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Piena di vita. Una donna, il suo destino, la sua forza
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E-book213 pagine3 ore

Piena di vita. Una donna, il suo destino, la sua forza

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Info su questo ebook

Una ragazza, una donna può attraversare infinite sofferenze, può ritrovarsi a vivere una vita che non ha scelto, può inciampare nell’egoismo e nell’incapacità altrui, ma può trovare, dentro di sé, dentro la sua parte migliore, quella più sana, tutte le risorse, non solo per andare avanti bensì per rilanciare complessivamente la sua esistenza. 
Questa è la storia di una donna che fin da bambina ha dovuto affrontare gravi perdite, come quella di un genitore, e una salute compromessa, affetta da ben tre malattie rare. Si è dovuta scontrare con le difficoltà che anche la scienza medica incontra in questi casi, ma anche con alcuni medici cinici, che pensavano più alla loro carriera che a svolgere la loro missione. Tre malattie rare, per di più tutte insieme, debilitano l’esistenza, la deviano verso il dolore e possono sfociare nella depressione. Le cure sono pesanti e non sempre funzionano, alcune volte sono addirittura dannose. Come risollevarsi da una condizione così estrema? Lo scoprirete in queste pagine scritte da una donna che non si è voluta arrendere, che ha guardato in faccia la vita e, nonostante le avversità, ha deciso di sorriderle. È una storia di affermazione personale e professionale, di studio, di sogni e desideri realizzati tramite la fatica, la determinazione e la soddisfazione. È la storia di Agnese, ma per molti versi potrebbe essere la storia di tanti e di tante, di tutte quelle persone che non hanno alcuna intenzione di fermarsi e subire gli ostacoli e le difficoltà che la vita pone, ma che la vita la vogliono vivere fino in fondo in tutta la sua bellezza.

Agnese Rancan, ex contadina, ex operaia, ex Infermiera Professionale, si è laureata in Psicologia Clinica e di Comunità, è oggi un’affermata professionista Psicoterapeuta specializzata in Psicoterapia Cognitiva e anche nell’Età Evolutiva. È inoltre Psicologa Giuridica e Criminologica. Questo è il suo primo libro.
LinguaItaliano
Data di uscita15 gen 2024
ISBN9791220149150
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    Piena di vita. Una donna, il suo destino, la sua forza - Agnese Rancan

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    Agnese Rancan

    Piena di vita

    Una donna, il suo destino, la sua forza

    © 2023 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-4525-1

    I edizione dicembre 2023

    Finito di stampare nel mese di dicembre 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Piena di vita

    Una donna, il suo destino, la sua forza

    Amo le cose vere...

    Non amo le parrucche...

    Figuriamoci le maschere!

    L’unica maschera concessa nella vita

    è nascondere il proprio dolore

    dentro un sorriso

    per non perdere la propria dignità.

    Alda Merini

    CAPITOLO 1 – Farsi conoscere

    Quelli che ci hanno lasciato

    non sono assenti,

    sono invisibili,

    tengono i loro occhi pieni di gloria

    fissi nei nostri pieni di lacrime.

    Coloro che amiamo e che abbiamo perduto

    non sono più dove erano

    ma sono dovunque noi siamo.

    Agostino d’Ippona

    Il modo migliore che ho per raccontare la mia storia è partire da me, da quelle che sono le mie origini che sono state origini dure, come la terra d’inverno, dure come solo la vita a volte sa essere.

    Vengo da una famiglia povera della campagna vicentina. Povera non significa non benestante, ma proprio povera come lo poteva essere una famiglia di braccianti nell’Italia degli anni Sessanta.

    Non ho granché memoria della casa in cui nacqui sui Colli Berici, anche perché la lasciammo quasi subito dopo la mia venuta al mondo. Avevo appena tre mesi quando i miei genitori con i miei due fratelli e quel piccolo fagotto che ero decisero di trasferirsi in una nuova abitazione, poco distante dalla precedente sui Colli Berici, quei colli che continuavamo a vedere dalle nostre finestre.

    Ogni casa in cui si è vissuti ha un riflesso nelle persone che siamo diventate, forgia il nostro carattere, il nostro immaginario; è il luogo dove abbiamo cominciato a percepire noi stessi e a costruire la nostra relazione con il mondo che ci circonda. Le prime esperienze, i primi odori, le sensazioni che abbiamo provato hanno avuto quel teatro e non un altro e questo è qualcosa che rimane nella nostra memoria. Ci connatura e ci definisce.

    Di quella che venne sempre chiamata la casa vecia, ricordo che a terra non c’era neanche il pavimento bensì dei mattoni e mia mamma faticava moltissimo nel tentativo di tenerli puliti. Mancava il pavimento, ma anche tutto il resto: mancava il riscaldamento e usavamo la mònega per scaldare i letti, quello che in molte parti d’Italia si chiama il prete; l’acqua non c’era e dovevamo andare a prenderla al pozzo, così come non c’era il bagno e per lavarci dovevamo utilizzare il mastello, un grande catino zincato.

    Ci si lavava con l’acqua scaldata sulla stufa d’inverno o al sole l’estate. Il bagno non lo facevamo tutti i giorni, oggi basta aprire la doccia e in pochi minuti si è lindi e pinti; all’epoca lavarsi una volta la settimana era già tanto. Io ero ancora piccolina e per me era sufficiente una bacinella d’acqua calda che mamma posava sul tavolo della cucina.

    Già all’epoca cominciavo a sviluppare il mio carattere, al momento del bagnetto era mia preoccupazione che le finestre e i balconi fossero ben chiusi, non volevo in alcun modo che qualcuno dall’esterno potesse vedermi nuda. Ero una bimba pudica e lo sono ancora oggi.

    Mamma sorrideva di quella mia pretesa ma l’assecondava volentieri, poi mi immergeva e cominciava a lavarmi con estrema dolcezza. E sì che non era una donna dolce, proprio per niente. Ma quel momento di cura per la sua bimba, probabilmente lo prendeva come un momento di cura di sé, in cui staccava la testa dalle infinite incombenze giornaliere dedicandosi a quel corpicino così vulnerabile che non attendeva altro che stare tra le sue mani.

    Era una donna energica, pensava a tutto dentro e fuori casa; mio padre non le era molto di aiuto, a differenza sua era un uomo fragile e non era in grado di darle una mano o qualche conforto. Quando la sera tornava dal duro lavoro dei campi, la stanchezza le si leggeva in volto, ma non si perdeva d’animo e appena rientrata badava a noi tre figli, alla casa e al marito. A volte era così stanca che bestemmiava come un uomo; non era una persona volgare, schietta sì ma volgare mai, ma i problemi del quotidiano prendevano il sopravvento e, anche lei, in qualche modo doveva sfogarsi. Quando poi smise di lavorare si riconciliò con se stessa e non l’ho più sentita dire una parola fuori posto, neanche una volta.

    Di quella casa vecia, che lasciammo quando avevo circa cinque anni, non ho ricordi miei, o meglio ne ho pochi ed è stata proprio mia madre a raccontarmi tante cose e i suoi racconti erano sempre pieni di gioia e di sorrisi. Mi raccontò anche di quel giorno speciale nel quale venni al mondo. Era felicissima: dopo due figli maschi, Aldo e Rino, più tre figli persi in gravidanze avanzate, la sola idea di avere una bimba la riempiva di felicità. Al momento del parto, il medico che l’aiutò rimase sbalordito da quel corpicino tutto rosa con i capelli così chiari da sembrare bianchi che aveva appena visto la luce. Mi prese in braccio e mi portò in giro per tutto il reparto, esibendomi come un trofeo a tutte le future mamme in attesa.

    «Guardate come è bella, guardate come è bella questa bimba... è così bella che me la porto a casa... la tengo io... Signora» disse rivolgendosi a mia madre, «non le dispiace se la tengo io vero? Io non ho figli e lei già ne ha due, cosa ci fa con una terza, è solo un ingombro...».

    Mia madre rimase un po’ perplessa, guardò mio padre cercando la sua complicità, ma non la trovò e lui non riuscì a dire una parola. Ovviamente la mamma non voleva rinunciare a me e il dottore, dopo pochi minuti, mi adagiò tra le sue braccia.

    Questo racconto me lo fece lei stessa, era il suo modo per dirmi quanto mi avesse desiderata e quanto fosse felice che fossi lì con lei. Era fatta così, indurita dalla vita e dal lavoro non riusciva a esprimere le sue emozioni, a trasmettere ciò che sentiva. Era bravissima sul piano pratico ed educativo, ma su quello affettivo era un vero disastro. Mai una carezza, un abbraccio, un bacio, un gesto di tenerezza, un Ti voglio bene.

    Questo suo atteggiamento ha creato in me un senso di aspettativa, una necessità di attenzione da parte sua. La notte si alzava molto presto per pulire la casa e preparare da mangiare per il pranzo e la cena prima di uscire per andare a lavorare nei campi. Fin da piccola avevo il sonno molto leggero e quando sentivo che si alzava mi alzavo con lei, anche se non ce n’era alcun bisogno ma solo perché ci tenevo a poter passare un po’ di tempo insieme. Ero sempre con lei, quando non era al lavoro. Mi attaccavo alle sue gonne, imparavo tantissime cose e mi divertivo molto a stare insieme alla mia mamma. Faceva di tutto appena alzata al mattino presto, col buio ancora fuori, molto prima dell’alba, mentre il papà e i miei fratelli dormivano ancora. Faceva il bucato nel mastello all’aperto, anche d’inverno nonostante le venissero i diavoli alle mani (cioè il gelo alle dita), poi puliva la casa, cucinava sulla stufa così che fosse tutto pronto per l’ora di pranzo e di cena, e poi usciva per andare nei campi.

    Faceva sempre la pasta fatta in casa, tagliatelle e lasagne tirate fine col mattarello di legno, perché la pasta del negozio costava troppo. Una cosa che adoravo era che mentre preparava la pasta con la farina e le uova fresche delle nostre galline, me ne dava un pezzetto da impastare, così imparavo e mentre mi impegnavo lei intanto prendeva un pezzo di pasta fresca già tirata, ci aggiungeva un po’ di zucchero e la metteva sulla stufa e me la dava ancora calda e croccante. Per me quel pezzo di pasta cotto sulla stufa era buonissimo! Il più buono che abbia mai mangiato in vita mia! Lo aveva fatto la mia mamma apposta per me e io mi sentivo coccolata come non mai!

    Nei giorni di freddo intenso, o di maltempo, che non poteva andare a lavorare nei campi lei a casa non rimaneva mai con le mani in mano: sferruzzava a maglia ogni momento libero, anche la sera a letto sotto le coperte, d’altronde andavamo a letto presto, come le galline, che a quel tempo non avevamo la Tv. A maglia faceva di tutto per tutta la famiglia: vestitini di lana, berretti, guanti, sciarpe e maglioni. In particolare ci teneva a fare i calzettoni con la lana bella grossa e robusta da tenerci caldi i piedi. Per risparmiare le bastava acquistare la lana e faceva tutto lei con le sue mani, sempre instancabili, nonostante già allora fosse ipovedente. Era incredibile come sapesse lavorare a maglia senza guardare: era velocissima, tra le mani sembrava avesse una macchinetta anziché delle dita.

    Anche in seguito avrei sempre ricercato un po’ di tenerezza da parte sua. Anche quando ormai ero diventata una donna fatta e matura, mi sedevo sulle sue gambe, l’abbracciavo, prendevo le sue braccia e le cingevo intorno al mio corpo.

    «Vuoi ancora le coccole? Alla tua età?» mi diceva in dialetto.

    Ebbene sì, volevo le coccole, quelle che non sapeva fare.

    «Sì, sono sempre la tua bimba...» le rispondevo e lei capiva. Sorridendo mi cacciava via superando così il suo imbarazzo, cercando di difendersi con un po’ di ironia. Non conosceva il linguaggio del corpo: per lei era solo una macchina che serviva a lavorare, non certo a scambiare affetto. E sì che lei era molto fisica, una donna alta dal bel portamento e un seno prosperoso, giunonica e austera. L’affetto però non sapeva esprimerlo. Non era solo la vita che l’aveva indurita, la fatica, le responsabilità cui non è mai venuta meno, ma era stata proprio educata così. L’imprinting che si riceve in tenera età è poi difficile trasformarlo in qualche cosa di diverso, non che sia impossibile o che non lo si possa maneggiare, ma rimane sempre un po’ quello.

    Era nata nel 1930, la sua infanzia era stata la guerra, l’occupante nazista e un padre partigiano. Una vita difficile, fatta di lavoro, grandi paure e grandi speranze, ma anche di grande miseria. Veniva dai monti veronesi, zona di Roncà, dove si produce il vino Soave. Viveva in collina, in casa non c’era mai una lira e si doveva lavorare sodo per guadagnare il pane quotidiano, o meglio la polenta: polenta e cipolle, polenta e fagioli, polenta e ciò che dava la terra; la carne era il miraggio della domenica.

    Oggi non riusciamo neanche a immaginare cosa significhi essere poveri. Per mia mamma, per esempio, ha significato non avere le scarpe per andare a scuola ma gli zoccoli di legno, o lasciare gli studi alla terza elementare, all’età di otto anni, per andare a pascolare le mucche. Fin da piccola è diventata una perfetta contadinella e, appena più grande, è andata a lavorare in filanda. Ciò che per noi oggi – giustamente – è considerato sfruttamento del lavoro minorile, all’epoca era la normalità per tante famiglie.

    La sera non si faceva l’aperitivo, non si andava al ristorante o al cinema o in discoteca, non c’era la Tv e spesso neanche la radio. Molto più semplicemente ci si riuniva nella stalla a fare il filò, con le famiglie delle contrade vicine, per il solo motivo che era l’ambiente più caldo della casa. Gli uomini giocavano a carte e facevano le cose da uomini, le donne lavoravano a maglia e facevano le cose da donne. Erano queste le uniche distrazioni possibili. Solo al termine della guerra, quando si cominciò a respirare un po’ di libertà, i più giovani poterono andare a ballare. Mia madre adorava ballare il sabato sera quando c’era qualche festa nei paesi vicini, il valzer, la mazurka, il liscio e tutti i balli tipici dell’epoca. Sua madre era però molto severa: la lasciava andare a ballare, ma solo insieme ai fratelli e mai da sola. Amava moltissimo ballare, non importava se era costretta a farlo con i suoi fratelli, le piaceva tantissimo la musica e l’allegria, e si intratteneva a danzare fino a tarda notte. Talvolta capitava che tornasse a casa quasi all’alba, alle 3:00 o alle 4:00 di mattina, ma al suo ritorno sua madre era spietata: invece di mandarla a dormire le faceva lavare il bucato a mano con la cenere e poi la inviava alla prima messa delle 6:00, all’alba. Non come oggi che i ragazzi tornano alle tre di notte e dormono fine all’una del giorno dopo e quando si alzano trovano il pranzo pronto in tavola.

    Era una donna molto intelligente e dalla memoria di ferro, ti potevi fidare di ogni suo ricordo, ma di scuola ne aveva fatta poca. Per lei fu normale, dunque, che il primo figlio, Rino, terminate le elementari, andasse a lavorare in fabbrica; ma c’era l’obbligo scolastico fino a 14 anni e la cosa non passò inosservata, tanto che un giorno si presentarono a casa due carabinieri chiedendo spiegazioni, ma mia madre non si scompose.

    «Deve andare a scuola? Benissimo! Allora me li date voi i soldi per sfamarlo...».

    I carabinieri rimasero incerti tra il fare il loro dovere e le parole di mia madre, si guardarono, girarono i tacchi e portarono via i loro pennacchi, comprendendo che prima viene il pane poi tutto il resto, compresa la Legge.

    Questa è la povertà. Quando dico che le mie sono origini umili vuol dire che con la miseria abbiamo convissuto giorno per giorno, l’abbiamo toccata con mano. Condizioni difficili che si sono riverberate nella crescita di noi figli, tanto che Rino, a differenza mia, ha cominciato a parlare e a camminare molto tardi, verso i due anni, la mancanza delle scuole medie penalizzò la sua formazione culturale.

    Quando era molto piccolo, all’età di due anni, capitava che mia madre lo prendesse in braccio e lo portasse con sé a chiedere la carità. Quando non si ha più niente bisogna pur mangiare. Non è umiliante chiedere aiuto, a volte è davvero l’ultima spiaggia prima della disperazione. È un’immagine molto triste e pietosa ma che rende perfettamente la condizione in cui versavamo.

    La povertà è stata forse la discriminazione più grande che ho subito, quella che mi metteva ai margini della vita sociale, che mi faceva sentire sempre in difetto, come se in me ci fosse qualcosa di sbagliato e non capivo bene cosa. Ci tengo a dire però che povertà non vuol dire necessariamente sofferenza. Non solo oggi conosco molte persone ricche e benestanti che soffrono terribilmente e non riescono a stare al mondo, ma personalmente posso dire che anche nella povertà ci può essere dignità e piacere di vivere.

    I nonni materni erano buoni, ma anche loro non sapevano trasmettere il loro affetto. Erano altri tempi, mia madre si rivolgeva ai suoi genitori dandogli del Voi. Oggi siamo all’estremo opposto con i genitori che magari si fingono amici dei propri figli e non la loro guida responsabile, e così rischiamo di crescere intere generazioni di narcisisti che spesso non sanno distinguere il bene dal male, il giusto dallo sbagliato, che facilmente non sanno sopportare sacrifici e rinunce, cui spesso interessa solo la loro soddisfazione immediata.

    Il mio bisogno di affetto era anche quello di mia madre. L’ho capito crescendo, più il tempo passava più lei si ammorbidiva e cominciava a cercare i miei baci e i miei abbracci. Aveva imparato che l’affetto è qualcosa cui nella vita non si può rinunciare. Negli ultimi anni, l’ho vista diventare molto più affettuosa, meno spigolosa e meno distratta da tutte le incombenze cui doveva far fronte tutti i giorni.

    È stata fondamentale per la mia crescita e la mia educazione, ma era sempre fuori per lavoro e molte cose le ho dovute imparare da sola e in fretta. A otto mesi già parlavo e camminavo. Una sera tornando a casa mi trovò in piedi attaccata alla rete che ci separava dal vicino che muovevo i primi passi. Guardò interrogativa mio padre che era lì con me il quale non poté far altro che annuire, come a dire: Sì, la tosa cammina....

    Ero molto precoce e molto curiosa, avevo ansia di vivere e nessuna voglia di aspettare. Questa caratteristica mi è rimasta anche in seguito, molto spesso facevo esperienze ben prima delle mie coetanee. Quando ci ripenso che a otto mesi avevo già imparato a camminare e a parlare da sola, un po’ mi commuovo e mi riempio di tenerezza verso me stessa, poi mi sale la nostalgia, nostalgia per quel che ero e per quel che avrei potuto essere. Ripensarmi a quell’età, attaccata alla rete che muovevo i miei primi passi incerti, mi mette un po’ di tristezza. I bimbi e le bimbe andrebbero accompagnati nella loro crescita e non lasciati a se stessi. Che io stessi imparando le cose più importanti della vita, a parlare e a camminare, tutta da sola non era una cosa normale, non sarebbe dovuta andare così.

    Ero una bimba un po’ sola. Mia madre non c’era mai, sempre fuori per i campi, mio padre anche e quando c’era non era l’uomo sul quale potersi poggiare. E quindi quella bimba che affrontava la nebbia d’inverno, i campi arsi l’estate, il buio e il freddo della campagna, lo faceva da sola, inventandosi la vita.

    Il fatto che fossi diversa lo capivo già all’epoca, ovviamente come lo può comprendere una bimba. Mi sentivo sempre ai margini,

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