Ryu: L'esperienza delle prime cose
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Info su questo ebook
Ryu è un anziano ospite della struttura, non ha un vero nome e nessuno conosce il suo passato. È giunto nella Residenza come dal nulla e passa le sue giornate su una panchina, perso nei suoi pensieri.
Eleanna e Ryu creeranno un legame intessuto sulla trama dei racconti del vecchio, calati in un tempo remotissimo e impossibile, prima della Storia, in cui gli umani guardavano alla Natura come all’altra faccia dello specchio di se stessi, in cui il gruppo di nomadi era solidale e i bambini presi per mano dagli anziani.
Un’epoca d’oro o soltanto il ricordo mitizzato dell’infanzia dell’umanità?
Ryu – L’esperienza delle prime cose è un romanzo poetico, filosofico, esistenziale, ma allo stesso tempo radicato nell’esistenza concreta dei personaggi che lo animano, e pone domande che vanno alla radice del nostro vivere sociale.
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Anteprima del libro
Ryu - Marco Saverio Loperfido
Marco Saverio Loperfido
Ryu
L'esperienza delle prime cose
ISBN: 9788894442793
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
«Ciò che manca al mondo oggi non è tanto la conoscenza
quanto l'esperienza delle prime cose»
Laurens Van Der Post, Il cuore del cacciatore
ad Aurelia e Angiola
grandi sorelle
I «E come si chiama?» «Come lo abbiamo chiamato, vorrai dire…»
Eleanna era l'unica passeggera di un autobus che sfrecciava per le strade deserte della campagna romana, oltre le periferie più estreme. Il conducente, un ragazzo con la barba lunga fino al volante e le braccia tatuate, spostava spesso lo sguardo allo specchietto retrovisore per guardarla. Alta, snella, carnagione scura, di una bellezza dalle evidenti origini africane; capelli ricci che esplodevano verso l'alto, vitali come fusilli, aureola di un viso dai lineamenti delicati. Gli occhi erano neri e grandi, velati di nostalgia.
Scese a una fermata anonima e l'autobus si allontanò nella chiara luce di aprile. Si guardò attorno, persa, e dopo aver consultato il cellulare imboccò una strada sterrata che s'infilava tra campi di avena selvatica. Si stupì di tanta bellezza nascosta: le spighe ondeggiavano al vento, leggere, punteggiate da papaveri, e quel mare faceva navigare lo sguardo per molte centinaia di metri, orizzontalmente, fino a bloccarlo su di un edificio solo, in mezzo al verde.
L'immagine improvvisa di quel brutto palazzo che si ergeva negli sterminati campi le diede l'impressione di un'isola di squallore nella natura più calma e commovente.
Pensò: Sarà questo il luogo nel quale lavorerò per il resto della mia vita? Come potranno quelle quattro mura di cemento racchiudere tutti gli anni che mi aspettano?
.
Fu colta da un sottile senso di claustrofobia, un sentore leggero ma inquietante che la spaventò, bloccandola d'improvviso. Ma ormai non c'era più nulla che potesse fare. Lì su quella traccia di sentiero, a poche centinaia di passi dal suo primo giorno di lavoro, poteva solo farsi coraggio e scacciare quel presentimento. Si sistemò lo zainetto sulle spalle e riprese a camminare verso l'edificio, avvicinandosi al rumore martellante di un decespugliatore.
Non sapendo dove fosse l'ingresso raggiunse il giardiniere e si sbracciò per richiamarne l'attenzione. L'uomo rallentò il motore e alzando la visiera le fece un cenno con il mento.
«Buongiorno... sono nuova, mi sa indicare dove si entra?»
«Chi cerchi?»
«Il dottor De Matteis».
Il giardiniere squadrò Eleanna poi indicando una porta in alluminio seminascosta da secchi della spazzatura e buste nere piene di sfalci, rispose: «Entra lì e sali al primo piano… dovrebbero stare tutti in una stanza».
Eleanna ringraziò con la mano. Il giardiniere diede un'accelerata al motore e il frastuono riprese.
Salì una rampa di scale di marmo e si trovò all'inizio di un lungo corridoio controluce. A varie altezze, simili a scialuppe abbandonate, c'erano sedie a rotelle sulle quali sedevano degli anziani, ripiegati nel sonno o nella demenza. Sopra di loro i neon inutilmente accesi, come la linea di una carreggiata che indicasse l'uscita da un tunnel. La donna delle pulizie avanzava dal fondo, spazzando il pavimento a destra e a sinistra, sbattendo con rabbia lo scopettone addosso al battiscopa.
Eleanna si fece avanti timorosa, passando accanto a quei vecchi. Per lei, adesso, non erano che involucri senza vitalità, ma forse un giorno sarebbero potuti diventare persone con delle storie alle spalle, la materia concreta e logorante del suo travaglio giornaliero.
Accennò un saluto alla donna delle pulizie, ma questa nemmeno se ne accorse, testa bassa, intenta nel suo lavoro. Eleanna superò una porta aperta e vi scorse un gruppo di persone in camice.
«Sei Eleanna?» sentì dire da una sagoma in controluce.
«Vieni, vieni» continuò la voce «ti stavamo aspettando».
Entrò nella stanza con un sorriso impacciato stampato sulla faccia e cercò una sedia libera o uno spazio vuoto nel muro dove rifugiarsi. Appoggiò le spalle alla parete e controllò l'orologio del cellulare. Alzò gli occhi e vide che c'erano una decina di persone, tra cui l'unica che già conosceva, Federico De Matteis, il direttore della Residenza.
Era un uomo sulla sessantina, alto e robusto, completamente calvo, con gli occhiali tondi. Stava lì ad accoglierla con lo sguardo e un sorriso.
«Non ti preoccupare, non sei in ritardo» le disse «stiamo aspettando un'altra ragazza, come te al primo giorno di lavoro. Poi inizieremo».
Eleanna si rilassò. Questo le permise di muoversi con lo sguardo tra i suoi nuovi colleghi. Nessuno di essi la colpì. Eleanna vedeva volti anonimi, corpi qualsiasi.
Si accorse di un infermiere che la guardava dritta negli occhi, con la testa inclinata da una parte, come se stesse pensando a qualcosa su di lei. Era un ragazzo alto, magro, con belle gambe che riempivano i pantaloni bianchi di servizio. Moro, barba curata e corta, occhi scuri. Quando capì che i loro sguardi si erano protratti troppo a lungo Eleanna se ne imbarazzò e distolse il proprio, arrossendo.
Arrivò un'altra ragazza. Entrò nella stanza indossando occhiali da sole e non se li tolse.
Dev'essere l'altra nuova infermiera...
pensò Eleanna ma perché non toglie gli occhiali?
.
De Matteis iniziò il giro di presentazioni, dicendo nome e ruolo di ognuno della squadra. Eleanna afferrò solo che il ragazzo che prima la stava guardando si chiamava Fabrizio e che nella struttura lavoravano già altri due infermieri.
«E adesso dicci qualcosa di te, Eleanna» disse il direttore a un tratto, svegliandola dal suo mondo.
Erano le situazioni che più detestava.
«Io sono Eleanna... Getahun...» disse con la voce rotta dall'emozione «e come avrete capito dal mio cognome sono romana da sette generazioni...».
Su questa battuta ci fu una risatina da parte di tutti. Eleanna usava spesso quella frase per rompere il ghiaccio e a volte funzionava.
Poi disse che era cresciuta a Roma, era andata in collegio dalle suore e aveva studiato scienze infermieristiche a Latina, facendo la pendolare e lavorando saltuariamente, per poi approdare quasi per caso lì in quella stanza.
Fece un attimo di pausa e poi aggiunse: «Ah, ho venticinque anni».
«Bene» disse De Matteis e volgendo lo sguardo all'ultima arrivata le fece un sorriso come a suggerirle che adesso toccava a lei. Solo allora la ragazza si tolse gli occhiali. Si chiamava Francesca. Aveva degli splendidi occhi verdi e cominciò a parlare con disinvoltura delle motivazioni che l'avevano spinta a diventare infermiera.
A questo punto De Matteis chiese se ci fossero domande da parte delle nuove venute e Francesca non si lasciò sfuggire l'occasione.
«Quanti pazienti abbiamo nella struttura?»
«Attualmente sono diciannove, suddivisi in varie categorie. Potremmo dire, grossolanamente, che ci sono gli anziani non deambulanti, quelli con problemi mentali e quelli con demenza senile. Infine qualche raro caso di autosufficienti, che però hanno comunque bisogno di altre tipologie di aiuto».
«Benissimo, grazie» disse Francesca «non vedo l'ora di iniziare a lavorare».
De Matteis si rivolse di nuovo a Eleanna che, presa alla sprovvista, aggiunse solo: «Anche io».
Tornarono tutti ai propri lavori, mentre Eleanna e Francesca furono portate da Laura Marzio, la caposala, a fare il giro della struttura.
Era una donna piccola e magra, e avanzava tra i corridoi con passo veloce, a testa alta. Mostrò loro le dieci stanze da due letti ciascuna dicendo solo: «Stanze!», come se dal semplice sostantivo dovessero da sole dedurre tutto un mondo di particolari. Le porte erano aperte e si potevano scorgere le lenzuola dei letti sfatti e le coperte di lana infeltrita.
Passarono poi ai bagni lungo il corridoio: grandi mattonelle bianche, la maggior parte crepate, e sanitari giganti. I lavandini erano massicci e squadrati, provenienti da un'epoca lontana nel tempo, con altre sensibilità. Eleanna provò a girare la manovella dell'acqua, ma era dura e non la smosse di un millimetro. La Marzio la fulminò con lo sguardo e le diede un colpetto sulla mano.
«Funziona, funziona» disse «che pensi?».
Eleanna rimase esterrefatta e cercò con lo sguardo la complicità della sua nuova collega, ma Francesca era impassibile e si sbrigò a raggiungere la caposala che nel frattempo continuava il giro.
Visitarono la mensa, in realtà un bar-edicola che assolveva anche alla funzione di piccola tavola calda, gestito da una signora nella quale a Eleanna sembrò di riconoscere la donna delle pulizie.
Francesca le chiese: «Sigarette ne avete?».
«Certo» rispose la signora svelando così il suo accento est europeo e indicando uno scaffale proprio alle sue spalle.
«Non c'è molta scelta...» disse Francesca cercando con lo sguardo.
«Signorinella non abbiamo tutta la mattinata da perdere» disse la Marzio e di nuovo le lasciò lì continuando il giro.
La raggiunsero mentre imboccava la scala esterna, in cima alla quale i piccioni regnavano incontrastati. La caposala si mise a scrutare pensosa tutto attorno, come se quello fosse un luogo speciale e da lì in alto si potesse contemplare la struttura nella sua interezza, traendo conclusioni di chissà quale tipo.
«Siete macchinate?» chiese a un tratto.
«Io sì» rispose Francesca.
«E tu?»
«Macchinate?». Eleanna non sapeva cosa significasse.
«Sì, macchinate, hai la macchina?»
«Ah» disse Eleanna «no, signora Marzio, io vengo con i mezzi».
«Dottoressa Marzio...» la corresse. «L'ho capito quando ti ho vista arrivare dal retro. L'ingresso principale è un altro, là dove vedi il parcheggio, ma l'autobus ti lascia alla fermata in mezzo ai campi. Ricorda però che a noi non importa se ci sono scioperi o inefficienze, al lavoro bisogna arrivare sempre puntuali».
«Certamente» rispose Eleanna ubbidiente.
Il giro finì nella grande sala comune. Il farfuglio degli anziani presenti, appoggiati come soprammobili sui divani o in giro con i deambulatori come vasi di piante secche, riecheggiava tra le mura della stanza sgombra. La dottoressa Marzio presentò una parte di loro. Eleanna provò una tenerezza infinita: sembravano pulcini inermi, con lo sguardo fisso a quella chioccia rettangolare, luminosa e rumorosa, appesa a due metri di altezza sulla parete.
«Signori» disse la caposala «loro sono Francesca ed Eleanna, le due nuove infermiere. Fate un saluto…» al che alcuni di quei vecchietti girarono con fatica la testa e le fissarono con sguardo vuoto. Uno di loro aveva un filo di bava lungo fino alle ginocchia, sulle quali si piegava in continuazione; un'altra abbozzò un sorriso; un'altra parlava per singole parole scandite, che non avevano un senso logico tra loro; un altro discuteva con la tivù.
Piacere di conoscerla, Non ricorderò mai tutti i vostri nomi, Mia nonna aveva lo stesso taglio degli occhi che ha lei..., diceva Eleanna stringendo mani.
Così si chiuse il primo giorno di lavoro. Francesca salutò tutti in fretta e se ne andò con la sua 500 nera, mentre Eleanna decise di rimanere ancora un po', per conoscere meglio alcuni pazienti e cercare di stringere amicizia con i colleghi. Si unì così, dopo aver pranzato con un panino, al gruppetto che si era formato fuori dal bar, composto da Marta, una ragazza dai capelli rossi, Marco, un omaccione sulla quarantina dallo sguardo buono e Fabrizio, che non smetteva di osservare Eleanna. Lei se ne rendeva conto e la cosa la imbarazzava. A un tratto Fabrizio disse: «Come hai detto di chiamarti? Gue... Gutha... Guthaie...?».
Eleanna lo guardò con sufficienza e lo corresse: «Getahun».
«Carino» disse lui dopo aver dato un tiro alla sua sigaretta. Era appoggiato a un palo della luce, con la mano sinistra in tasca.
«Hai origini africane?» chiese.
«Sì, esatto» rispose lei.
«C'era pure un atleta etiope che si chiamava così» s'intromise Marco «o sbaglio?».
«Non sbagli» disse Eleanna «o meglio non so se esiste un atleta con il mio cognome, ma comunque Getahun è un cognome etiope».
«Quindi tua madre era etiope?» disse ancora Fabrizio.
«Perché mia madre?» rispose Eleanna. «Semmai mio padre». Fabrizio tirò l'ultima boccata alla sigaretta e gettò a terra il mozzicone spegnendolo con la punta dello zoccolo.
«Come sei fiscale» disse.
Eleanna fu