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Codice Newton
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E-book374 pagine4 ore

Codice Newton

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Info su questo ebook

Michele Cataldis, fisico di fama internazionale, viene trovato morto nel suo studio del complesso universitario di Monte Sant’Angelo da Giosuè Fermi, il suo assistente. Prima di morire, il professore ha trascritto alcuni misteriosi appunti su un foglio. John Braggart, l’assassino di Cataldis al soldo della setta rabbinica Bar Sherira, sta cercando il secretum, uno scritto in grado di rivelare un importante segreto contenuto nella Torah, che la setta crede in possesso del professore, sulla scorta di una profezia di Newton. Per decifrare il secretum, Giosuè si mette sulle tracce di frate Benedetto, suo ex amico di liceo, recandosi prima a Roma e poi a Gerusalemme. John Braggart e la studentessa americana Liz Jones lo seguono nella Città Santa. Tra enigmi e colpi di scena, la caccia al più grande mistero della Bibbia è soltanto all’inizio. Riuscirà Giosuè a decifrare il secretum?
LinguaItaliano
Data di uscita18 mag 2020
ISBN9788835830757
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    Anteprima del libro

    Codice Newton - Alfonso Stile

    Barth

    ​Prologo: l’incontro

    Complesso universitario di Monte Sant’Angelo, Napoli

    ore 14

    Il famoso docente di fisica Michele Cataldis si trovava nel suo studio, chino sulla scrivania in preda a dolori lancinanti.

    Davanti a sé si stagliava l’imponente figura di un uomo dalle spalle larghe e dai capelli rosso vermiglio, con una lunga cicatrice, che dall’occhio sinistro si prolungava fin quasi all’estremità della mascella.

    L’uomo stava mettendo a soqquadro lo studio del professore in cerca di qualcosa che aveva per lui un’importanza fondamentale.

    «Ti conviene parlare se vuoi salva la vita», disse il gigante dagli occhi di ghiaccio, con un marcato accento inglese.

    Il professore gemeva in preda al dolore e si dimenava come una serpe.

    «Te l’ho già detto: non so di cosa stai parlando!».

    L’uomo lo fissò dritto negli occhi.

    «Tu menti. Il Maestro mi ha riferito che il secretum si trova in questo studio, adesso, ed il Maestro non si sbaglia mai. È meglio che parli, altrimenti morirai nel giro di pochi minuti».

    Il professore era stupefatto.

    Come può averlo saputo? E, soprattutto, chi è il Maestro?.

    «Cosa c’era in quel dannato caffè?», domandò poi con voce languida.

    «Qualcosa che ti condurrà presto alla morte: un veleno piuttosto potente». L’uomo sghignazzò serrando gli occhi.

    «Ma, se parli, ho qui pronto un antidoto per te», aggiunse.

    «Non ho nulla da dirti».

    Il gigante seguitava ad estrarre volumi dalla scansia alle spalle del professore, aprendoli disordinatamente e con una certa smania, per poi gettarli pesantemente per terra, provocando un tonfo sordo e ritmato.

    Michele Cataldis scrutava con la coda dell’occhio quello che stava avvenendo nello studio, un profondo senso di impotenza lo attanagliò.

    L’uomo controllò poi anche tutti i cassetti dell’ampia scrivania e persino il cestino della spazzatura, ma non trovò nulla di interessante.

    La sua espressione divenne rabbiosa.

    «Dov’è il manoscritto?», urlò. «Non ti interessa salvare la tua vita? Dimmelo immediatamente se vuoi sopravvivere!».

    Il professore sprofondò sulla poltrona, privo di forze.

    «Di quale manoscritto stai parlando?».

    L’energumeno gli rispose prontamente.

    «Mi riferisco al secretum, la chiave per decifrare il codice. Tu sai bene di cosa sto parlando».

    Il professore scosse la testa e si ritrasse, pieno di paura. Sapeva bene che a quel punto per preservare il secretum doveva sacrificare la propria vita. Il cuore gli batteva all’impazzata nel petto.

    L’uomo gli si avvicinò, e in preda alla collera gli sferrò un pugno in pieno volto, facendogli perdere i sensi.

    «Tra pochi minuti sarai morto. Addio professor Cataldis».

    Subito dopo aver esaminato alcuni fogli sulla scrivania, lasciò lo studio dileguandosi.

    Il professore riprese i sensi, ma aveva un gran mal di testa, oltre che un dolore straziante all’addome. Il suo aguzzino era sparito, credendolo morto.

    Cercò di sollevarsi sulla poltrona ed estrasse una penna dal portapenne. Poi afferrò un foglio bianco.

    Il secretum deve continuare a vivere.

    Provò una gran sofferenza , le energie ormai lo stavano per abbandonare del tutto. Ma ebbe la forza di scrivere, la sua ultima opportunità per trasmettere a qualcuno tutto ciò che aveva appena scoperto.

    Tracciò un ultimo graffio sul foglio, poi lasciò la penna stilografica, si chinò su di un fianco e cadde a terra con gli occhi sbarrati. Sul suo viso era dipinto un sorriso surreale.

    Prima parte

    Mistero

    «L’occasione arriva solo a colui che è ben preparato»

    Baruch Spinoza

    Fermi

    Mezz’ora dopo, Giosuè Fermi si stava dirigendo di buon passo verso il dipartimento di fisica, tagliando il campus dall’interno.

    Proveniva dall’aulario A, la parte più bassa del complesso universitario, dove aveva pranzato assieme ad un suo amico, professore della facoltà di biologia.

    Aveva un appuntamento col professor Cataldis per le 14.40, dovevano assolutamente parlare di lavoro.

    Giosuè era l’assistente dello stimato fisico di fama internazionale e ricopriva questo ruolo da circa due anni, da quando cioè aveva conseguito la laurea magistrale in fisica col massimo dei voti, specializzandosi sulla teoria delle stringhe.

    Amava moltissimo il suo lavoro, che consisteva essenzialmente nel ricercare la verità ultima insita nella natura e negli elementi del cosmo.

    Credeva nell’esistenza di un Dio, motore delle stelle e dei pianeti, così come delle particelle elementari, ma era un cattolico non praticante. La sua vera religione era di fatto la sua professione di scienziato.

    Gli ampi corridoi del campus brulicavano di vita, una moltitudine informe di giovani studenti attraversava il complesso di edifici per raggiungere la propria meta subito dopo la pausa pranzo.

    C’era chi si recava nelle aule studio, chi ai centri copie, chi invece in qualche aula seguire i corsi del pomeriggio.

    Proprio in uno dei corridoi del campus, Giosuè si scontrò accidentalmente con un uomo alto che procedeva spedito in senso opposto.

    Il signore si scusò, sembrava andare di fretta. Giosuè non ci fece più di tanto caso e riprese a camminare dopo essersi voltato.

    Giunto finalmente nel dipartimento di fisica, il suo dipartimento, si indirizzò verso lo studio di Cataldis.

    Controllò l’orario: le 14.40. Sono preciso come un orologio svizzero.

    Bussò alla porta battendo il pugno destro, ma non ricevette risposta.

    In effetti era piuttosto strano che il professore mantenesse la porta chiusa a quell’ora, soprattutto in vista dell’incontro che doveva avere col suo giovane collaboratore. Era una cosa che non faceva mai.

    Giosuè bussò ancora, poi con la mano afferrò la maniglia e la spinse verso il basso, ma la porta non si aprì.

    «Professor Cataldis! Professore!», urlava il giovane nella speranza di ottenere qualche risposta dall’interno.

    Ma niente.

    Solo a quel punto si decise a prendere la chiave dell’ufficio di Cataldis che anch’egli possedeva, ormai da tanto tempo, e che gli era stata affidata dal professore per qualsiasi evenienza.

    «Il professore deve essere in giro. Si sarà scordato del nostro appuntamento".

    Infilò la chiave nella serratura, e con un deciso colpo di polso la fece scattare. La porta, finalmente, si spalancò davanti a lui.

    Si aspettava che il locale fosse vuoto, ma ben presto il suo presentimento fu tragicamente smentito.

    L’ufficio al primo piano era completamente sottosopra, una serie di libri, alcuni dei quali semiaperti, erano gettati alla rinfusa sulla moquette, mentre il corpo del povero professore si trovava prono sull’ampia scrivania in legno.

    Giosuè sbiancò dalla paura. «Oh no! No! No! Ditemi che non è vero! No, non può essere!».

    Il ragazzo, un tipo estremamente sensibile, scoppiò in un pianto dirotto.

    «Professore! Professore! Si svegli!», disse singhiozzando.

    Ma ormai il professore era morto.

    Si avvicinò al corpo del docente e tentò di sollevarlo, ma sembrava un manichino. Lo girò senza mollare la presa per controllare se presentasse delle ferite all’addome, ma non trovò nulla.

    Qual è la causa del decesso? Un attacco cardiaco?.

    Il professor Cataldis aveva incontrato il suo assistente quella mattina stessa, e sembrava in gran forma. Possibile che un evento cardiaco improvviso potesse averlo condotto in così poco tempo alla morte?

    Giosuè era scioccato, cercò una sedia per non svenire. Si mise le mani sul volto e mantenne lo sguardo basso per diversi secondi. Poi si rialzò in piedi e prese a passeggiare per la stanza.

    No, non può essere un infarto. Qualcuno cercava qualcosa disperatamente ed ha messo la stanza a soqquadro. Qualcuno che era disposto perfino ad uccidere pur di ottenere ciò che voleva. Qualcuno che cercava qualcosa. Si, ma cosa?.

    Il professor Cataldis era morto con gli occhi sbarrati e con un sorriso stampato sulle labbra, quasi come se fosse riuscito a realizzare qualcosa cui teneva fortemente prima del momento della morte.

    Giosuè adagiò il cadavere sulla poltrona. Era ancora caldo, doveva essere morto da poco.

    Passato l’impatto con la dolorosa scoperta della morte del suo amico, Giosuè, da buon scienziato, cominciò ad analizzare con metodo razionale tutti gli elementi che potevano ricondurlo al colpevole del delitto e, soprattutto, al perché del delitto.

    Aveva già esaminato, seppur rapidamente, i volumi gettati per terra. Ora la sua attenzione si rivolse alla scrivania. Era piena zeppa di libri e di fogli, ma una pagina, più di ogni altra, attirò la sua attenzione. Si trovava poco oltre la tastiera del computer, sul lato destro del tavolo, ed era piena di scritte e di strani simboli.

    Giosuè scostò leggermente dalla scrivania la poltrona a rotelle dove era stato adagiato il corpo di Cataldis, arrestandola in prossimità della parete bianca in cartongesso.

    Quindi si chinò sul tavolo ed afferrò il foglio. Serrò gli occhi per vederci meglio e scoprì alcune strane scritte di inchiostro nero e spesso, quello di solito emesso da una penna stilografica.

    La penna del professore.

    In alto nel foglio, dieci parole scritte a poca distanza e su due righe in caratteri del tutto ignoti.

    טקס קןת הען מתד מאע

    הםאר רמסס עתממ אטצכ ססאה

    A centro pagina era rappresentata una croce con quattro bracci uguali ed altrettante croci in ogni riquadro formato dai bracci.

    Anche questo un simbolo del tutto oscuro.

    Nella parte bassa del foglio, invece, era stata trascritta in modo tremante una formula che Giosuè in quanto fisico conosceva da sempre: la legge di gravitazione universale.

    E poi, a piè di pagina, il giovane ricercatore vide scritto il suo nome in stampatello: GIOSUÉ FERMI

    Ma cosa poteva voler dire? Quali legami potevano avere tra loro quelle scritte riferite a campi apparentemente così differenti?

    Giosuè decise di rimandare a più tardi l’investigazione riguardo ciò che aveva trovato: ora era importante togliere quel foglio dalla scrivania e custodirlo con cura, visto che qualcuno, con ogni probabilità, per quelle informazioni aveva addirittura ucciso un uomo. E non era da escludere che questo qualcuno potesse tornare nello studio di lì a poco tempo.

    Giosuè estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloni e compose frettolosamente un numero. Dopo soli due squilli ricevette risposta.

    «Pronto, polizia? Venite subito, c’è stato un omicidio…».

    Polizia

    Il barbuto commissario di polizia Giorgio Rizzo stava tranquillamente consumando il pranzo nella mensa del commissariato di Fuorigrotta, quando fu avvertito da uno dei suoi collaboratori.

    «Capo, mi dispiace, ma c’è stato un omicidio».

    Il commissario aggrottò la fronte. «Dove?».

    «Nel complesso universitario di Monte Sant’Angelo».

    «Va bene, vengo subito».

    Si alzò velocemente portandosi il fazzoletto di stoffa alla bocca, quindi lo lasciò cadere sul tavolo.

    Non era la prima volta che a causa del lavoro fosse costretto ad interrompere il pranzo, ma ciò gli provocava comunque molto fastidio.

    Le volanti della polizia raggiunsero a sirene spiegate l’ingresso del campus universitario. L’addetto alla guardia alzò immediatamente la sbarra metallica favorendo l’ingresso dei poliziotti.

    Le macchine viaggiarono a gran velocità lungo la strada perimetrale del complesso, per poi fermarsi nei pressi del dipartimento di fisica.

    Il commissario uscì rapidamente dalla parte posteriore della vettura blu e si guardò attorno.

    Era una magnifica giornata di fine maggio e l’aria era piacevolmente fresca. Il sole illuminava con la forza dei suoi raggi l’area del campus e tutti i moderni edifici che ospitavano i vari dipartimenti.

    «Capo, di qua», disse uno degli agenti.

    Gli uomini penetrarono all’interno del dipartimento, ad attenderli vi erano diversi ricercatori avvisati dell’omicidio avvenuto poco prima.

    «Buonasera signori», salutò Rizzo.

    I presenti risposero al saluto con un cenno del capo. Poi uno di loro disse: «Al primo piano…».

    Dopo aver attraversato un corridoio semibuio, i poliziotti salirono una breve rampa di scale ritrovandosi al primo piano del dipartimento.

    Al centro del corridoio vi era Giosuè Fermi, immobile, con lo sguardo perso nel vuoto.

    Giorgio Rizzo gli si avvicinò a grandi passi e si presentò. «Salve, commissario Giorgio Rizzo».

    Gli tese la mano.

    «Salve commissario, sono Giosuè Fermi, l’assistente del professor Cataldis. Sono stato io a trovare il corpo ed a dare l’allarme».

    Giosuè diede la mano al commissario.

    «Molto bene».

    «Faccio strada».

    Dopo aver percorso una ventina di metri costeggiando le porte rigorosamente serrate degli studi degli altri scienziati del dipartimento, si ritrovarono di fronte ad una stanza con la porta spalancata dalla quale proveniva una luce molto forte.

    «Questo è l’ufficio del professor Cataldis… e quello è il suo… cadavere…».

    Il commissario esaminò la scena con cura prima di mettere piede all’interno della stanza. Corrugò la fronte ed aguzzò la vista.

    Dopo che ebbe analizzato per bene la situazione e fatte le dovute considerazioni, entrò.

    Giosuè gli tenne dietro.

    «Quando ha scoperto il corpo?».

    «Erano circa le 14.40, ed io ero di ritorno dalla pausa pranzo. Avevo un appuntamento col professore, e quando mi sono accorto che la porta dello studio era chiusa mi sono meravigliato».

    Giosuè singhiozzava, era visibilmente turbato da ciò che era accaduto. Nonostante questo, trovò la forza di continuare il suo racconto. «Ho bussato senza ricevere risposta, poi ho notato che la porta era addirittura chiusa a chiave. A quel punto ho pensato che il professore fosse in giro, ma ciò era quantomeno curioso visto che avevamo un appuntamento all’incirca a quell’ora. Dovevamo parlare di lavoro.

    Non mi sono dato per vinto ed ho aperto la porta con la mia chiave e poi… poi ho fatto la macabra scoperta…».

    Il commissario annuì.

    «Ha interagito con la scena del crimine?».

    «Sì. Ho esaminato il corpo per cercare di capire la causa della morte, ma non ho trovato alcuna ferita. Ho pensato che potesse essere deceduto per cause naturali».

    Il commissario lo interruppe: «Ma questa versione non collimerebbe col fatto che l’ufficio è stato messo a soqquadro e soprattutto col fatto che la porta è stata chiusa a chiave».

    «Esattamente. Qualcuno ha preso la chiave dello studio ed ha chiuso la porta dietro di sé dopo essere uscito».

    Il commissario fece cenno di sì col capo.

    «Sono quasi certo che si tratti di omicidio. Ma per esserne sicuri, ho bisogno della perizia del medico legale che stabilirà le esatte cause del decesso».

    Giosuè guardava il commissario come se fosse un oracolo.

    «Giovanni, chiama la scientifica ed il medico legale. Hanno un mucchio di lavoro da sbrigare».

    «Sì signor commissario».

    «Quanto a lei, mi segua in commissariato. Devo farle alcune domande».

    Braggart

    John Braggart lasciò l’affollata stazione della metropolitana di piazza Cavour a passo svelto. Era madido di sudore e piuttosto affamato, il suo ultimo pasto risaliva a quella mattina, verso le 10:00, quando aveva consumato un ottimo cornetto alla crema in un bar di Fuorigrotta. Ora stava tornando a casa, aveva un appuntamento telefonico che non si poteva proprio rimandare.

    Nonostante fossero le 15:00, il traffico in quella zona era ancora molto intenso. Le auto che percorrevano quel tratto di strada davano quasi l’impressione di essere attaccate le une alle altre e di costituire un corpo unico.

    Il suono ripetuto dei clacson sembrava una sofferta litania, quasi un canto di morte.

    John odiava tutto questo, la vita a Napoli era molto più caotica e disordinata rispetto a quella della sua adorata Glasgow.

    E come se non bastasse, il caldo della metropoli era, a tratti, opprimente, nonostante fosse una giornata di fine maggio e l’estate ancora alquanto lontana.

    Si diresse verso via Foria procedendo sul marciapiede al lato della carreggiata; intorno a lui la vita scorreva vorticosa.

    Incrociò sul suo cammino l’umanità più varia, uomini canuti, donne corpulente, giovani scattanti, bambini dall’andatura altalenante.

    Ma nessuno di essi conosceva quel gigante dalle spalle larghe e dalla barba rossa che ce l’aveva col mondo intero, nessuno di essi sapeva veramente chi fosse John Braggart.

    Svoltò a destra e cominciò a scendere per via Duomo, una delle strade più famose e frequentate del centro di Napoli.

    Le auto salivano nel senso opposto per poi sfociare in via Foria, come un affluente che si congiunge giulivo al suo fiume principale.

    I giovani alberelli delle aiuole poste sui marciapiedi si succedevano ad intervalli regolari, e riuscivano nell’intento proprio degli urbanisti ad abbellire quella via ricca di attività commerciali, vere e proprie memorie storiche di quella porzione di città.

    Si susseguivano infatti i bar antichi e le pizzerie da asporto, quelle che preparavano tra l’altro le famose pizze a portafoglio, particolarmente amate dai turisti provenienti da ogni dove. I profumi e i suoni di Napoli si fondevano in un modo mirabile, creando una magia impossibile da riprodurre in altre parti del mondo.

    Napoli possedeva una duplice natura, bella e dannata, che si amava, oppure si odiava: non esisteva una via di mezzo.

    John procedeva a testa alta, lo sguardo truce come quello di una tigre, e nessuno osava sfidarlo fissandolo negli occhi. Era una specie di armadio, centoventi chili di muscoli, in gran parte ricoperti di tatuaggi che rappresentavano simboli indecifrabili.

    L’orecchino d’oro che portava al lobo sinistro scintillava sotto la luce del sole di maggio, ed era forse il tratto, che più di ogni altro, lo distingueva, conferendogli un aspetto selvaggio ed indomabile. Eppure anche John aveva un capo, una persona da cui riceveva gli ordini e alla quale obbediva, pur senza conoscerla direttamente.

    Percorse qualche centinaio di metri in leggero declivio, fin quando non si trovò al cospetto del duomo di Napoli, dalle alte guglie e dall’imponente sagrato, la vera grande attrazione del centro cittadino.

    Una volante della polizia era parcheggiata nei pressi della via di accesso al museo del tesoro di san Gennaro, e controllava l’andirivieni di turisti stranieri e di napoletani curiosi.

    Per un attimo John si chiese se non fossero di già sulle sue tracce.

    L’area museale constava di oltre settecento metri quadrati e metteva in mostra opere di grande valore come gioielli, statue, busti, tessuti pregiati e dipinti preziosi.

    A John era capitato qualche volta di visitare il duomo, benché fosse ateo ed odiasse in particolar modo la religione cristiana, che aveva la grave colpa di andare contro i suoi funesti precetti.

    C’era stato più che altro per curiosità, dato che era sua abitudine esplorare a dovere i luoghi in cui si ritrovava a vivere ed operare.

    Dopo aver contemplato l’edificio sacro per qualche momento, entrò nel palazzo in cui viveva ormai da un mese, un vecchio stabile dei primi del Novecento localizzato proprio di fronte alla chiesa.

    Salutò distrattamente il portiere, che lo temeva pur non sapendo quasi nulla sul suo conto, e prese a salire la rampa di scale che lo avrebbe condotto al suo monolocale al primo piano del palazzo.

    Appena dentro casa, emise un profondo sospiro di sollievo, come per scrollarsi di dosso tutte le paure e le inquietudini che l’avevano attanagliato mentre portava a termine la sua missione di morte.

    Il monolocale era piccolo e spartano. In un angolo vi era una brandina con accanto un basso comodino di legno chiaro; al centro della stanza, un tavolo con gambe in acciaio, circondato da quattro sedie robuste; l’angolo cucina era sormontato da un’angusta dispensa dove John teneva pane e biscotti; in quella casa non c’era nemmeno la televisione, ma soltanto una radio, che John accendeva di tanto in tanto soprattutto per ascoltare musica.

    Guadagnò immediatamente il bagno e, dopo essersi guardato con cura allo specchio, si sciacquò per bene il viso, trovando qualche istante di sollievo. All’interno del monolocale la luce naturale non penetrava affatto, ad eccezione di quella che filtrava dalla finestra del bagno che dava sul cortile interno del palazzo.

    Uscì dal bagno e si appressò al frigorifero, lo aprì e lo esplorò a dovere. Lo richiuse subito dopo aver prelevato una bottiglia di buona birra tedesca, la sua favorita. Si mise a sedere intorno al tavolo accavallando le gambe, e sorseggiando la birra con estrema calma e con gran gusto.

    Guardò l’orario servendosi dell’orologio quadrato appeso al muro, appena sopra il frigorifero. Le 15.15. Aveva ancora del tempo prima di ricevere quell’importante telefonata.

    Lasciò la birra sul tavolo e si avvicinò alla dispensa, semivuota, abitata solo da qualche panino e da un pacco di biscotti al cioccolato. Prese un panino all’olio e gli diede un morso, poi estrasse dal frigo una bustina contenente del prosciutto crudo.

    Tornò a sedere e prese a mangiare alternando un sorso ad ogni boccone, come da sua abitudine.

    Finito di mangiare, si accomodò sul letto, tenendo la testa bassa e lo sguardo rivolto verso il pavimento scuro. Rivisse nella sua mente i momenti concitati che avevano seguito la morte di Cataldis e la fuga rocambolesca dal complesso universitario.

    Ora era a casa, al sicuro, ma c’era comunque qualche elemento che lo faceva sentire inquieto, insoddisfatto.

    Aveva svolto la sua missione con professionalità, così come faceva da sempre, ma nonostante ciò aveva fallito, non era riuscito ad impadronirsi di quel secretum tanto caro a colui che lo aveva ingaggiato.

    Giacque in quella posizione meditativa per diversi minuti, poi, con estrema puntualità, secondo quanto convenuto nel precedente colloquio, il telefono cellulare prese a trillare. Erano esattamente le 15.30.

    «Maestro», disse John con un filo di voce.

    «Mio caro John», rispose un uomo dalla voce gracchiante «Hai incontrato il professor Cataldis?».

    John era teso, e la sua tensione emotiva si poteva evincere anche dal suo parlare.

    «Si Maestro, ci siamo visti nel suo studio».

    «Bene, come è andata?».

    John esitò per un istante.

    «Beh, ho fatto come lei mi ha consigliato. Gli ho offerto il caffè avvelenato e l’ho messo alle strette. Gli ho chiesto di consegnarmi il manoscritto, ma lui ha insistito nel dire che non ne sapeva nulla».

    John tossì schiarendosi la voce: «Subito dopo ho preso a cercare il manoscritto nel suo studio, aprendo decine e decine di volumi della scansia alle spalle della sua scrivania, ma…».

    «Ma?».

    «Nulla, non ho trovato nulla che ci potesse interessare».

    In quel preciso istante John avrebbe voluto morire.

    Non conosceva il suo interlocutore di persona, ma nonostante ciò sapeva bene quale potesse essere la sua reazione a quanto gli aveva appena riferito.

    «Sei un imbecille!», tuonò l’uomo dall’altro capo del telefono.

    «Eppure ti avevo dato delle direttive precise riguardo la missione, ti avevo spiegato tutto per filo e per segno! Il professor Cataldis ti ha mentito! Il secretum esiste per davvero, ma adesso il suo mistero potrebbe essere sceso con lui nella tomba!».

    «Maestro, ma è sicuro che Cataldis fosse il vero custode della chiave per decifrare il codice?».

    «Come osi mettere in dubbio la mia parola! Quello che ti ho riferito non è frutto della mia fantasia, ma si basa scrupolosamente sulla somma profezia del più grande tra tutti gli scienziati, tramandataci da oltre trecento anni! Ricorda: Isacco non si sbaglia mai!».

    Seguirono alcuni istanti di silenzio.

    Poi John ritrovò il coraggio di parlare: «Maestro, quali saranno le nostre prossime mosse?».

    «Voglio che indaghi sulla vita privata del professore, che analizzi le sue abitudini, i suoi hobby, le sue relazioni, in particolar modo quelle familiari e professionali. Cataldis è il custode del secretum, su questo sono pronto a giurarci. Da qualche parte nella sua vita deve pur esserci anche una minima traccia del mistero che portava con sé, del mistero più grande della storia dell’umanità».

    John Braggart annuì senza aggiungere nulla.

    L’uomo dalla voce gracchiante e dall’accento vagamente britannico seguitò a parlare. «Stai ben attento a non farti scoprire, sii prudente e giudizioso: non possiamo correre il rischio di mandare tutto all’aria. Dobbiamo andare sino in fondo a questa faccenda, non solo per un mio desiderio personale, ma perché il Signore Iddio, il cui Nome grande fa tremare tutta la Terra, ce lo sta chiedendo a gran voce! Dobbiamo rendere un servigio a tutta l’umanità, dobbiamo scoprire la chiave per decifrare il più alto tra i codici mai scritti nella storia del nostro pianeta».

    «Certo Maestro, farò come mi suggerisce».

    La telefonata si interruppe bruscamente.

    John si sentì umiliato, ma ciò era del tutto prevedibile. Adesso la priorità era quella di scomparire per un po’ evitando la pressione della polizia. Gli sbirri, a quel punto, potevano essere già sulle tracce dell’assassino del professor Cataldis.

    John aveva agito prendendo tutte le precauzioni, aveva contattato il professore qualche giorno prima dell’incontro con un cellulare che faceva capo ad un intestatario fittizio, e si era presentato nel suo studio dopo aver percorso la strada perimetrale del campus, evitando la maggior parte delle telecamere a circuito chiuso presenti nella zona.

    Con un po’ di fortuna, le indagini della polizia si sarebbero rilevate più complesse del previsto, e ciò gli conferiva un vantaggio, un grosso vantaggio: quello cioè di risultare a tutti gli effetti invisibile.

    Commissariato

    Giosuè Fermi fu condotto al commissariato di polizia di Fuorigrotta stando nella stessa volante guidata dal commissario Rizzo.

    Si trattava di una struttura piuttosto moderna, localizzata a pochi passi dalla facoltà di ingegneria della Federico II e dallo

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