L'uomo nuovo: Tre racconti
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Aleksandr Solženicyn
Aleksandr Solženicyn (1918-2008), premio Nobel per la letteratura nel 1970, è il più importante e noto scrittore russo della seconda metà del Novecento. Celebrato narratore dopo il 1962 (Una giornata di Ivan Denisovic e altri racconti), viene espulso dall’URSS nel 1974 per le opere proscritte e pubblicate solo all’estero, tra cui Arcipelago Gulag e altri saggi dirompenti, oltre al ciclo storico-narrativo La Ruota Rossa. Dopo un esilio di vent’anni rientra in Russia e si dedica a correggere e ultimare le proprie opere. Jaca Book nel 1968, per prima in occidente, pubblicò una raccolta di articoli di Solženicyn dal titolo Tra autoritarismo e sfruttamento che conteneva anche la famosa lettera del 16 maggio 1967 al Comitato degli scrittori. Dal 2012 Jaca Book ha ripreso a pubblicare scritti di Solženicyn, iniziando con il romanzo giovanile Ama la Rivoluzione! e proseguendo con i racconti dell’Uomo nuovo.
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Anteprima del libro
L'uomo nuovo - Aleksandr Solženicyn
JACA LETTERATURA
13
Titolo originale
Двучастные рассказы:
Молодняк, Настенька, Абрикосовое варенье
Traduzione dal russo di
Sergio Rapetti
© Aleksandr Solženicyn
Molodnjak, 1993; Nasten’ka, 1993, 1995;
Abrikosovoe varen’e, 1994
© 2013
Editoriale Jaca Book SpA, Milano
per l’edizione italiana
Prima edizione italiana
maggio 2013
In copertina
Kuzma Petrov-Vodkin, Il bagno del cavallo rosso,
olio su tela, 1912, Mosca, Galleria Tret’jakov
Redazione e impaginazione
Gioanola Elisabetta, San Salvatore Monferrato (Al)
ISBN 978-88-16-80225-4
Editoriale Jaca Book
via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520
libreria@jacabook.it; www.jacabook.it
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GIOVANI E FORTI
1
Quel giorno c’era l’orale di resistenza dei materiali.
Anatolij Pavlovič Vozdviženskij, ingegnere e docente alla Facoltà di costruzione di ponti, vedeva che lo studente Konoplëv, rosso in viso, l’aspetto sofferente, si lasciava passare davanti gli altri esaminandi. Alla fine si decise ad avvicinarsi, ma per domandare a bassa voce di poter cambiare le domande. Anatolij Pavlovič lo guardò in faccia, notando la bassa fronte madida di sudore, lo sguardo implorante e disperato dei suoi occhi chiari, e acconsentì.
Ma, di lì a forse un’ora e mezza, dopo che molti altri studenti erano venuti a farsi esaminare e che erano rimasti in quattro a prepararsi all’interrogazione, Konoplëv era ancora lì, se possibile ancor più rosso in faccia e apparentemente sempre poco disposto a farsi avanti.
Aspettò fino all’ultimo. Il professore e lui si ritrovarono soli nell’aula.
«Coraggio, Konoplëv, deve proprio presentarsi», disse Vozdviženskij, e il tono non era irritato ma perentorio. Era evidente che quello non sapeva uno zero della materia. Il foglio che aveva davanti era costellato di scarabocchi che non ricordavano, neanche da lontano, delle formule e di schizzi neanche lontanamente imparentati a dei diagrammi.
Il ragazzo dalle larghe spalle si alzò, la faccia imperlata di sudore. Ma invece di andare alla lavagna per esporre il suo argomento, raggiunse con passo esitante la prima fila dei banchi, abbandonandosi dietro quello più vicino alla scrivania e disse in tono molto semplice e franco:
«È roba da spaccarsi il cervello, Anatolij Palyč».
«Bisognava studiare in modo sistematico».
«Sistematico, dice, Anatolij Palyč? Per ogni materia e ogni giorno che viene ci rovesciano addosso una caterva di cose. Mi deve credere, non sono uno che va in giro a divertirsi, ci passo le notti, ma non mi entra nella zucca. Se almeno fosse a piccole dosi, un po’ alla volta… Così non ci arrivo, non ho la testa adatta».
Aveva lo sguardo onesto e la voce sincera: non mentiva, non era affatto il tipo da darsi al buon tempo.
«Viene dalla Facoltà operaia?».
«Sì».
«E quanti anni ci ha studiato?».
«Due anni ai corsi accelerati».
«E prima della Facoltà operaia?».
«Ero allo stabilimento ‘Aksaj Rosso’. Stagnatore».
Il naso largo su un viso dalla marcata ossatura, labbra carnose.
Non era la prima volta che Vozdviženskij si interrogava sulla questione: a che pro far subire a ragazzi come quello tutti quei tormenti? Non potevano lasciarli in pace a stagnare le loro casseruole?
«Mi rendo conto della sua situazione, ma non posso aiutarla. Devo metterle insuff.».
Riguardo a questo, però, Konoplëv non era affatto convinto.
Invece di presentare al professore il libretto universitario s’appoggiò le grosse mani al petto e disse:
«Anatolij Palyč, non mi è assolutamente possibile andarmene con un’insufficienza! Per cominciare mi ridurrebbero la borsa di studio. E avrei il fiato del komsomol sul collo. E poi, la resistenza dei materiali non riuscirei comunque a digerirla. E mi troverei a malpartito, scombossolato forte, e dove vado, me lo dice?».
Sì, era tutto chiaro.
Erano molti gli studenti provenienti dalle Facoltà operaie che si ritrovavano parecchio «scombossolati». Le autorità avranno senz’altro ben riflettuto sull’opportunità di farli accedere agli studi superiori. E sicuramente previsto casi come quello. L’amministrazione raccomandava infatti ai professori di essere meno esigenti verso tale categoria di discenti. Questo nell’ambito di una più ampia politica destinata a favorire l’accesso delle masse al sapere.
Essere meno esigenti, d’accordo: ma fino a che punto? Quello stesso giorno, altri studenti usciti dalla Facoltà operaia avevano sostenuto il loro orale e Vozdviženskij aveva effettivamente chiuso un occhio sul livello della loro preparazione. Ma neanche si poteva arrivare all’assurdo di mettere «suff.» a uno che dimostrava di non sapere assolutamente niente! Che cosa si sarebbe salvato, a quel punto, di tutto il lavoro del professore e che senso avrebbero avuto gli studi in generale? Bastava che il giovanotto cominciasse a esercitare il mestiere di ingegnere, perché apparisse evidente a chiunque che per lui la resistenza dei materiali era arabo.
Vozdviženskij lo disse una volta, poi un’altra: «No, non posso».
Ma Konoplëv lo implorava, quasi con le lacrime agli occhi, difficili da strizzare per un giovanotto come lui, tagliato con l’accetta.
E Anatolij Pavlovič cominciò a riconsiderare l’intera faccenda: se le autorità ci tengono talmente a quella loro politica pur avendo messo in conto – di questo era certo – certi esiti assurdi, perché dovrei essere più scrupoloso di loro?
Fece la predica a Konoplëv. Gli dette dei consigli su come rendere più efficace lo studio, leggendo a voce alta ogni cosa per facilitare l’apprendimento. Gli spiegò cosa fare per ovviare all’affaticamento cerebrale.
Prese il libretto universitario. Mandò un profondo sospiro. Tracciò lentamente un «suff.». E la firma.
Konoplëv si alzò di scatto, raggiante.
«Le sarò eternamente grato, Anatolij Palyč! Con le altre materie magari me la cavo, ma la resistenza dei materiali per me era davvero troppo tosta».
L’Istituto delle vie di comunicazione si trovava alla periferia di Rostov-na-Donu, il tragitto in tram per rientrare a casa era piuttosto lungo e Anatolij Pavlovič aveva così agio di guardarsi attorno. Ciò che lo colpiva di più era una certa dilagante sciatteria generale. Anatolij Pavlovič indossava un completo che, oltre a essere modesto, aveva anche conosciuto giorni migliori, con colletto bianco e cravatta. Certi professori dell’Istituto, invece, ci tenevano a presentarsi con un camiciotto russo svolazzante fuori dai pantaloni e stretto in vita con una piccola cintura. Uno di loro, quand’era primavera, arrivava addirittura coi piedi nudi infilati nei sandali. E non se ne meravigliava più nessuno, tali erano i colori dell’epoca e il suo orientamento. Così, quando le donne dei nepmany si mettevano in ghingheri, la riprovazione era generale.
Anatolij Pavlovič arrivò a casa giusto all’ora di pranzo. La sua spumeggiante moglie Nadja, un vero tesoro, era da qualche giorno a Vladikavkaz presso il figlio maggiore, anche lui ingegnere di ponti e strade nonché sposo novello. Una cuoca veniva dai Vozdviženskie tre volte alla settimana ma non quel giorno. Quindi Lël’ka si era data da fare per provvedere al pranzo di papà. Aveva già apparecchiato la tavola quadrata in legno di noce, ornandola al centro con un ramo di lillà. E per il bicchierino d’argento di prammatica ad ogni suo pasto stava portando una piccola caraffa di vodka dalla ghiacciaia. E stava riscaldando e avrebbe servito un brodo coi gnocchetti. A scuola – frequentava il penultimo anno – era tra gli allievi migliori: fisica, chimica, matematica, ed eccelleva nel disegno industriale, così che tutto la faceva pensare destinata a proseguire gli studi nell’istituto dove insegnava suo padre. Ma quattro anni prima, nel 1922, un decreto aveva disposto certi criteri rigidi per l’accesso all’università: un numero assai limitato per le persone di origine non proletaria e obbligo, per chi non veniva candidato all’ammissione dal partito o dal komsomol, di produrre un attestato di lealtà politica. (Il figlio di Vozdviženskij aveva fatto in tempo ad essere ammesso un anno prima delle restrizioni).
Mentre la figlia era indaffarata col pranzo, lui non riusciva a togliersi dalla mente il voto immeritato che aveva registrato in quel libretto: gliene era rimasto come un sedimento sul cuore.
Chiese a Lëlja delle novità a scuola. In tutto il fabbricato della loro devjatiletka (intitolato a Zinov’ev, ma il nome era stato cancellato dalla targa) erano ancora impressionati per un recente suicidio: a pochi mesi dal completamento degli studi, un allievo dell’ultimo anno, Miša Derevjanko, si era impiccato. Sbrigate in gran fretta le esequie, erano subito cominciate in tutte le classi riunioni dedicate all’approfondimento critico di quanto era accaduto: frutto, era il ritornello della «dura critica», di individualismo borghese e volgare decadentismo; Derevjanko era una macchia di ruggine della quale la scuola doveva sbarazzarsi col concorso di tutti. Ma Lëlja e le sue due amiche si dicevano sicure che a spingere Miša a quel gesto estremo non erano certo estranee le vessazioni che subiva dai komsomoliani della cellula scolastica.
E oggi aggiungeva anche, con voce tremante per l’emozione, che ormai non era più un’ipotesi ma una certezza: Malevič, il direttore della scuola che tutti adoravano, un vecchio insegnante di liceo come ce n’erano un tempo, che era riuscito a mantenere l’incarico durante tutti quegli anni e il cui lucido rigore faceva funzionare la scuola alla perfezione, sarebbe presto saltato.
Lëlja andò a recuperare il bue alla Stroganoff che si scaldava sul fornello, poi presero il tè coi pasticcini.
Il padre guardava intenerito la figlia. Come raddrizzava fieramente la testa dagli ondulati capelli castani – erano scampati alla moda del taglio corto – e come era intelligente il suo sguardo! Corrugando leggermente la fronte, formulava i suoi giudizi con chiarezza.
Come spesso nelle ragazze in fiore, dietro il suo volto si celava, bello e trepido, un mistero: quello del suo futuro. Ma era soprattutto ai suoi genitori che tale mistero stringeva il cuore: in quel suo avvenire, ancora nascosto a tutti, ci sarebbe stato il coronamento dei tanti anni di cure per la sua crescita ed