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All'ombra dell'aquila
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E-book490 pagine7 ore

All'ombra dell'aquila

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Info su questo ebook

Francesco Boschetti è un nobile che lavora come medico all’Ospedale Sant’Agostino e che vive durante gli ultimi decenni della Modena ducale.
La vicenda è un intreccio tra la vita privata del protagonista, quella professionale e il tumultuoso contesto storico che dalla dominazione napoleonica arriverà ai moti liberali e alla caduta del Ducato.

CORRADO LAVINI, chirurgo, è un appassionato di Storia della Medicina e di Storia locale. Ha pubblicato diverse opere fra cui Medicina ed Arti Figurative. Due mondi affascinanti, un rapporto profondo e complesso (2009); Medicina ed Assistenza a Modena, dieci secoli di storia. Le istituzioni, i fatti, i protagonisti (2012); Quando le pietre raccontano. Itinerari storicoartistici modenesi (2015); Incontri tra cielo e terra. Interviste impossibili ai protagonisti della storia di Modena (2016); Ippocrate alla berlina. Medicina e satira attraverso i secoli (2018)
LinguaItaliano
Data di uscita4 mag 2020
ISBN9788870008456
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    Anteprima del libro

    All'ombra dell'aquila - Corrado Lavini

    capitale

    1792

    Per ordine alfabetico risultava il primo dell’elenco, così Francesco arrivò con qualche minuto di anticipo sugli altri compagni.

    Buongiorno, signor conte lo salutò con deferenza Ottavio, il bidello, che aveva già aperto il Teatro Anatomico dove si sarebbe svolto quella mattina l’esame. Francesco con un leggero cenno del capo rispose al saluto e varcò la soglia con passo deciso. Si sedette nella prima fila di banchi dell’emiciclo e aspettando gli altri cominciò a vagare con gli occhi attorno a sé. Era di una suggestione straordinaria, quel Teatro fatto costruire neanche vent’anni prima da Antonio Scarpa. Ricavata all’interno di una torretta ottagonale in muratura, l’aula aveva la cavea tutta in legno, colorata con un velo delicato di tempera verde e azzurra e composta di quattro ordini di sedili fronteggiati da banchi. Due scale laterali dotate di parapetti e una centrale consentivano di raggiungere i vari livelli dell’emiciclo. Al centro stava il tavolo anatomico dove il docente teneva lezione ed eseguiva le dissezioni.

    Sei mesi di Anatomia, fra lezioni teoriche e dissezioni – mormorò Francesco – materia pesante questa. Mah… speriamo di aver studiato a sufficienza per poter passare l’esame con Araldi. Magari con un po’ di fortuna, perché è impossibile conoscere tutto di questa disciplina.

    Diede un’occhiata ai grandi finestroni che facevano entrare una luce tagliente all’interno del Teatro e poi fissò la sua attenzione sull’ultima fila dell’emiciclo ingentilita da un’elegante balaustra. Finché non si accorse che alla spicciolata stavano entrando anche gli altri sette compagni di Corso iscritti all’esame. Riconobbe subito l’amico di sempre, Giovanni Campori, un giovanotto ben piantato, rampollo di una famiglia nobiliare di origini toscane, signori di Soliera e grandi collezionisti d’arte. Giovanni si sedette subito di fianco a lui e gli chiese con un sorriso:

    Allora? Sei pronto? Io mica tanto sai, ho studiato fino a notte fonda e mi sento la testa completamente rintronata….

    Dai, andrà tutto bene – gli fece Francesco per rincuorare l’amico ma anche sé stesso – e poi il professor Araldi non mi dà l’idea di essere particolarmente severo.

    In quel preciso momento entrò nell’aula l’esaminatore, ma non quello che tutti si aspettavano. Ma come?! – sussurrò Giovanni all’orecchio di Francesco – non c’è Araldi? E gli esami chi li fa allora, Fontanelli?.

    Ho proprio paura che sia così, vedrai come ci tartasserà oggi il dottor Perciocché. Preparati… – sibilò Francesco.

    Leandro Fontanelli era l’assistente di Michele Araldi, titolare dell’insegnamento di Anatomia, che era succeduto ad Antonio Scarpa quando questi era stato chiamato all’Università di Pavia. Araldi era un docente apprezzatissimo dagli studenti: competente, rigoroso ma non pedante e sempre disponibile. Le sue lezioni non avvenivano mai "ex cathedra", ma risultavano coinvolgenti e riusciva così a rendere una disciplina ostica come l’Anatomia meno pesante di quanto non lo fosse. Per vivacizzare la lezione ricorreva spesso a digressioni che riguardavano la storia della Medicina e i grandi medici del passato, ma sempre inerenti all’argomento che in quel momento stava trattando. Il dottor Fontanelli era invece di tutt’altra pasta. Già il ritratto esteriore era ben poco incoraggiante. Pur avendo da poco superato i quarant’anni, ne dimostrava almeno venti di più. Impettito, con una pesante parrucca bianca che doveva aver vissuto giorni migliori, risultava poco curato nel vestire, dedicando quasi sempre le sue preferenze a una lunga giacca nera con panciotto grigio che gli conferiva una fisionomia ancora più tetra. Leggermente incurvato nella schiena, dotato di inseparabili occhiali pince-nez, parlava con una sgradevole voce nasale. Aveva insomma l’aspetto di un topo da biblioteca, segnato da anni di studi chino sui libri. Le sue lezioni poi erano di una noia mortale, l’eloquio monotono e uniforme, decisamente soporifero, interrotto qua e là da quella che era la sua congiunzione preferita, che a volte per la verità enunciava a sproposito: perciocché. Era questo il motivo per cui gli studenti malignamente gli avevano affibbiato questo nomignolo. Il caso aveva voluto che proprio quel giorno il titolare fosse andato all’Università di Bologna per conferire con un collega, e avesse dato delega al proprio assistente di presiedere quella sessione di esami.

    Buongiorno. Ci siete tutti? – esordì senza troppo preamboli il docente.

    Sì, c’erano tutti, vicini l’uno all’altro nelle prime due file di banchi, per vedere e ascoltare meglio, ma anche forse, stando a stretto contatto reciproco, per sentirsi inconsciamente più protetti. Sei ragazzi sui diciotto anni provenienti dalla ricca borghesia modenese e due dell’aristocrazia che avevano deciso di arrivare al titolo dottorale in medicina, e quel giorno c’era uno degli ostacoli più impegnativi da superare.

    Vieni pure Ottavio col materiale didattico, che fra un po’ cominciamo – comandò secco Fontanelli, e il bidello entrò dopo poco in aula con passo malfermo quasi abbracciando un fardello di ossa di vario tipo che cominciò ad appoggiare con cura uno per uno sul tavolo.

    La scena, di per sé divertente, diventò esilarante scatenando le risate degli studenti quando a Ottavio, intento a scaricare tutta quella mercanzia, sfuggì di mano una sfortunata tibia che cadde per terra rimbalzando e frammentandosi in due pezzi. Il povero bidello li raccolse con uno scatto felino, li ripose sul tavolo e con la coda tra le gambe guadagnò rapidamente l’uscita pronunciando un flebile e costernato "Col vostro permesso…" all’indirizzo del docente.

    Bene – riprese l’esaminatore con malcelata irritazione rivolgendosi ai presenti – vedo che oggi siete di buon umore, buon segno… ma ricordatevi che non c’è proprio niente da ridere. Qui si parla di cose serie, che sono alla base del sapere medico. E se vorrete essere dei bravi dottori, tutto questo vi dovrà entrare in testa. Sappiate che quella di oggi sarà una prova dura, quella più ardua di tutto il corso di Laurea. Chi dimostrerà di aver studiato passerà l’esame, per gli altri non ci sarà alcuna indulgenza. Antonio Scarpa, che questo Ateneo si onora di avere avuto come docente, era talmente severo ed esigente che terrorizzava non solo gli studenti, ma anche gli stessi assistenti: era l’unico modo però per formare una classe medica degna di questo nome.

    Finito quell’incipit che prometteva tempesta, stando in piedi, anzi rigido e tronfio quasi da sembrare sull’attenti e dopo aver scrutato da inquisitore gli otto studenti che aveva davanti, prese dalla tasca un foglio e dall’elenco pronunciò il nome del primo candidato: Conte Boschetti Francesco.

    Eccomi, buongiorno – rispose pronto Francesco, che notò subito il tono di sufficienza, quasi di fastidio con cui il docente aveva pronunciato il termine conte.

    Vi sentite preparato per l’esame? Avete studiato?.

    Sì, dottore, ho fatto il possibile, anche se è una materia molto difficile.

    Certo che è difficile e non può essere altrimenti perciocché è il fondamento della medicina.

    Al primo perciocché della mattina si alzò dall’emiciclo un brusio soffocato a fatica.

    Silenzio, per cortesia, che dobbiamo iniziare l’esame del vostro compagno.

    Fontanelli prese dal tavolo un cranio a cui avevano sezionato la calotta per poter rendere evidente la base e lo mise in mano a Francesco.

    Ecco, guardate – continuò l’esaminatore – cominciamo con una domanda di osteologia. Mi sapete dire la corretta denominazione dei vari fori, forami e canali che lei può trovare esaminando questo cranio?.

    Francesco rimase in silenzio per un po’ rigirando preoccupato quel teschio bianchissimo tra le mani.

    Andiamo bene!… – disse tra sé e sé – a Fontanelli non devo essere molto simpatico, guarda cosa mi va a chiedere, una domanda pessima, peggio di così non si poteva cominciare.

    Allora? – gli chiese il docente che, sempre più gelido nell’espressione cominciava a spazientirsi – forza, cominci dai forami più importanti.

    Francesco era stato messo in difficoltà da quella domanda ma controllandosi e senza farsi prendere dal panico provò mentalmente a costruire la sequenza espositiva della sua risposta. Non era possibile che non ricordasse più niente, e men che meno era possibile che venisse cacciato alla prima domanda, e soprattutto non poteva dare questa soddisfazione all’assistente di Araldi che continuava a fissarlo con un impercettibile sorrisetto beffardo disegnato in un angolo della bocca. Così prima tentennando e con voce incerta, poi gradualmente meravigliandosi di aver acquisito quella sicurezza che gli pareva aver perso dopo quella domanda sconvolgente, iniziò la propria esposizione. Parlò del grande forame occipitale, indicandone esattamente la sede nel cranio che teneva in mano, e spiegando di questo le caratteristiche anatomiche e funzionali. Continuò col forame ottico, col meato acustico esterno e interno, col canale carotideo e giugulare, con quello dell’ipoglosso, coi fori zigomatico, sopraorbitario, mentale, sfenopalatino, specificando di tutti sede, morfologia, funzione… Una risposta ben articolata e del tutto esauriente che al termine si meritò un’amichevole gomitata di incoraggiamento da parte di Giovanni. Il dottor Fontanelli ci rimase male. Era stato fastidioso ascoltare questo giovane aristocratico che davanti a un maestro come lui si riteneva aveva avuto l’ardire di rispondere con tale sicurezza a una domanda così complessa. Aveva sperato in cuor suo, alimentato da quel sottile sadismo che lo animava, di mettere in crisi quell’esaminando, per ribadire una volta di più la netta diversità dei ruoli, lui il docente, il profondo cultore della materia, l’altro lo studentello sprovveduto e ignorante che di cammino da fare ne aveva ancora tanto. E in quel caso specifico c’era anche un’altra motivazione, molto più sottile: l’idiosincrasia che lui, figlio di umile gente che si era fatto in quattro per raggiungere una posizione, nutriva nei confronti dei nobili, categoria privilegiata di intoccabili a cui tutti aprivano le porte. Non si diede per vinto, e allora pensò di formulare un’altra domanda, particolare, perfida, che era quella che si teneva in serbo quando voleva bocciare qualcuno.

    Allora… conte Boschetti, mi potete parlare dell’anatomia dell’orecchio interno?.

    A quella domanda Francesco gongolò: l’aveva studiata l’anatomia dell’orecchio, come aveva preparato bene tutti gli altri studi anatomici di Scarpa, dato che il ricordo del maestro trevigiano era ancora ben vivo nell’ateneo modenese. Ed era certo che qualcosa al riguardo gli avrebbero chiesto.

    "L’orecchio interno – iniziò con grande calma e sicurezza – situato nello spessore dell’osso temporale è composto dalla coclea e dal labirinto, provvisti di una struttura ossea e membranosa. La coclea viene così chiamata per la forma che assomiglia al guscio di una chiocciola…".

    Francesco parlò dei canali semicircolari, dei canalicoli e sacchi membranosi, della finestra ovale e rotonda, del timpano secondario spiegando le correlazioni anatomiche e funzionali esistenti tra timpano primario e orecchio interno. Il dottor Fontanelli ascoltò meravigliato quella efficace esposizione: il ragazzo aveva studiato, non c’erano dubbi, nobile o non nobile si meritava di passare l’esame. Fece tuttavia un ultimo tentativo con una domanda trabocchetto per farlo cadere.

    Voi avete parlato della presenza di un liquido nell’orecchio interno che trasmette i raggi sonori convertendoli nella percezione sensoriale uditiva. Siete sicuro che sia liquido e non aria? Perciocché anche l’aria potrebbe avere un’ottima capacità di veicolare le onde uditive, non credete?.

    "No, è ormai accertato che sia liquido. La concezione che fosse l’aria a trasmettere nell’orecchio interno i raggi sonori risale al passato e non è più seguita. Già Domenico Cotugno a metà di questo secolo parlò di liquido che scorreva nei canalicoli e nei sacchi membranosi e che venne denominato liquor Cotunni. Tuttavia gli studi che confermarono in modo definitivo questa teoria furono quelli di Antonio Scarpa, che riuscì finalmente a dare un impianto razionale e sperimentato al meccanismo della trasmissione dell’impulso sonoro nell’orecchio interno".

    Il docente rimase come interdetto alla fine di questa brillante esposizione, continuando a fissare negli occhi per qualche momento l’esaminando in un’atmosfera di silenzio surreale. Ma l’ottima prova di Francesco e il solo nome del grande Scarpa l’avevano fatto desistere da ogni velleità di rivalsa nei suoi confronti. Si avvicinò al tavolo, aprì il registro e dopo aver scritto due righe di verbale rivolgendosi al giovane annunciò a denti stretti con voce sommessa:

    Molto bene, conte Boschetti, avete passato l’esame.

    Francesco, raggiante, ricevette pacche sulle spalle dai compagni che aveva di lato e dagli altri della fila superiore.

    Ora tocca a te – bisbigliò a Giovanni – tranquillo che andrà tutto bene.

    Marchese Giovanni Campori – lesse dalla lista Fontanelli – siete pronto per l’esame?".

    Sì, dottore, almeno lo spero – rispose il ragazzo con la voce leggermente tremula.

    L’esame di Giovanni andò liscio, nonostante fosse meno preparato di Francesco perché il docente, scornato e demoralizzato dalla precedente interrogazione aveva messo da parte astio, risentimenti e rancori sociali e si era rassegnato a porre domande più abbordabili. Terminato l’esame i due ragazzi uscirono dall’aula salutando il docente e gli altri compagni in attesa di interrogazione. In un attimo si trovarono fuori all’aperto, nel corso che fiancheggiava la Piazza d’Armi, da pochi anni risistemata dal Duca Ercole III in un luogo verde di ritrovo e di svago. Procedettero in direzione di Porta Sant’Agostino, una delle quattro porte della cinta muraria cittadina, che chiudeva a occidente Piazzale Sant’Agostino.

    Certo che al nostro dottor Perciocché oggi non gli è andata molto bene, non trovi? – esordì Francesco con un sorriso rivolgendosi all’amico che gli camminava a fianco.

    Non gli è andata molto bene? Gli è andata malissimo! Dovevi vedere la sua faccia mentre gli parlavi del timpano primario e degli studi di Scarpa. Forse non ci avrai fatto caso perché preso dalla tua esposizione, ma ti giuro, aveva il colore terreo dell’argilla, i muscoli tesi e rigidi, l’occhio fisso. Penso che il tuo esame se lo ricorderà per tutta la vita – e giù una risata.

    Arrivarono in Piazzale Sant’Agostino, percorso dalla strada Maestra, l’arteria più importante della Capitale, di costruzione romana e che tagliava in due la città. Dopo pochi passi si trovarono davanti alla facciata del Grande Spedale degli Infermi. Era uno dei fiori all’occhiello di Modena, come peraltro tutto il piazzale, armonioso e lineare, concepito secondo i canoni della concezione urbanistica di quel tempo. Di fronte allo Spedale, come un gemello, un’altra costruzione imponente, l’Albergo Arti, già Grande Albergo dei Poveri, dedicato all’assistenza dei bisognosi. Poco distante dall’ingresso di questo, una grande statua equestre in marmo di Carrara di Francesco III, il Duca che nell’intento di voler dare un moderno assetto urbano alla città, aveva fatto costruire quell’elegante piazzale e quei magnifici edifici che gli facevano corona.

    Ecco – disse Francesco a Giovanni mentre rimiravano la struttura austera ed elegante del complesso ospedaliero – una volta ottenuto il titolo dottorale mi piacerebbe lavorare qui. Pensa, è uno degli ospedali più moderni d’Europa, sai quanti tecnici e professori vengono anche dall’estero per copiarcelo? Eh sì, è stato grande il Duca, l’ha costruito in soli cinque anni seguendo concezioni innovative e criteri di avanguardia. È stato un sovrano come pochi, ha cambiato letteralmente la città facendola diventare una vera Capitale: ha promosso la riforma dell’Università e quella dell’Assistenza, ha fatto costruire la via Vandelli e la via Giardini che collegano Modena alla Toscana, ha fatto redigere un importante Codice di leggi….

    E hai dimenticato di dire che il tuo Francesco III ha venduto una buona parte dei quadri della sua galleria, e che quadri! – aggiunse Giovanni con un sorriso malizioso, e continuando: Mio padre dice sempre che il più brutto dei dipinti venduti valeva di più del più bello della nostra collezione, che, tu la ricordi bene per tutte le volte che sei venuto a casa mia, è ricca di autori famosi. Ma come si fa a privarsi di opere di Correggio, Tiziano, Tintoretto, Veronese, Carracci, Reni, Guercino?.

    Caspita, Giovanni, sei ferratissimo in arte.

    Beh, sai, l’ho masticata fin da bambino. Il mio bisnonno, mio nonno, mio padre sono stati appassionati collezionisti. Oltre naturalmente all’amore per il bello, questa passione nasceva per l’esigenza dare prestigio alla casata, per poter accogliere degnamente gli ospiti. Pensa che nel nostro palazzo in Rua Ganaceto sono stati ospitati regnanti, nobili di sangue, importanti uomini politici, eminenti prelati.

    I due amici rimasero ancora un po’ ad ammirare in silenzio il portale d’ingresso del Grande Spedale, dove campeggiava l’elegante cancellata in ferro dell’atrio, capolavoro di Giambattista Malagoli, con la cimasa arricchita dalla mano patente in ottone, simbolo dell’assistenza ospedaliera.

    E a te piacerebbe – riprese Francesco – lavorare nel Grande Spedale degli Infermi quando arriverai al dottorato?.

    Non credo proprio – gli rispose l’amico – la vita di corsia non fa per me. Orari rigidi e turni faticosi, e soprattutto non mi andrebbe di lavorare sotto padrone. Pensa solo se capitasse un medico tuo superiore che magari ne sa di meno o che comunque sia un tipo alla dottor Perciocché. Una tragedia… no, Francesco, preferisco esercitare da privato professionista, magari anche sbagliando, ma sempre e solo decidendo di testa mia.

    Hai ragione da un certo punto di vista, ma la patologia importante, quella che ti impegna non solo nel fisico ma anche nella mente la trovi qui, è lavorando negli ospedali che si impara con maggior rapidità la professione, perché vedi di tutto e sei costretto a fare di tutto, confrontandoti anche con situazioni complesse e drammatiche.

    Sarà come dici tu, Francesco, ma non mi convinci. Guarda, facciamo così: quando mi troverò in difficoltà con un paziente lo manderò da te, al Grande Spedale del Duca. Contento?.

    I due ragazzi si fecero una risata e ripresero la loro strada in direzione del centro. All’altezza dell’incrocio di rua Ganaceto con la strada Maestra Giovanni salutò Francesco:

    Torno a casa, ora. I miei saranno impazienti di sapere com’è andata. Ci vediamo, eh?.

    Francesco fece un cenno di saluto all’amico e continuò a camminare lungo la via principale. Quella mattina la città era particolarmente affollata, forse anche per quel primo timido sole primaverile che si era liberato delle nuvole e aveva invitato la gente a uscire. Lungo la Strada Maestra passavano carrozze e calessi di nobili e di ricchi commercianti, persone indaffarate nelle usuali commissioni giornaliere, truppe di militari in fila che marciavano al rullo del tamburo in direzione della Cittadella. Ma si incontravano anche musicanti, saltimbanchi e ambulanti agli angoli delle strade che cercavano di guadagnarsi da vivere e soprattutto mendicanti che chiedevano la carità. Giovanni imboccò la Rua Grande, l’accesso signorile al Palazzo Ducale di cui compariva sullo sfondo la poderosa mole. Attraversò piazzale Ducale e affiancando l’ala di ponente del Palazzo passò oltre la Fonte dell’Abisso e la Chiesa e il Convento dei padri Domenicani e percorrendo corso di Terra Nuova arrivò finalmente in corso del Naviglio. Dove abitava.

    ***

    Il pomeriggio inoltrato di quel maggio regalava una brezza vivace e continua che incoraggiava a lasciarsi andare a un dolce far niente, così Francesco, seduto sulla poltrona dello studiolo aveva chiuso con un gesto di insofferenza il volume di Fisiologia. Quel giorno non c’era proprio verso che gli entrasse in testa la struttura reticolare delle fibre miocardiche che si collegavano tra di loro, scoperta al microscopio da van Leeuwenhoek, da cui dipendeva il sincronismo della contrazione delle varie parti del cuore. Era andato alla finestra, i gomiti appoggiati al davanzale di marmo e da qualche minuto indugiava con lo sguardo su quel viale che partendo dal Palazzo Ducale arrivava fino a Porta Castello. Corso del Naviglio era una delle strade più belle di Modena. Si trovava all’interno dell’ampliamento urbano voluto da Ercole II d’Este nel 1546 e compreso nella nuova cinta muraria. Nella Terra Nuova, era questo il nome del quartiere, erano state ricavate strade rettilinee, larghe, alberate che si contrapponevano a quelle strette e buie del nucleo più antico del centro storico. Lì avevano trovato sede negli anni successivi i Giardini Ducali, i palazzi di alcuni nobili della corte, la Darsena. Pigramente il giovane percorse con gli occhi tutta quella strada ampia che dall’altezza di calle Bondesano veniva tagliata in due dal Naviglio che lì riemergeva dopo aver raccolto le acque dei canali nella grande vasca sotterranea posta al davanti del Palazzo Ducale. Riconobbe l’elegante Darsena interna, con parapetti in marmo e chiusa da due grandi cancelli in ferro battuto, fatta costruire da Francesco II. Quello era il porto della città, opera di Gaspare Vigarani, dove all’attracco sonnecchiavano alcuni burchielli. Scorrendo i due lungonavigli, affollati come sempre di persone e carrozze, lo sguardo di Francesco raggiunse la maestosa facciata settentrionale del Palazzo Ducale e la chiesa e il monastero delle Salesiane, fondati da Laura Martinozzi, vedova di Alfonso IV. Da lì spaziò sui superbi palazzi dell’aristocrazia estense, proprietà dei Molza, degli Aragona, dei Galliani-Coccapani per fermarsi all’ingresso occidentale del Giardino Ducale, proprio di fronte a casa sua.

    Francesco abitava coi genitori in un palazzo signorile a tre piani, dotato di un ampio cortile interno pavimentato con ciottoli di fiume a cui si accedeva da un atrio coperto da una volte a botte chiuso a sua volta da un grande cancello. Di fronte all’atrio c’era un fondale affrescato a trompe l’oeil che riproducendo il cancello dell’entrata e un giardino alberato dava l’illusione di un cortile molto più esteso di quanto già non fosse. Al centro si trovava una curatissima aiuola di bosso e rose rosse mentre in un angolo cresceva stentato un vecchio glicine dal tronco contorto contrapposto, poco lontano, a una rigogliosa edera che si arrampicava fitta lungo la parete del muro. Il cortile comunicava con la rimessa delle carrozze, la stalla dei cavalli, la legnaia e la cantina raggiungibile attraverso una lunga e ripida scala che sembrava perdersi nelle viscere della terra. Il piano nobile era abitato dalla famiglia Boschetti, cugini dei più celebri Boschetti feudatari di San Cesario che vivevano nel magnifico palazzo in corso Canal Grande. Il padre di Francesco, il conte Jacopo, non potendo vivere di rendita come altri nobili della città perché non possedeva feudi ma neanche tenute, bestiame o altre fonti di ricchezza, si era dedicato al commercio del pesce. Era proprietario di una ventina di imbarcazioni fluviali e grazie ai suoi barcaioli che lo trasportavano da Venezia e dalle Romagne, si approvvigionava di pesce in salamoia, soprattutto anguille e muggini. Grazie a questa attività era riuscito a farsi una piccola fortuna e a garantire un elevato livello di vita a tutta la famiglia. Poco gli importava che gli altri nobili di corte lo squadrassero dall’alto al basso giudicandolo un volgare mercante indegno di far parte della loro categoria e che non avrebbe meritato un cognome così illustre. Sua moglie, Donna Virginia, proveniva da una agiata famiglia borghese, aveva conosciuto Jacopo durante una festa in maschera a Palazzo Rangoni e quando lei si era scostata la bautta nera che ne celava il viso lui rimase come impietrito dalla sua bellezza. Così cominciarono a frequentarsi, dopo poco tempo si sposarono e il loro matrimonio venne ben presto rallegrato dalla nascita di Francesco.

    Figlio mio, cosa fai alla finestra? Hai già finito di studiare a quest’ora? Voglia poca oggi, eh?. Era suo padre che stava rincasando dopo la giornata di lavoro. Per quel ragazzo aveva una venerazione, era orgoglioso che si fosse iscritto a Medicina e quell’esame di Anatomia passato in modo così brillante il mese prima lo aveva riempito di gioia.

    Buongiorno signor padre – rispose Francesco staccandosi dalla finestra e voltandosi verso di lui – mi stavo riposando un po’. Voi non potete immaginare quanto sia pesante la Fisiologia. Fra teorie nuove, teorie vecchie e nomi, nomi, nomi e ancora nomi. Quasi come l’Anatomia.

    Il conte Jacopo sorrise e per un attimo lo fissò intensamente. Stava diventando un uomo, Francesco. Di media altezza, corporatura già da adulto, ovale del viso regolare, lineamenti fini, occhi scuri e vivaci. I capelli nero corvino erano acconciati alla romana, uniformemente corti e lasciati un po’ più lunghi sulla fronte.

    Ha preso tutto da sua madre, è proprio un bel giovane, anzi ormai è un uomo – meditò – beh,… meno male che a me non somiglia per niente.

    Non era vero, e il conte in cuor suo lo sapeva. Certo, sua moglie era sempre stata una splendida donna ma anche lui era dotato di un suo fascino: fisico asciutto, spalle larghe, occhi grandi e dallo sguardo intenso, non dimostrava affatto i suoi quarantotto anni e aveva l’aspetto dell’uomo che sa quello che fa e che infonde sicurezza, e Francesco nella struttura fisica, in alcune espressioni e nella gestualità gli assomigliava molto.

    Va bene, dai, per oggi basta, non si può stare sempre chini sui libri – riprese a dire Jacopo.

    "Eh, lo penso anch’io, altrimenti si rischia di far la fine del dottor Perciocché.

    E chi sarebbe questo dottor Perciocché?.

    Niente, signor padre, cose dell’Università, un giorno ve ne parlerò.

    In quel momento entrò nella stanza Attilio, il domestico di casa, fedelissimo di famiglia, che per i Boschetti sarebbe andato anche all’inferno. Attilio era un uomo sulla sessantina che abitava assieme alla moglie Nina nell’appartamento all’ultimo piano del palazzo. Quando Jacopo Boschetti dopo la nascita di Francesco decise di acquistare quello stabile, i due si misero al suo servizio, lei come cuoca, lui come domestico. Longilineo, di aspetto giovanile, sapeva fare di tutto, trasformandosi all’occorrenza e con grande naturalezza in maggiordomo, cameriere, stalliere, cocchiere, giardiniere, e quando necessario anche uomo di fatica.

    Buongiorno, signor conte, buongiorno signorino Francesco – li salutò Attilio con un tono di voce stranamente abbattuto – chiedevo, signore, se fosse necessario preparare il calesse per la sua passeggiata pomeridiana".

    No, grazie Attilio, oggi mi godo mio figlio, abbiamo così poche occasioni per parlare assieme….

    Jacopo aveva subito compreso che Attilio nascondeva qualcosa che lo turbava, dopo tanti anni il domestico era per lui come un libro aperto e sapeva riconoscere anche i moti più nascosti del suo animo. Così si avvicinò a lui e appoggiandogli amichevolmente la mano sulla spalla gli chiese:

    Cosa c’è che non va, Attilio?.

    Niente, signor conte, niente di importante almeno.

    No no, dimmi pure, lo sai che non ci devono essere segreti tra noi. Tu e Nina fate parte della nostra famiglia, no?.

    Beh… signor conte… non so se posso permettermi di dirlo, magari sono solo paure ingiustificate.

    E sentiamole allora queste paure ingiustificate.

    Ecco… ehm… questa mattina ero andato al mercato in Piazza Grande per fare un po’ di spesa. Mia moglie mi aveva detto che per cena avrebbe voluto preparare la faraona arrosto con le patate, che, voi lo sapete bene, è uno dei piatti che sa fare meglio. Così mentre mi trovavo fra le bancarelle ho incontrato alcuni amici e ci siamo messi a fare quattro chiacchiere, parlando del più e del meno. Ad un certo punto è uscito l’argomento di quello che è successo e sta ancora succedendo in Francia, questa spaventosa rivoluzione che sembra non avere più fine. Perché mi dicevano che non si sono fermati ad abbattere la monarchia imprigionando il re e la regina, ma stanno giustiziando molte persone, soprattutto nobili. C’è un clima generale di terrore, in cui basta un sospetto, un’accusa, una delazione anche non provata per essere incriminati e portati al patibolo. E il responsabile di questa carneficina pare sia un uomo terribile, un invasato senza un briciolo di umanità, assetato di sangue. Mi hanno anche riferito che ci sono diversi partiti che si combattono fra di loro, quelli che difendono la rivoluzione e quelli che sono contro, è una baraonda di cui non si vede la soluzione. Ma non era iniziato tutto dal popolo che si era ribellato perché aveva fame? E non c’era altro modo per accontentarlo? Capite, signor conte? Io sono molto preoccupato. E se questi fanatici ce li trovassimo in casa un giorno o l’altro?.

    Il conte Jacopo sorrise benevolmente al termine di quella confessione così accorata.

    Vedi, Attilio – gli rispose con voce pacata e rassicurante – è vero, in Francia c’è una rivoluzione che non si sa come e quando potrà cessare. Magari è nata da motivazioni anche giuste, ma si è perso completamente il controllo della situazione. Ma come si fa a mettere in prigione il re e la regina? A pensarci è una cosa talmente mostruosa da credere che non sia vera. E l’ordine? Come può essere garantito l’ordine senza un sovrano? È quello che sta accadendo ai francesi, hanno deposto il loro re e la nazione è piombata nel caos più totale. Comunque stai tranquillo, la rivoluzione è peggio della peste ma per fortuna non è contagiosa, non c’è pericolo di epidemie, e poi loro sono là e ci sono le Alpi di mezzo. Vedrai, continueremo per tanti anni ancora a goderci il governo del nostro Duca in pace e benessere. E comunque…".

    Il conte si interruppe sentendo lo scrocco sordo del chiavistello della porta d’ingresso. Era Donna Virginia, tornata a casa dopo un pomeriggio passato con le amiche a giocare ai Tarocchi. Si presentò sulla soglia dello studiolo regalando ai presenti il suo sorriso smagliante. Non aveva ancora compiuto quarant’anni ed era ancora una delle donne più belle della città. Alta, capelli biondi acconciati con cotonatura morbida, occhi azzurri, incarnato perfetto, sembrava ancora più splendida vestita di quell’abito intero di cotone dalle fantasie stampate, aperto davanti su una sottogonna gialla. Una leggera scollatura che lasciava intuire un seno armonioso e ben disegnato faceva da degna quinta alla preziosa doppia fila di perle che portava al collo.

    Buongiorno a tutti, siete in riunione? – iniziò a dire con tono scherzoso – è successo qualcosa di importante?.

    Assolutamente no, moglie cara – fu la risposta del conte – si parlava di questo e di quello, pie chiacchiere, giusto per far arrivare l’ora di cena….

    Ora di cena che venne annunciata di lì a poco dalla voce grave della pendola a terra della sala da pranzo che scandiva otto tocchi.

    Se lor signori permettono, io andrei a preparare la tavola – disse Attilio allo scoccare dell’ora, e come preso da una fretta improvvisa si diresse subito verso la sala da pranzo.

    Tempo pochi minuti e la tavola era già accuratamente apparecchiata, con tovagliato in lino di Fiandra, piatti di porcellana, posate d’argento, bicchieri di cristallo. La grande sala da pranzo era arredata in modo sontuoso. Tutta decorata a stucchi, accoglieva una possente sacrestia-credenza emiliana a doppio corpo che occupava buona parte di una parete mentre in quella di fronte faceva mostra di sé un’elegante coppia di consolles in legno intagliato e dorato con piano in marmo. Al centro della stanza, sopra un tavolo in noce massello stava sospeso un grandioso lampadario Ca’ Rezzonico a dodici fuochi. Non mancavano alcuni dipinti di antenati, tutti dall’espressione serissima, fra cui spiccava il conte Leopoldo, bisnonno di Francesco e Consigliere di Stato al tempo del Duca Rinaldo. Tutta la famiglia prese posto accomodandosi sulle sedie imbottite con stoffa a fasce parallele verdi e bianche.

    La cena è servita – comunicò con solennità il domestico, entrando nella sala con la faraona arrosto con patate su un grande piatto da portata.

    Dietro a lui, quasi schermendosi, Nina, che come quasi tutte le cuoche era piuttosto rotondetta e dal colorito bello acceso.

    A lei si rivolse il padrone di casa:

    Non ti nascondere, Nina, sapevamo che questa sera ci avresti preparato uno dei tuoi capolavori, meriti la nostra approvazione. – E cominciò ad applaudire seguito da Donna Virginia e da Francesco. Nina rimase confusa da quell’inaspettato e caloroso consenso, così ringraziò balbettando qualcosa, fece un rapido inchino e se ne tornò velocemente in cucina dove tra pignatte e paioli si trovava decisamente più a suo agio. Durante la cena fu il ragazzo che per primo avviò la conversazione: Signor padre, gradirei tornare sul discorso di oggi, se voi naturalmente siete d’accordo.

    Certamente, Francesco – fece il conte rivolgendo un’occhiata di intesa alla moglie – sei grande ormai, un futuro dottore. È giusto che tu ti interessi a quello che succede anche fuori da Modena.

    Beh… ripensavo a quanto detto da voi ad Attilio, cioè che senza un re l’ordine non verrebbe garantito e quello che sta succedendo in Francia ne sarebbe la prova più evidente. Ma se la gente ha fame è il sovrano che deve pensarci, chi altrimenti? E se non accade è giusto che il popolo si ribelli… E poi, perdonatemi, ma la monarchia è l’unica forma di governo possibile? Quella di Atene era una repubblica, come quella di Roma prima di Augusto, ed entrambi, ce lo insegna la storia, furono periodi di grande splendore. E ancora la repubblica di Venezia, millenaria….

    Il conte Jacopo sorrise, e mentre versava il vino rosso in caraffa nel bicchiere del figlio soggiunse: Bevi pure, che ti fa bene, l’importante è non esagerare. Allora… cominciamo dalla fine. Sì, io sono convinto che al giorno d’oggi la monarchia non abbia alternative. Basta guardarsi attorno e contare tutti gli stati governati da un sovrano. Non solo il nostro, naturalmente, ma anche i ducati, i principati e i regni di tutta Europa. Per tacere poi degli storici imperi d’Austria, di Russia, di Turchia. Tu pensi che tutto questo sia un caso? E dove sono oggi le forme di governo repubblicane? Atene e Roma, grandissime, ormai appartengono al passato,Venezia che a essere precisi più che una repubblica è una monarchia di pochi, sta vivendo una lenta agonia e non si sa fino a quando potrà durare. Chi c’è ancora? No, io rimango della mia idea. Vogliamo parlare di Modena? I Duchi che si sono succeduti al governo hanno trasformato un paesone in una vera capitale, un gioiellino dove è un piacere vivere, una città in cui gli Este hanno portato ricchezza, cultura, pace sociale, ordine. Ti sembra poco? Io sono un appassionato sostenitore del governo ducale. Ti sei mai chiesto perché ti abbiamo chiamato Francesco? Proprio in onore di due dei più grandi sovrani estensi, Francesco I e Francesco III.

    Scusatemi se mi permetto, ma per la verità mi diceva Giovanni che Francesco III ha svuotato le casse del ducato dilapidando denaro in spese inutili e per questo è stato costretto a vendere molti quadri della pinacoteca.

    Il tuo amico Giovanni forse non è bene informato, figliolo. È così, Francesco III ha venduto al re di Polonia parte della collezione estense, costretto dai costi enormi che aveva dovuto affrontare nel trasformare radicalmente la città, altro che spese inutili. La verità è che se c’era una spendacciona in famiglia, quella era sua moglie, Carlotta d’Orléans, una francesina abituato ai lussi di Parigi a cui la vita della corte estense rimase sempre troppo stretta.

    Già, la Duchessa Carlotta… – intervenne Donna Virginia – viziata, capricciosa, esuberante, non era adatta a Francesco, quello fu un matrimonio infelice, combinato per ragioni di pura opportunità politica.

    Perdonatemi, mia cara – la interruppe il marito – vorrei finire di rispondere a nostro figlio. Mi dicevi che se il popolo non ottiene soddisfazione è giusto che si ribelli al sovrano. Nel mio lavoro ho a che fare con la gente comune tutti i giorni. Incontro barcaioli, birocciai, operai e magazzinieri, facchini, insomma, quel popolo che rappresenta una componente fondamentale della comunità. E ti confesso che mi sento più in sintonia con queste persone modeste che con quei nobili altezzosi del mio rango che spesso mi evitano, mi danno dell’anguillaro e non mi ritengono all’altezza del nome che porto. Tuttavia non sono per niente d’accordo su certi modi con cui il popolo esprime il proprio dissenso. Le agitazioni e i tumulti non portano a niente, in Francia hanno commesso un delitto arrestando re Luigi e Maria Antonietta. Il popolo invece deve avere pazienza e fiducia nel sovrano che è come il padre dei propri sudditi e che quindi è ben disposto ad ascoltarli. Guarda ad esempio il nostro Duca attuale, Ercole III. Lo descrivono come alla mano e affabile. Pare che gli piaccia mescolarsi tra la folla al mercato o durante la fiera di San Geminiano con grande sconcerto del servizio di guardia deputato alla sua sicurezza, facendo apprezzamenti alle belle signore e parlando in dialetto. Un regnante bonario sempre disposto ad avere un rapporto diretto con la gente.

    E a voi è mai capitato di incontrarlo, signor padre?.

    "Per la verità no, l’ho solo visto una volta mentre in carrozza

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