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Intonet
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E-book232 pagine3 ore

Intonet

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Info su questo ebook

2150, il Pianeta Terra è ormai arido e inquinato. Le comunità sono governate da rigidi precetti ecologisti e obbligate a vivere in città protette da grandi cupole di vetro. La Rete Intonet collega i cervelli di tutti gli uomini, regola i loro incontri e ne scandisce ogni attività quotidiana. Uto è un giovane scienziato la cui routine sarà distrutta quando, completamente distaccato da Intonet, e senza memoria del suo recente passato, cercherà di capire come e perché si sia risvegliato accanto a un cadavere. La storia si dipana tra il presente e il passato di Uto in cui, tra giallo e fantascienza, si mescolano amore, lotte, inseguimenti, investigazioni e il significato stesso di essere senzienti in un'epoca in cui ogni pensiero è condivisibile dentro Intonet.
LinguaItaliano
Data di uscita20 apr 2020
ISBN9788831668712
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    Anteprima del libro

    Intonet - Michele D'Amico

    Prologo

    La polvere sollevata dal vento si accumulava nello spazio visivo della sua maschera di protezione. Era sudata e i vestiti le si erano incollati alla pelle. Si sentì sola, un breve momento di panico mentre si guardava intorno alla ricerca di Aron. Nulla.

    «Aron?» parlò con calma al ricevitore cercando di nascondere l’ansia.

    «Aron? Non ti vedo».

    Questa volta il tono era aumentato di intensità.

    Lasciò per terra gli attrezzi da scavo e si spostò per avere una visuale migliore. Il terreno davanti a lei si ergeva in una piccola collina brulla, in cui il rosso e il grigio erano le tonalità predominanti. Continuò a risalire la china senza fatica, e finalmente il suo sguardo poté spaziare per chilometri attorno alla sua posizione. Il sole alla sua destra stava quasi per tramontare donando una luce arancione che veniva moltiplicata dal paesaggio semi-desertico.

    «Aron, dunque? Mi vuoi rispondere, maledizione? Non è divertente e lo sai!»

    La sua preoccupazione si stava trasformando in rabbia. I suoi pensieri corsero rapidi come l’aria che le sferzava gli abiti. Pensò alla sua piccola bimba che aspettava a casa, probabilmente impegnata in un gioco pericoloso, che faceva impazzire la sua balia. Cercò la zona dell’accampamento dove la piccola si trovava in quel momento e la trovò dietro di lei, verde e florida, con alle spalle il blu del mare enorme.

    Automaticamente i suoi occhi cercarono la sua prima vera casa. La cupola grigia stava sempre al suo posto, immobile ed enorme come un grasso leone marino annoiato sul bordo di una scogliera.

    «Eccomi, Nadeem».

    La voce di Aron risuonava chiara alle sue orecchie.

    «Le batterie si erano scaricate e sono rimasto tagliato fuori per qualche minuto. Ma non le dovevi cambiare tu?».

    «No. Eravamo rimasti che le avresti controllate tu prima del viaggio» rispose Nadeem, sollevata nel rivedere il suo compagno di missione risalire lentamente verso di lei.

    «Vieni, guarda cosa ho trovato».

    Lei lo seguì curiosa. Ma dentro di sé restava sempre guardinga. Non amava troppo restare lì fuori.

    «Fai rapidamente. Voglio rientrare presto».

    «Sì, non ci vorrà molto, vieni».

    Scesero dalla collina e Aron girò verso sinistra intorno a delle strane rocce lisce. Lei le toccò con i suoi guanti. Piccole venature arancioni e gialle spiccavano nell’uniforme grigio verdastro della pietra.

    «Qui una volta ci doveva essere dell’acqua».

    «E mi sa che in profondità ancora ne scorre. Guarda qui» disse lui indicando una cavità sotto una delle rocce, protetta dal vento e dal sole diretto.

    Lei si abbassò. Avvicinò lo sguardo e fece come per togliersi un guanto.

    «Che fai?» disse l’uomo preoccupato.

    «Voglio toccarla. Non saranno pochi secondi di radiazioni a uccidermi».

    La donna si tolse il guanto e sfiorò le piccole perfette foglie verdi. Erano morbide e robuste allo stesso tempo. Desiderò di non avere la maschera per sentirne l’odore.

    «Sai cosa potrebbe essere?» chiese Aron.

    «Sembra una pianta di pomodoro. Passami il tuo radiometro, dobbiamo capire se possiamo portarla all’accampamento per esaminarla. Lo hai con te, no?»

    Un brivido percorse la schiena sudata della donna. La risposta di Aron non era arrivata. Un rivolo di liquido rosso corse verso la conca dove la pianta cresceva, riempiendola rapidamente. Il suo cuore prese a battere follemente. La luce intorno a lei divenne più scura. Si girò di scatto impugnando la sua pistola ma non fu abbastanza rapida. Un braccio metallico l’afferrò alla gola e la scaraventò contro la roccia. Il rumore del suo corpo che si spezzava fu l’ultima cosa che udì. Poi il buio. E in quel buio un solo pensiero per la sua bimba.

    1. 18 giugno

    Si svegliò rabbrividendo per il freddo. Era buio. Si accorse di essere completamente bagnato. Il locale dove si trovava era permeato da una specie di leggera nebbiolina che si condensava sul suo viso. Quel liquido aveva un odore simile a quello dell’alcool che a volte utilizzava nel suo laboratorio. La temperatura doveva essere molto bassa, ma ciò lo stupì ben poco.

    Stava incominciando a riprendersi quando in quell’oscurità si accorse di non sapere dove fosse. La sua memoria vacillava. Si chiamava Uto ma non ricordava per quanto tempo fosse stato incosciente, né conosceva la propria posizione. Tentò di collegarsi a Intonet ma non ci riuscì e questo lo sconvolse talmente obbligandolo ad alzarsi in piedi disperato e a spostarsi da quel luogo in cerca di qualcosa di familiare e sicuro. Non sentiva la Rete dentro di sé, non riusciva ad accedere alle informazioni di cui necessitava e non poteva comunicare con gli altri per via mentale.

    Lo sconvolgimento fu enorme e quasi svenne dalla nausea. E nel cadere verso il pavimento toccò qualcosa di morbido. Pochi gesti e riconobbe immediatamente il corpo di una donna. Era nuda. Un corpo freddo. Aveva indubbiamente un cadavere vicino a sé. E non aveva idea di chi potesse essere. Le sensazioni diventarono ancor più dure, al forte fastidio di sentirsi isolato si aggiunse il disagio di quel corpo e quel buio divenne insopportabile. Si rialzò in cerca di risposte, di conforto e di aiuto. Inciampò su un oggetto e tastandolo riconobbe il suo borsello. Istintivamente lo prese, felice di riavere qualcosa che lo legasse al suo passato.

    A tentoni trovò una parete metallica liscia, le sue dita si mossero frenetiche in cerca di una fessura o di un pulsante. Se tutto fosse stato normale, avrebbe tranquillamente sondato nei suoi pensieri fino a trovare la sua posizione geografica e avrebbe comandato l’apertura di quella porta con un impulso mentale semplice come un battito di ciglia. Ma era isolato e dovette affidarsi solo alle sue mani. Trovò quello che cercava e riuscì ad aprire un pannello. Alcune vecchie tecnologie erano rimaste in funzione per permettere il loro utilizzo da parte dei Robot più semplici.

    Corse via da quella stanza in cui l’aria era diventata come irrespirabile e si trovò in un ambiente illuminato che sembrava un corridoio ornato da porte tutte identiche. Si accorse solo allora di essere vestito con un paio di umidi pantaloni stracciati, così aderenti da disturbare i suoi movimenti. Ma non sapeva il perché, dove fosse e cosa fare per ritrovare le coordinate della sua vita.

    Vagò lungo quel corridoio alla ricerca di una porta aperta e finalmente entrò in quella che doveva essere una stanza di servizio. Una parete mostrava delle nicchie adatte al caricamento dei Robot. Ma a molti non piaceva essere serviti dai Robot e poteva sperare di trovare altro. Dal lato opposto vi erano delle semplici tute da lavoro incassate in appositi spazi. Nessun controllo neurale per il loro utilizzo. Trovò degli indumenti adatti a lui e li indossò. Poteva uscire e cercare di capire cosa gli fosse successo. Un pensiero lo bloccò: perché stava fuggendo via invece di cercare qualcuno a cui chiedere aiuto? Il suo istinto di protezione prevalse e continuò a muoversi guardingo.

    Un lampo. Una luce accecante dentro la sua testa. I dati cominciarono a fluire nuovamente dentro di lui e in un attimo seppe di essere nella sua Cupola, in un punto della parte più antica. La Rete funzionava nuovamente e lui era ancora un tassello di Intonet. Mai aveva provato la sensazione di esserne fuori, né quindi la sensazione di rientrarci. Entrambe erano soverchianti. Per la prima volta in vita sua si trovò a riflettere su quella condizione inaspettata. Fin da quando aveva acquisito la parola, la comunicazione neurale con la Rete gli era stata insegnata. Da allora, vivere in stretto contatto col resto del mondo era naturale come respirare. Intonet era l’essenza stessa di essere uomini.

    L’enorme mole d’informazioni interruppe quel flusso di pensieri e per un attimo lo sconvolse. Sapeva che fuori c’erano i soliti 17 gradi centigradi, che era giugno e che il suo capo lo stava cercando da diversi giorni. Pensò che la morte di quella donna sarebbe stata scoperta immediatamente grazie alla sparizione del suo segnale vitale dalla Rete e che di lì a poco quel luogo sarebbe stato ispezionato dalla polizia. Non aveva tempo per riflettere, o si lasciava trovare in quel palazzo senza poter dare una sola spiegazione plausibile o scappava via.

    Di nuovo si ritrovò isolato dalla Rete e stavolta il colpo fu troppo forte per lui. Solo e lontano. Ebbe dei conati di vomito e si piegò in due riprendendo a sudare freddo. L’angoscia lo assalì. Alla paura di non saper spiegare cosa ci facesse lì, si aggiunse l’assurdo di non disporre di Intonet. Era stato drogato? Il suo cervello biomimetico stava morendo? In quelle condizioni, lo avrebbero associato immediatamente al cadavere e la mancanza di spiegazioni avrebbe fatto il resto. Il panico lo prese con forza e, pensando che non si sarebbe fatto trovare in quello stato, decise di fuggire via.

    Desiderò ardentemente di avere accesso al suo cervello in maniera completa, come sempre aveva fatto, per cercare le mappe del palazzo e identificare la via di uscita più vicina. Immaginava già il ronzio di decine di Robot poliziotti che scandagliavano quei luoghi in cerca di rumore, calore e onde celebrali nella Rete. La sua unica speranza era allora forse l’essere fuori da Intonet? Era terribile sentirsi isolato ma d’altro canto ciò lo poteva salvare. Un nuovo coraggio crebbe in lui. Aprì una porta e gli venne l’idea di dirigersi verso i locali di recupero e rigenerazione dei materiali. Ovviamente ignorava dove fossero tali stanze e si chiese come facevano i suoi simili a vivere un secolo prima senza Intonet, prima che la geniale invenzione di una rete neurale biomimetica sconvolgesse per sempre l’umanità intera. Un cervello comunque gli rimaneva e, anche se lo sentiva mutilato e dolorante, doveva usarlo per salvarsi.

    Si guardò intorno alla ricerca di un indizio. Immaginò che i locali di recupero dovessero trovarsi in basso, vicino ai canali sotterranei di comunicazione e approvvigionamento. Mentre era alla ricerca di un ascensore o di rampe, sentì dietro di sé un rumore. Si trovava in un lungo corridoio vuoto, lontano da qualunque porta laterale. Non ebbe il tempo di far nulla che apparve un piccolo robot; ma era solo un automa dedicato al trasporto di scarti e non sensibile alla presenza degli umani e delle loro menti. Che stupido, non lo avrebbe percepito lo stesso, lui era fuori dalla Rete. Non riusciva ad abituarsi all’idea. Decise così di seguirlo. Una svolta a destra e un pannello sulla sinistra che si apriva. Lui riuscì a scivolare dentro prima della chiusura e si ritrovò nuovamente in un ambiente poco illuminato. I Robot non avevano bisogno di luce e l’energia era un bene prezioso. Continuò a seguire il fruscio delle ruote del robot che scendeva una serie di rampe circolari, fino a trovare il cancello di uscita in cui i mezzi esterni venivano probabilmente a recuperare ogni piccolo scarto dell’attività di quel palazzo. Mentre era lì in attesa del momento giusto per la sua fuga, si ritrovò a pensare che non sapeva cosa accadesse in quell’edificio. Per il suo incerto futuro da potenziale accusato di omicidio, poteva essere importante avere maggiori informazioni su quel posto. Decise di guardare dentro i contenitori davanti a lui. Il cassone che lo nascondeva era pieno di fogli che sembravano fatti di vera carta. Trovò diverse pagine intestate al Governo - Dipartimento di Sicurezza. Sapeva adesso in che tipo di edificio si trovava, anche se era inusuale tutta quella carta. Da molti anni le comunicazioni e i documenti ufficiali viaggiavano tramite la Rete. Ebbe giusto il tempo di fare quella considerazione che il cancello esterno si aprì silenziosamente e un camion entrò per recuperare il cassone. Si alzò e fuggì verso quello spazio illuminato.

    Era fuori, accecato dalla grigia luce che filtrava dalla Cupola sopra la sua testa. Nonostante che l’assenza di Intonet pulsasse con violenza nel suo cervello, era felice.

    -10. 14 maggio

    Si svegliò rabbrividendo per il freddo. Odiava quella sensazione, ma da quando il governo aveva stretto ancor più sulle risorse energetiche, era diventata un’abitudine. Le sette del mattino e come ogni giorno doveva lavarsi, vestirsi, fare colazione e andare al lavoro. Controllò mentalmente le notizie dal mondo e guardò quali fossero gli impegni della giornata nell’angolino del suo cervello biomimetico dedicato allo scopo. Contemporaneamente comunicò alla sua cucina che avrebbe gradito un poco di latte caldo al cacao. Ma per i suoi gusti gli fu servito tiepido. Era probabilmente vicino al limite di consumo energetico mensile che gli era stato imposto. Con un battito di ciglia scelse un vestito viola e blu e si recò sotto la doccia. Anche quella troppo fredda e troppo rapida. Attese all’interno del vano doccia che l’umidità in eccesso venisse aspirata via e immaginò il percorso di quelle molecole d’acqua. Quella sera a cena probabilmente le avrebbe rinvenute nel suo pasto. Il vestito era pronto sul letto.

    Uscì con calma ritrovandosi nel grigiore di sempre. La Cupola di vetro che proteggeva la città dall’inquinamento esterno era particolarmente scura, segno che anche all’aperto il sole non doveva brillare molto. Il mondo esterno lui non lo aveva mai potuto vedere. In realtà non conosceva nessuno che lo avesse realmente guardato, visto che nessuno poteva sopravvivere all’esterno. Ricordava bene i video che a scuola gli proiettavano direttamente nel cervello: spazi deserti, caldo, polvere e radiazioni. Una miscela che significava morte certa, frutto di decenni d’inquinamento, rifiuti, guerre e sfruttamento ambientale che avevano caratterizzato la fine del XXI secolo. Oggi l’umanità rimaneva rintanata nelle sue comode cupole di vetro, e i governi avevano trovato miracolosamente una pace duratura. Probabilmente perché da questa collaborazione derivava la sopravvivenza del genere umano. Con tali pensieri arrivò vicino al suo dipartimento di ricerca, un alto edificio grigio anch’esso.

    Stava per entrare quando si accorse di una ragazza che si avvicinava con rapidità: a colpirlo non furono i suoi splendidi occhi verdi, né le rosse labbra carnose, ma piuttosto il suo sguardo spaventato. Lui aveva un debole per le ragazze more ma fu piuttosto il suo innato senso di protezione che lo spinse ad avvicinarsi.

    «Posso fare qualcosa per lei?»

    «No», rispose lei in modo brusco, superandolo.

    Poteva andare al lavoro e dimenticare l’accaduto, ma qualcosa in lei gridava in realtà aiuto. E qualcosa in lui diceva che poteva essere l’ennesima occasione persa nella sua vita, frutto del suo arrendevole spirito di mediocrità. La raggiunse e le mise coraggiosamente una mano sulla spalla.

    «Mi perdoni se insisto. Io lavoro qui, venga con me che le offro una sedia e un caffè. Mi sembra di capire che ne abbia bisogno».

    Lei si guardò intorno e qualcosa la spinse ad annuire.

    «La ringrazio, ma solo un minuto, però».

    Entrarono nell’ingresso del dipartimento, un grande androne in pietra decorato dalle foto sorridenti dei vecchi direttori. In quel luogo spesso gli studenti e i professori indugiavano con un caffè in mano. Fece un cenno al portiere per fargli capire che lei fosse una persona di fiducia. La guidò verso il cortile interno senza dire una parola. Lei intanto sembrò tranquillizzarsi. Si sedettero a un tavolino e lui le chiese se un caffè andasse bene. Lei distrattamente rispose di sì. Continuava a guardarsi intorno come se fosse pronta a fuggire. I soliti avventori distratti dalle immagini presenti nella loro testa producevano un silenzio intorno a loro che Uto cercò di rompere rapidamente.

    «Io mi chiamo Uto».

    «Che nome originale, il mio lo è molto meno, sono Julia» rispose lei con un sorriso.

    Finalmente sembrava rilassarsi un poco, pensò lui.

    «Immagino che lei lavori qui, in questa…».

    «…università» terminò Uto.

    «Sì, lavoro qui da dieci anni, sono un ricercatore di fisica».

    Lei non parve minimamente interessata all’argomento ma poi s’illuminò e chiese «ah, davvero? E di cosa si occupa? Sempre che io possa capirlo».

    «Sono un biofisico».

    Lei parve delusa, ma continuò «e in particolare?»

    «Mi occupo dei tessuti biomimetici. Ne dovrebbe aver sentito parlare» disse Uto con un’ironia che gli sembrò immediatamente stupida e fuori luogo.

    «Certo» sorrise lei. Ma quel sorriso apparve forzato.

    «Ha sentito parlare anche dell’Alzheimer» aggiunse Uto.

    «Purtroppo, sì. Mio nonno ne è morto».

    «Mi dispiace».

    Uto era imbarazzato e si ritrovò a fare quello che gli riusciva bene in quei casi, spiegare.

    «Come saprà, nel 2050, anni dopo l’invenzione dei tessuti biomimetici e la successiva impiantazione in tutti i nuovi nati, si scoprì che tali, diciamo, nuovi organi potevano incorrere in un processo degenerativo al pari di quelli naturali».

    «Capisco. E magari provocando anche un danno per il cervello reale».

    Stavolta lei parve molto interessata all’argomento.

    «Esatto, sì. In alcuni

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