Stato di famiglia
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Anteprima del libro
Stato di famiglia - Alessandro Zannoni
ANNA
Mercoledì, ore 10.47
Anna ha gli occhi chiusi.
Non sa dov’è, non capisce neppure se è sveglia o se sta facendo un sogno di quelli così veri da non percepire la differenza con la realtà. Scuote la testa e si accorge di come sia sgombra, cava come un tubo di plastica, da non trovarci dentro niente.
Sbatte le palpebre, veloce, poi richiude subito gli occhi. Tu-tump.
Come avesse schiacciato un interruttore e rimesso in funzione tutto in maniera violenta, il silenzio artificiale in cui si era rifugiata svanisce di colpo, il rumore della lavatrice esplode nella stanza, gira veloce nello spazio attorno. Tu-tump.
Anna si meraviglia di ritrovare il suo corpo, la carne, i muscoli, e si accorge che le fanno male le mani, le ginocchia, la schiena, gli occhi, che le dolgono le orecchie. Non c’è parte del corpo che non sia dolorante, come l’avessero bastonata con cura, ovunque. Tu-tump.
Poi ricompaiono i pensieri. Disordinati e aguzzi, stridono come fossero impazziti. Feroci, vanno di pari passo alla forma circolare del ronzio della lavatrice, si impastano insieme, diventano unico pensiero, doloroso, acuminato, che penetra la vestaglia di lana rosa, vibra cupo sulla pelle, entra dritto nella carne. Tu-tump.
È un pensiero solido come pietra, arroventato, come forgiato nel fuoco. Anna si porta le mani al ventre, lo comprime, l’istinto le dice di tenerlo lì, di non permettergli di andare altrove. Invece sale, vivo, inarrestabile, come una disperazione primitiva. Tu-tump.
In preda al terrore spalanca gli occhi. Si meraviglia di ritrovarsi seduta davanti alla lavatrice accesa. Tu-tump.
Fissa l’oblò.
Dal corpo le esce un verso di animale che fa rabbrividire.
Tu-tump.
Il suo bambino, nella lavatrice, fa un altro giro.
Mercoledì, ore 8.03
Anna mette a bollire il latte, cerca un programma di cartoni animati e piazza Mattia nel girello davanti allo schermo. Non apparecchia, non usa nessuna tovaglia rossa. Esausta, si lascia andare sulla sedia, gli occhi pesti alla finestra dalle imposte chiuse. Non si è neppure preoccupata di vedere che tempo c’è fuori. In tivù passa la pubblicità di una famiglia che fa colazione, sorridono tutti, sembrano davvero felici. Pensa che voleva una vita così. Distoglie lo sguardo, si gira, chiude il gas. Mentre spezza i biscotti nel biberon, si accorge che è solo il suo corpo a muoversi, il suo corpo svuotato, solo muscoli e carne, che lo spirito e l’anima non ci sono. Si sente invecchiata, infelice e stanca.
Versa il latte nel biberon, agita forte fino a che i biscotti si trasformano in poltiglia; lo poggia sul ripiano del girello, mette la mano sulla testa del bimbo e lo sprona a mangiare; versa il latte avanzato assieme al poco caffè rimasto e si siede, fissa la tazza e non mangia.
Il latte è troppo caldo, Mattia si brucia la lingua; getta a terra il biberon che rotola e si perde sotto il divano. Grida arrabbiato, la testa rivoltata all’indietro, rosso in volto. Anna lo guarda disgustata, come se non lo riconoscesse. Pensa che la postura del corpo ha qualcosa di volgare, di sbagliato, e anche la bocca, così spalancata, non è più innocente, ma prepotente e oscena. Il piccolo si scaglia con rabbia contro la porta d’ingresso, le braccia protese in avanti, poi si gira verso la madre, la guarda dritto negli occhi, la supplica di aiutarlo a far riapparire suo padre.
Lei pensa con rabbia che lo faccia apposta per provocarla, e se lo ripete in testa per caricarsi, per darsi una ragione di esplodere e tirare fuori tutto l’astio verso quei due.
Il bimbo urla papà, lo invoca disperato.
Quella parola rinvigorisce a ogni urlo.
Anna ripete basta, basta, si tappa le orecchie e scuote la testa, poi non resiste più. Si alza di scatto, prende la tazza e la tira contro il muro. Cocci e latte schizzano ovunque. Si aggrappa al piano del tavolo, serra forte gli occhi e urla smettila. Spalanca la bocca così tanto che le fa male. Mattia si zittisce subito, spaventato.
Tutto si blocca per alcuni secondi, sospeso nell’odore di caffè bruciato, fino a che Anna si accorge che il latte ha macchiato il copridivano color panna. Allora si muove, digrigna parole furiose mentre lo appallottola con stizza e lo porta nella piccola stanza adibita a lavanderia. Apre l’oblò, lo infila di forza nella lavatrice. Stringe le mascelle, non capisce cosa le stia accadendo. Sente la pelle formicolare, le pare di bruciare tutta. Cerca di respirare a fondo, lentamente, sente il bisogno di calmarsi, di tornare padrona della situazione, di ragionare, ma lui non le dà tregua, la segue fino lì dentro e ricomincia a piangere, a chiamare papà, a disperarsi, e questo dolore che le brucia la carne e aumenta a ogni grido, lei non riesce più a contenerlo. Diventa una furia. Non c’è luce nei suoi occhi. Grida smettila, mentre si inginocchia davanti a suo figlio. Tuo padre non torna, hai capito, grida mentre lo strattona, mentre lo scuote con violenza e lo alza in aria. Smettila smettila smettila, gli urla addosso mentre lo sbatte di schiena contro il muro. Ci sono solo io io io io iooo. Non c’è luce nella sua testa.
Poi si fa tutto buio.
Mercoledì, ore 7.15
Anna lo spia da sotto le palpebre socchiuse.
Eccolo lì che dorme come un pascià, non gli frega niente di quello che sta succedendo, mentre lei invece non ha chiuso occhio, arrabbiata, impaurita, piena di pensieri terribili che non è riuscita a sciogliere nel pianto silenzioso. Arriccia le dita dei piedi, stringe i denti e pensa forte no, non può succedere questo, non a lei. Se un anno fa le avessero detto che finiva così, si sarebbe fatta una risata. Invece è la decima notte di fila che stanno con i corpi raggomitolati, attenti a non sfiorarsi nemmeno per sbaglio, neppure a notte fonda. Il letto a una piazza e mezza sembra enorme, i centimetri di materasso che li separano, chilometri.
La radiosveglia suona.
La mano di Fabrizio scatta per poi tornare sotto le coperte. Anna pensa che forse era sveglio e chissà cosa stava pensando. Cerca di sentirne il respiro, di captarne i movimenti, ma lui è come fosse scomparso, impalpabile. Deve provare a parlargli ora, deve prenderlo in questo momento, meno pronto a difendersi, fargli ammettere gli sbagli, riportarlo sui suoi passi, convincerlo a desistere. Non si sfascia a questo modo una famiglia, non quando c’è di mezzo un amore così profondo e totale. Profondo e totale. Ora gli ricorderà queste parole, partirà da quelle, per riuscire a fargli capire che non possono separarsi.
Ma ha aspettato troppo, ha perso il momento propizio. Il silenzio è rotto dal richiamo del bimbo, dal rumore di coperte smosse dai piedini che scalciano. Fabrizio si alza veloce e si affaccia sul lettino, gli sussurra parole dolcissime mentre lo porta al petto. Il figlio inventa suoni di gioia, tende le gambette, gorgoglia felice come ogni mattina. La voce asciutta di Anna rompe l’idillio.
Portalo qui, dice.
Non sopporta di vederli assieme felici e contenti, le fa troppo male. È un sentimento che la travolge, le secca i pensieri e il cuore, le prosciuga il cervello. Fabrizio bisbiglia qualcosa all’orecchio del bimbo, si avvicina alla donna senza guardarla. Anna è un fascio di nervi. Fissa quella faccia inespressiva, le braccia forti che adagiano il bambino sul letto, la schiena rigida che si allontana. Il piccolo si lascia abbracciare stretto per un trascurabile istante, poi si divincola, stizzoso. Grida papà, tende le braccia verso di lui. Lei soffoca un’imprecazione, lo tiene girato verso sé. Con decisione lo sdraia di schiena, lo costringe in mezzo alle sue gambe, lo accarezza con scatti nervosi. Mattia ripete il gridolino, tenta ancora