio, il posto più privato e intimo dello stabilimento balneare di cui sono proprietaria nella bella Riviera Apuana. Lo chiamo il mio posto sereno perché il sommesso rumore dell’acqua in movimento, la grande palma nel mezzo della piscina, il verde che mi circonda, la cornice delle Apuane mi immergono in quella bella natura dove posso stare sola con me stessa.

    Il mio pensiero vola, non ha confini, sa stare lì nascosto in quel luogo paradisiaco, ma sa anche andare lontano, sa ricordare, sa creare ed immaginare.

    La mia mente è la mia compagnia e sto bene con lei perché sogna, sogna sempre, di notte quando dorme ma anche di giorno se non la tengo a freno.

    È come un palloncino con un lungo filo che mi vuole scappare dalle mani e mi vuole portare via con sé, è così irrequieta e disubbidiente che l’ho dovuta legare al mio polso come si fa al Luna Park per non farlo volare via.

    Alla mia mente e alla mia anima non interessa cosa stia facendo, se io sia sola o in compagnia, loro vivono di vita propria.

    Spesso vogliono fuggire per rincorrere un ricordo che è apparso per un attimo nei miei pensieri e portarmi via con loro per rivivere quei momenti vissuti non da spettatrice ma di nuovo da protagonista o da interprete di un mondo dove non sono ancora stata.

    Ma non posso sempre sognare, il mio posto è qui, è oggi nel presente, nel mio mondo quotidiano, e allora, quando loro vogliono andarsene, io cerco di tirare la corda che le lega a me, di darle degli strattoni e dire: «stai giù, state giù, non è il momento, non ora, non posso distrarmi ora sto lavorando».

    Il loro richiamo però è piacevolmente gradito anche al mio cuore così lascio il mio presente per tuffarmi nel passato, nell’oblio dove un profumo di limone o una fragranza di cibo, un colore, un’immagine mi vogliono portare in posti a me cari o proiettarmi in un futuro pieno di nuove sensazioni.

    Apro il cancelletto di legno ed entro nel mio paradiso.

    «Mamma, vieni. Ci mettiamo qui, in questo angolo, su queste due brandine, con la testa all’ombra».

    Prendo il morbido asciugamano bianco e lo distendo sul lettino e con le mani lo stendo per benino, lisciandolo con amore perché dovrà accogliere la mia mamma.

    «Mamma, stai bene?»

    Mi sdraio vicino a lei, le nostre brandine sono una accanto all’altra, chiudiamo gli occhi, non parliamo.

    Sollevo il braccio destro e le accarezzo la testa, lentamente come se accarezzassi una bambina. Lei si muove appena stringendosi un po’ in una sensazione di conforto.

    Respiro profondamente, chiudo gli occhi.

    È bello prendersi cura di lei, l’ho fatto tutta la vita, ma ora sento la necessità di starle ancora più vicina, di non perdere nemmeno un minuto della sua vita perché l’amo intensamente, intimamente.

    Nonostante la giornata assolata, ho freddo, ho bisogno che il sole mi riscaldi. Inspiro forte, trattengo il fiato e piano piano lascio uscire l’aria.

    Il mio cuore incomincia a rallentare e il suo battito a beneficiare di quel calore confortevole sulla mia pelle.

    Facciamo finta di dormire, consapevoli che pensieri tristi ci tengono sveglie, cerchiamo di nasconderci al mondo per non far vedere il nostro dolore, la nostra solitudine, la nostra disperazione.

    Il mio papà ci ha lasciate, non c’è più e dopo venti giorni mio fratello l’ha seguito.

    Le nostre sofferenze sono diverse, la mamma ha perso l’uomo con cui ha condiviso sessant’anni di vita e un figlio, il suo primogenito, il suo grande amore.

    Non si dà pace, è distrutta perché nella logica della vita non è giusto che una madre sopravviva ai figli.

    Il mio è un dolore straziante, ho perso gli uomini della mia famiglia. La mamma ha già avuto i suoi lutti, ma io non sono preparata a questo dolore così profondo così vicino nel tempo. Mi sento addosso anche la sua sofferenza che non so come arginare.

    Voglio piangere, anche lei lo vuole, ma nessuna delle due lo fa per non intristire l’altra. Tutte e due facciamo le donne forti ma forti nel nostro essere non lo siamo.

    Sento un passo leggero, inclino la testa e socchiudo gli occhi per vedere chi sta arrivando. È lui, Bruno, mio marito, il mio angelo custode, l’amore della mia vita che si occupa di me da sempre, dal primo momento che ci siamo conosciuti.

    Silenziosamente è venuto a vedere come sto, come stiamo. Sposta il nostro tavolino all’ombra e appoggia due bicchieri con una bottiglia di acqua fresca dentro ad una glasset.

    Lo guardo con amore, gli sussurro grazie e lui se ne va chiudendosi dietro le antine di legno del cancello a molla che ci separa dal resto del mondo, portando con sé anche il suo dolore e il nostro insieme. A lui è stato passato il testimone di capofamiglia.

    Tocco la mano della mamma, vorrei conoscere i suoi pensieri, vorrei calmare la sua disperazione. La ritraggo e con consapevolezza sfilo dal mio polso l’asola del filo del palloncino della mia mente, per farlo volare via. Ora puoi andare, qui siamo al sicuro, ti lascio libero e ispirandomi alle parole della celebre scrittrice Susanna Tamaro le dico «va’ dove ti porta il cuore», vai.

    II

    Venerdì 16 Dicembre 1966

    Finalmente fra poco sarà Natale, la mia festa preferita, ma anche quella della mia famiglia e con famiglia intendo tutti i parenti e gli amici dei miei genitori, perché nel periodo natalizio tutti invitano tutti. Si mangia più del solito e si sta tanto a tavola fino a scoppiare a crepapelle.

    Per educazione, la mamma mi dice sempre che non si può sparecchiare o togliere i bicchieri e tantomeno la tovaglia finché i nostri ospiti non sono andati via perché c’è sempre qualcosa da offrire: i cioccolatini, i dolcetti natalizi, il tè, il caffè, il liquorino, e comunque si tira fuori tutto quello che abbiamo.

    A volte succede che qualcuno non se ne vada, e allora rimane anche a cena e la mamma tira fuori gli avanzi, come dice lei. Non so perché li chiama così perché per me gli avanzi sono quei cibi che rimangono in poca quantità, ma a casa nostra io non vedo mai cose rimanere c’è sempre una quantità e varietà di prelibatezze per sfamare un mondo intero come dice mia nonna.

    Le festività sono allegre perché si incontrano un sacco di persone anche quelle che magari durante l’anno si vedono raramente e si passa tanto tempo a raccontare, ascoltare, mangiare e bere sino a sera.

    Io sto attaccata alla gonna della mamma e sto ad ascoltare storie a me sconosciute.

    Vengo a conoscenza delle conseguenze della guerra, dove sono finite le persone sfollate, di quelle ancora in vita, di quelle che non ci sono più, di nuove nascite, di nuovi matrimoni.

    Oltre agli incontri con le persone più lontane o perse di vista, il Natale è un momento speciale, anzi un periodo speciale perché si va avanti a mangiare panettone e zuppa inglese fino all’Epifania e bisogna prepararsi bene e per tempo.

    Ognuno di noi ha un proprio compito, ma il ruolo della mamma è sicuramente il più importante, indispensabile: deve preparare il pranzo di Natale.

    A prima vista può sembrare difficile, ma non è così, non c’è niente da inventare, per noi basta far rivivere il passato.

    La mamma, ogni anno, puntualmente, segue alla lettera quelle che sono le tradizioni di famiglia e i suoi ricordi le fanno da guida.

    Il nostro è un rito fatto di movimenti e di sapori antichi che i nostri nonni hanno tramandato ai nostri genitori, così come noi cercheremo di tramandare con amore ai nostri figli.

    Nella mia città, Ferrara, tutti sanno cucinare forse perché è la città stessa che emana graditi aromi.

    Il pane fresco, dalla forma così strana e dal nome altrettanto strano, «coppia», con i suoi cornetti croccanti fuori, e il cuore soffice dentro, è il profumo di buono che mi piace di più.

    Il pane è importante non deve mancare mai sulla tavola, non si mangia niente senza pane neanche la pasta asciutta. Se non sei del luogo e devi comprarlo, è facile, stai con il naso all’insù e odora l’aria e, prima o poi, incontrerai il suo profumo. Da lì, segui la scia della sua fragranza e ti troverai davanti alla bottega del fornaio. La porta d’ingresso è chiusa d’inverno, ma l’odore del pane riesce ad uscire, piano piano, passando da ogni fessura fino a riempire la strada con la sua fragranza.

    Mio zio, il marito di mia zia Silva, è Sergio Perdonati e insieme ai suoi genitori ha da generazioni il forno più antico della città, fa il pane più buono di Ferrara e il suo negozio è un insieme di profumi di pane e dolci che ti stuzzica e ti fa venir appetito.

    La zia quando la vado a trovare mi regala sempre qualcosa di delizioso.

    La mamma mi ha insegnato che quando mi offrono qualcosa si dice: «no grazie», ma la zia mi dà sempre qualcosa, mi accarezza i capelli e mi dice «Prendilo» e io accetto con l’acquolina in bocca. Lei mi vuole bene perché da piccola mi ha tenuta con sé quando la mamma doveva lavorare e non poteva tenermi.

    Ho imparato anche che non devo chiedere, che non devo indicare niente con il dito, che non devo dire la parola «voglio».

    La mamma è la primogenita di una bella famiglia numerosa ed è come un generale, ex maschiaccio a detta di tutti ed ha un carattere di ferro. Mi racconta sempre di quanto fosse dura la vita per le famiglie sfollate durante la guerra. Anche la sua famiglia aveva lasciato Ferrara per andare fuori città a Baura e anche la loro vita non era stata facile e spesso era proprio lei che doveva portare sotto i bombardamenti la pentola della minestra nascosta sotto la gonna al nonno e agli uomini che lavoravano nell’autofficina di famiglia. La vita me la descriveva difficile ma erano felici, erano in tanti, tanti soprattutto a tavola la sera o la domenica perché grazie al lavoro autonomo del nonno William non mancava mai da mangiare e invitavano sempre conoscenti o parenti che non erano fortunati come loro. La mamma quando parla dei suoi genitori e di quanta gente frequentava la loro casa, non dimentica mai di raccontarmi di un signore che chiamavano «nonno» ma non era suo nonno perché anche la nonna Maria lo chiamava così, tutti lo chiamavano nonno.

    E chi era mamma quel signore?

    Era il «nonno» per tutti, avevamo imparato a volergli bene. Veniva solo la domenica a pranzo perché lui stava al ricovero.

    La prima volta aveva bussato alla porta per chiedere l’elemosina e un po’ di cibo, ma la nonna l’aveva invitato a tavola da noi. Da quel giorno lo aspettavamo tutte le settimane e non iniziavamo a mangiare senza di lui.

    «Mamma cosa è il ricovero?»

    «Come posso spiegarti… Il ricovero è un posto dove si va quando non hai casa o non hai famiglia, o non sai dove andare».

    «E lui, non aveva casa, non aveva nessuno che gli volesse bene?»

    «Non lo so, era un nonno molto riservato, non parlava molto, non sapevamo molto di lui.

    Nessuno si azzardava a chiedergli qualcosa per non metterlo in imbarazzo. Stava a pranzo con noi e dopo il caffè chiedeva il permesso di mettersi in poltrona e fare un riposino.

    Quando si svegliava ci ringraziava, faceva il baciamano alla nonna Maria e tornava la domenica dopo». Ha passato diversi anni con noi poi un giorno ci hanno avvertito che non sarebbe più venuto.

    Noi non sapevamo niente di lui, ma aveva raccontato di noi e delle sue domeniche in famiglia a qualcuno che abitava con lui in quella struttura per anziani che era venuto a dirci che era volato in cielo. Per un po’ la sua sedia è rimasta vuota, poi c’era tanta gente per casa che la vita ha ricominciato a scorrere e altri hanno occupato il suo posto.

    I nonni, a quei tempi, si sentivano dei signori perché al nonno William spesso regalavano polli, verdure e altri generi alimentari in cambio di qualche riparazione e quando poteva, andava a pesca o a caccia con gli amici portando a casa selvaggina e pesce che finiva in quantità sulla loro tavola.

    Quella loro fortuna la condividevano sempre con gli altri. Quella porta aperta della casa dei nonni

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