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La notte e la neve
La notte e la neve
La notte e la neve
E-book344 pagine4 ore

La notte e la neve

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Info su questo ebook

Un thriller psicologico ambientato a Copenaghen, tra i canali annebbiati e i cieli grigi dell’inverno che dura a lungo.
Uno psicanalista e un ispettore entrambi esperti nel loro lavoro si incontrano e si scontrano sullo sfondo di complicati delitti. Pazienti con le loro debolezze, le loro indifese paure, sedute marcate dallo scorrere del tempo, scandito dal ticchettio dei secondi.
Amori celati, amori violenti, rancori radicati nella memoria emergono poco a poco. Un delicato intrigo di sospettati e personalità diverse che si muovono verso la verità, in un’indagine profonda alle radici della mente umana.
La notte e la neve sono tutte e due silenziose.
Ma una è bianca e l’altra è nera.
LinguaItaliano
Data di uscita7 mag 2020
ISBN9788869632327
La notte e la neve

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    Anteprima del libro

    La notte e la neve - Marco Cirillo

    Marco Cirillo

    LA NOTTE E LA NEVE

    (Natten og Sneen)

    Elison Publishing

    In copertina:

    Fotografia realizzata dall’Autore e rielaborata graficamente,

    Chamonix-Mont-Blanc, febbraio 2015.

    Immagine originale in quarta di copertina.

    Proprietà letteraria riservata

    © 2020 Elison Publishing

    www.elisonpublishing.com

    elisonpublishing@hotmail.com

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    ISBN 9788869632327

    Markus Nissen

    Il rumore della lancetta dei secondi di un orologio piuttosto rumoroso.

    La penombra data dalle imposte accostate sulla grande finestra, con la luce a righe che cercava di entrare di traverso.

    Il respiro delle due persone, alternato, quasi fatto apposta per non lasciare silenzio.

    I mobili antichi alle pareti e la scrivania moderna al centro.

    La luce rossa del registratore appena visibile.

    Posso? chiese la persona stesa sul lettino.

    Quando vuole rispose il dottor Søndergaard.

    La persona sul lettino chiuse gli occhi. Se avesse potuto rimanere lì per sempre lo avrebbe fatto. Nel limbo del futuro, senza doversi più preoccupare del passato e protetto da quel presente impalpabile. Il ritmo dei secondi guidava il suo cuore, il suo respiro, la sua vita.

    I suoi pensieri.

    Non so. Quale le racconto?

    Quello che per lei è il più facile da raccontare.

    Nessuno.

    Allora non me ne racconti nessuno.

    Prendeva tempo, era evidente. Ma era lì per quello, per riprendersi il suo tempo. E questo gli avrebbe lasciato fare il dottor Søndergaard. Era lì per quello, anche lui.

    Quanto manca?

    Quando è ora suona il timer. Lo sa.

    Certo che lo so, ma volevo…

    Sa che non posso dirglielo disse il dottor Søndergaard con un tono paterno, alcuni secondi dopo che lui si era interrotto.

    Ha ragione. Dovrei saperlo, ormai. Solo che… si interruppe di nuovo.

    Non deve… cominciò a dire lentamente il dottor Søndergaard, sapendo che sarebbe stato interrotto.

    Sì, so anche questo lo interruppe infatti la persona sul lettino. E sospirò profondamente.

    I secondi guidavano il ritmo dei respiri.

    Le righe di luce dalle imposte segnavano il tempo come tante meridiane.

    Quando sono qui sto bene.

    Prendeva tempo, era evidente.

    Perché è così, secondo lei?

    Ancora soltanto il ritmo dei secondi.

    Penso sia perché lei mi presta attenzione.

    Non le succede spesso?

    Non quanto vorrei.

    Quel paziente veniva da lui ormai da un anno. Lo conosceva come i cassetti della sua scrivania. Aveva circa cento nastri suoi, dal primo all’ultimo. Sapeva che se lo avesse lasciato fare lui avrebbe voluto parlargli più spesso, ma non glielo aveva mai concesso per non rischiare troppa dipendenza.

    O confidenza.

    Questo succede alla maggior parte di noi.

    Sì ma se succede a lei non è poi così grave come se succede a me.

    L’accenno ad un sorriso modificò gli statici lineamenti del dottor Søndergaard, comodamente appoggiato all’indietro sulla sua sedia dallo schienale alto.

    Gli lasciò il tempo di godersi questa sua risposta sagace. I secondi scanditi ritmarono le loro menti per i successivi cinque minuti. Il tempo silenzioso era parte della cura quanto le parole. Per questo aveva messo quell’orologio così rumoroso: perché i pazienti non sentissero l’imbarazzo del silenzio quando non parlavano, perché il silenzio totale imbarazza, soprattutto quando si è già imbarazzati.

    Il rumore dei secondi riempiva il silenzio e toglieva dall’imbarazzo le persone. Non erano tenuti a parlare per forza, per interrompere il silenzio e l’imbarazzo, tanto c’era il rumore dell’orologio a riempire entrambi.

    "Il vento soffiava come se non dovesse smettere mai più. La neve, sollevata in lenzuola strappate, ricadeva a valle e subito veniva ripresa per essere torturata ancora, per secoli infiniti. La voce del vento si infilava nelle grotte accennate o si rivoltava in piccole buche scavate oppure sfiorava veloce gli acuti picchi della montagna nascosta nella tormenta.

    La luce era grigia venata di blu. Non c’erano rumori, nessun rumore. Persino il vento era silenzioso, nonostante il suo impeto. Tutto era un film senza voce."

    Tutto era un film senza voce.

    Ad un tratto comparve lei. Aveva addosso soltanto una specie di tunica greca, leggera, e il vento la spalmava sul suo corpo, disegnandolo. Aveva un viso rilassato, come se non fosse lì. Nulla della tempesta la perturbava, o infastidiva. I capelli lunghi erano appena mossi. I fiocchi di neve impazziti le si avvicinavano ma non riuscivano neppure a sfiorarla, fuggendo poi via delusi, con la rabbia che si ha quando ci piace una cosa e non riusciamo ad averla.

    Quando ci piace una cosa e non riusciamo ad averla.

    A passi lenti si avvicina dove sono io. Non voglio che mi tocchi. Ma lei allunga le mani. Mi tiro indietro. Mi accorgo che è notte, una notte illuminata dalla tempesta di neve, come da tante fiaccole bianche agitate dal vento.

    Il silenzio a volte si allungava troppo e non era quello il momento di smettere di parlare.

    Continui.

    Un’altra folata, una spinta più che altro.

    Lei si è fermata.

    Il rumore dei secondi si mischia al respiro dei due uomini, l’altalena del tempo oscilla al ritmo del pensiero.

    "Il vento si è fermato. I fiocchi scendono a terra lentamente, adesso. Lei allunga di nuovo le mani, ma non per toccarmi. Si porta le mani sulle spalle, tutt’e due. Ora vedo che la tunica ha due nodi sulle sue spalle. Ora capisco, un attimo prima che avvenga.

    Lei sfiora i nodi, che si sciolgono. La tunica cade ai suoi piedi. È nuda. È bella. La neve si appoggia sui seni intirizziti, sui capelli bagnati, sulla pelle raggrinzita dall’acqua e dal freddo. È troppo bella per me. Lei è seria, non dice niente."

    Il respiro più veloce dei secondi.

    La guardo, guardo tutto il suo corpo, ogni sua parte, le spalle, i fianchi, il seno, il sesso, la bocca, l’ombelico, prima che la neve la ricopra. Lei non mi guarda più. Non si muove più. Non si avvicina più.

    Perché?

    È troppo tardi. È troppo tardi per tutto.

    Il trillo delicato e lungo del timer.

    Il tempo è finito.

    Non si discuteva, il tempo era finito.

    Va bene, dottore disse alzandosi dal lettino e stiracchiandosi. Alla prossima, allora.

    D’accordo, signor Nissen. Alla prossima.

    Altra regola importante da osservare: non precisare quando sarebbe stata la successiva seduta. Il paziente doveva sentirsi libero di prenotarla quando volesse, non doveva sentirsi inserito in un programma fisso di sedute prestabilite e quindi dovute. La maggior parte di loro telefonava a piacere quando voleva prenotare un’altra seduta, fosse dopo pochi giorni o dopo mesi. Pochi erano quelli che avevano bisogno di sapere la data della loro prossima seduta e in quei casi Søndergaard gliela comunicava esplicitamente, facendo consegnare loro anche un bigliettino molto curato come reminder. In quei casi sapere il giorno e l’ora esatta era una esigenza del paziente, gli dava tranquillità e lo rassicurava. Faceva parte della terapia.

    Ma Markus Nissen non era uno di quelli.

    Uscì senza quasi voltarsi. Del resto nessun paziente amava questa consuetudine del tempo definito delle sedute. Sembrava loro di venire dismessi senza pietà e spesso glielo facevano capire con un gesto di insofferenza, una battutina cattiva o, come Markus, facendo finta che la cosa non li toccasse minimamente.

    La porta alle sue spalle si aprì e Katrine si affacciò nella fessura.

    Per oggi ha finito, dottore. Si ricorda?

    Ah, già hai ragione. Lund ha disdetto. No, certo che non me lo ricordavo, altrimenti tu che ci stai a fare?

    Un leggero sorriso fece arrossire debolmente il bel viso della segretaria. Era sempre stata una bella donna ma adesso che aveva raggiunto la quarantina era diventata persino più affascinante. Era con lui da quando aveva ventiquattro anni. Gliel’aveva raccomandata un suo collega che aveva dovuto trasferirsi in Svezia. Era la sua segretaria e ricordava bene le parole che aveva usato per convincerlo:

    Se c’è un motivo per cui rimarrei qui, questo è Katrine. È una donna preziosa, trattala bene.

    Aveva ragione in tutto. E lui mantenne la promessa. Non seppe mai se lei e il suo collega fossero stati insieme e mai tentò di scoprirlo. Sapeva bene nel suo mestiere che se qualcuno non vuole dirti la verità non c’è verso di fargliela confessare. Si può insistere quanto si vuole, magari si riesce anche a farsi dire quello che si vuole sentire, ma se uno non vuole non si avrà mai la certezza che quello che accetta di dirci sia effettivamente la verità. Così non aprì mai il discorso, non fece mai allusioni indirette dalle quali potesse sembrare che volesse sapere la verità, non si comportò mai in modo da farle pensare che lui potesse essere convinto di quella cosa. Quasi non parlò mai più di quel suo collega, per non essere tentato dall’entrare in quell’argomento.

    Infine, anche se lei gli piaceva molto come donna, anche se il lavorare insieme gli offrì centinaia di occasioni in quegli anni per farle delle avances, non tentò mai di farle la corte, né di sapere se lei potesse interessarsi a lui per non correre il rischio di doverle poi chiedere se fosse mai stata l’amante del suo collega. Argomento che se si fossero messi insieme inevitabilmente sarebbe venuto fuori.

    Così la vide affacciarsi ogni giorno dalla porta alle sue spalle, la vide seduta dritta come un fuso alla sua scrivania di legno, che lei aveva voluto, la vide cambiare d’abiti, di moda, di pettinatura, di stile senza mai lasciarsi andare a nulla più di commenti formali e non allusivi.

    Spesso cercava di evitare di guardarla a lungo negli occhi, quegli occhi azzurri come il vetro di un lucernario, ed evitava anche di guardarle il seno ben fatto, o le curve delle spalle, o il collo allungato, o le gambe affusolate abbracciate da collant sempre impeccabili.

    Ma non faceva questo per timidezza o insicurezza e neanche per rispetto nei confronti di quel suo collega e compagno di studi che gli aveva raccomandato di trattarla bene. No, se avesse voluto...

    Lo faceva invece per non perderla. Lo faceva proprio per continuare a vederla lì tutti i giorni, per continuare ad averla vicino, a sentire la sua presenza dietro la porta che aveva alle spalle. Se mai avesse avuto una storia con lei le cose sarebbero cambiate, sarebbe stato inevitabile, lo sapeva bene. E lui non poteva permettersi di perderla. Il suo aiuto nel lavoro, la sua riservatezza, la sua precisione, la sua eleganza gli erano fondamentali, non avrebbe potuto farne a meno. Quindi di buon grado rinunciò a pensarla in altro modo se non professionale.

    Quindi lei va? le chiese.

    Sì, se non ha più bisogno.

    Può andare, cara.

    E lei?

    Raramente gli chiedeva quali fossero i suoi programmi. Succedeva nei giorni in cui non aveva altro da fare, in quelli di maltempo e in quelli in cui lui era più silenzioso. A volte Søndergaard pensava che questa fosse un’attenzione nei suoi confronti non solo professionale…

    No, resto ancora un po’ a mettere a posto degli appunti.

    Sicuro che non vuole una mano?

    Non soltanto professionale.

    Davvero, vada tranquilla.

    Non lo avrebbe mai saputo. Non avrebbe mai saputo la verità, come in tanti altri casi. Ma perché non voleva saperla.

    Gli tornò in mente un episodio che spesso gli tornava in mente. Più che un episodio lo ricordava come una frattura, qualcosa di assolutamente differente dal monotono trascorrere delle sedute e degli appuntamenti, dalle porte che si aprono e che si chiudono, dalle persone che entrano e che escono, una frattura nel ghiaccio che non si era mai più rimarginata. Gli tornava in mente quando lei non c’era anzi per l’esattezza appena lei andava via, come in quel caso.

    Un giorno, molti anni prima, faceva freddo e nevischiava (ecco ancora il maltempo) e lei gli chiese se potesse rimanere a lavorare lì con lui, dato che aveva del lavoro arretrato e nella sua parte, un ingressino in cui c’era la sua scrivania di legno, non arrivava molta luce.

    Lui le disse di sì, che certo poteva accomodarsi lì con lui, che si scegliesse una parte della scrivania e che si mettesse pure a lavorare. Questo lo imbarazzava, certo, ma aveva promesso di trattarla bene e dirle di no gli sembrava un gesto scortese.

    Dopo un po’ di tempo in cui entrambi lavoravano alle loro cose, fu lei ad aprire un discorso inatteso e strano.

    Un giorno cominciò a dire nel silenzio più totale (a quel tempo non c’era ancora l’orologio rumoroso), farà anche a me tutte quelle domande che fa ai suoi pazienti?

    Lui la guardò stupito, arrossendo.

    Perché dovrei? rispose con una domanda.

    È lei il medico: non dovrebbe rispondermi con una domanda.

    Il rossore divampò.

    Ma che dice… Lei non ha bisogno di tutte quelle domande…

    I pazienti sono così contenti di lei che mi fanno venire la curiosità di farmi curare da lei!

    Anche in quel momento avrebbe potuto chiederle cosa ci fosse di diverso tra lui e il collega con cui lavorava prima, ma si trattenne come al solito dall’aprire un discorso che citasse il collega andato via.

    Lei non ha bisogno di essere curata, né da me né da nessun altro disse rendendosi subito conto di aver detto sette parole di troppo.

    Non vorrei essere curata da altri. Sarei curiosa di farmi psicanalizzare da lei chiuse lei dritta al punto.

    Lei non ne ha bisogno, mi creda.

    Ma lei si era già alzata dalla sedia ed era andata verso il lettino rivolto verso la finestra. Si sedette dapprima su di esso poi, con un movimento così sensuale che Søndergaard dovette voltarsi dall’altra parte per non saltarle addosso, tirò su le gambe accarezzandosi i fianchi e vi si stese sopra.

    Vorrei provare cosa provano disse a giustificazione del suo gesto.

    Non potrebbe provarlo, lei non è come loro disse per scoraggiarla definitivamente.

    Dice? Anche lei spesso ripete che ognuno di noi ha dei lati da scoprire. Quindi li ho anche io.

    Lei è una persona equilibrata, Katrine le disse forse per convincerla che non ne avesse bisogno o forse per richiamarla all’ordine. Le persone che vedo io hanno dei profondi squilibri psichici che io cerco di pareggiare.

    La vedeva controluce nella fioca atmosfera brinata che riempiva la grande finestra dello studio. Il profilo del suo corpo oscillava con il respiro calmo che lo animava. I capelli si appoggiavano al bordo del lettino, le mani erano distese lungo i fianchi. Il seno saliva e scendeva con un ritmo affascinante.

    In quel momento, lo ricordava bene, lui pensò che avrebbe voluto guardarlo per sempre.

    Su, mi faccia qualche domanda insisté lei con voce da bambina capricciosa, continuando a guardare la finestra.

    Non saprei cosa chiederle, Katrine disse lui voltando lo sguardo da tutt’altra parte.

    Fu allora che lei lo stupì del tutto ponendogli il dubbio se lo psicanalista fosse lui o lei:

    Per me lo sa, ma non vuole chiedermelo.

    Søndergaard rimase in silenzio, cosa che non gli capitava spesso. Fu come un corto circuito del cervello, un giro mentale di pensieri contrari dal quale non riusciva ad uscire.

    Silenzio assenso? chiese lei implacabile.

    Katrine, io la considero una collega, non una paziente disse Søndergaard serio. Mi dispiace, non riesco in questo momento a pensare a nessuna domanda.

    Una collega! esclamò lei stupita. Che responsabilità! Sono solo la sua segretaria.

    Non è vero, e lei lo sa. Il suo aiuto è fondamentale per me.

    Lei continuava a fissare la finestra e i giochi della pioviggine gelata sul vetro pulito da poco.

    Se non ci fossi io, ce ne sarebbe un’altra.

    Certo disse Søndergaard lentamente con un po’ di malizia. Ma non sarebbe lo stesso aggiunse poco dopo per consolarla.

    Lei sospirò, sollevando il seno e accogliendolo poi di nuovo nel suo corpo.

    Seguì un silenzio irreale. Era come se chi avesse parlato per primo sarebbe poi morto. Il dottor Søndergaard non sapeva come uscire da quella situazione. Ma sapeva che di solito, quando non si sa come uscire da una certa situazione, uno dei metodi più infallibili era uscirne con una promessa.

    E va bene disse fingendo di arrendersi alla sua richiesta, un giorno faremo due chiacchiere con calma.

    Non voglio fare due chiacchiere con calma. Voglio che lei mi aiuti a scoprire quello che di me non so.

    La promessa doveva essere più appropriata, dunque.

    Come vuole, Katrine. Ma sappia fin d’ora che… ecco, sarei comunque un pochino imbarazzato a farlo.

    Saremo pari concluse lei alzandosi quasi di scatto, prendendo i documenti che aveva portato nello studio e tornando al suo posto di lavoro abituale come se nulla fosse successo.

    Eiffel Bar

    Non c’erano mai state tante persone come quella sera. Poteva essere un bene, o un male, ma tanto così era e nessuno poteva farci niente.

    C’erano tante di quelle persone che ormai non si vedevano più neanche le serigrafie sugli specchi ampi che facevano da parete o da spalliera ai tavoli, quei disegni di lontana vita francese dell’Ottocento che volevano essere una sfiziosa chicca del locale ma che nel tempo erano diventati anacronistici e démodé.

    Del resto, non potevano essere certo tolte. Quindi anche a quello nessuno poteva farci niente.

    Tutto era cominciato due ore prima, quando il locale aveva cominciato a riempirsi lentamente. Si erano saturati dapprima i tavoli in fondo, quelli più appartati. Poi la gente, man mano che arrivava, si era accontentata dei tavoli più centrali, poi di quelli attaccati all’entrata, infine il gestore era stato costretto ad aggiungere altri posti nel poco spazio lasciato libero. Succedeva ogni tanto, quell’affollamento così incredibile. Non c’era una regola, un giorno, un periodo dell’anno, non si poteva prevedere. Il gestore del locale aveva l’impressione che succedeva quando le persone dentro al locale telefonavano di nascosto ai loro amici per invitarli ad unirsi a loro. Pensava questo perché in quelle serate piene di gente gli sembrava che tutti conoscessero tutti. Diventava tutto come una grande tavolata comune. La gente parlava tutta insieme, si lanciavano battute da una parte all’altra del locale, alla risata di un tavolo in fondo facevano eco le urla di quello vicino alla porta.

    Si avvertivano, si chiamavano e si incontravano tutti nel suo locale.

    Tra tutte queste ondate di teste che si muovevano come un mare ora calmo ora agitato, si distinguevano le coppie che stavano abbracciate, formando una unica persona con due teste e due sole braccia, entrambe impegnate a tenere su bicchieri di birra o di glogg. Il gestore, un uomo robusto con una barba tipicamente da gestore di bar raggiungeva a fatica i vari tavoli per portar loro le ordinazioni, cercando di sollevare metà corpo al di sopra delle persone e portando fino a quattro bicchieri alla volta alzati sopra le teste degli altri ma anche sopra la sua.

    Lo seguiva a volte il ragazzo che lo aiutava nel fine settimana, che era esattamente un terzo di lui, portando nella sua scia le cose da mangiare. Il gestore gli faceva da frangiflutti, come una rompighiaccio nel mar artico e lui dietro come una barchetta di legno che si sarebbe schiantata sul primo iceberg se non fosse stato per il suo potente compare.

    Fu in questa situazione che l’uomo entrò nell’Eiffel bar. Non ci andava spesso, ma quella sera non sapeva proprio cos’altro fare. Appena entrato avrebbe voluto uscire. Ma i suoi amici lo avevano già visto e gli stavano facendo segni da lontano, come per dirgli era ora che arrivassi, guarda che casino, non sai che fatica abbiamo fatto per tenerti il posto, ma dove sei stato finora? Troppo tardi per uscire. Del resto (e questo avvalorava la tesi del gestore) i suoi amici gli avevano telefonato apposta. Non rimaneva che raggiungerli.

    Mentre passava tra i tavoli sentiva qua e là brani di discorsi, pezzi di monologhi, risa ubriache, lamentele scontate, stralci di vita annebbiata dell’alcol.

    E dopo?

    Non l’ho più sentito.

    Più sentito? Ma i soldi che ti doveva?

    Figurati, ma ti pare...

    Poi passava più avanti e il tema era del tutto diverso.

    Quella bionda?

    No, la mora.

    Ma quale, quella seduta in fondo a destra?

    Macché! Ma che scherzi? Quella con quegli occhi che ti mangiano a pezzettini, quella a metà sala! Come fai a non averla notata?

    Ma quella ti ha sorriso?

    Sorriso? Oh, sveglia! Quella si è leccata le labbra mentre mi guardava! Hai capito?

    Ancora un faticoso passo verso i suoi amici.

    Lasciar passare il gestore. Meglio che essere travolto da lui e portato chissà dove.

    Ciao.

    Oh, ciao, tutto ok?

    Non gli rispose, tanto era già passato oltre.

    E dai... Te l’ho detto: non succederà più.

    Non m’interessa. È già successo due volte.

    Insomma che c’è di male? È stata la mia ragazza per sei anni!

    Va bene, ma adesso non lo è più. Adesso lo sono io, o almeno dovrei esserlo...

    Ma amore certo che sei tu! L’ho solo sentita per telefono!

    Due volte. Due volte.

    Forza. C’era quasi. Ancora due tavoli.

    … Mica ancora tu?

    Certo! Se non io, chi lo fa?

    Se fossi in te la pianterei.

    Se fossi in me...

    I suoi amici gli brandivano il boccale di birra che gli avevano già ordinato, come una ricompensa promessa che stava per arrivare, finalmente.

    E tu... Tu sei stato a casa sua?

    Sì.

    A casa sua?!

    Sì.

    E il marito?

    Era fuori per lavoro.

    "Oh, ce l’hai

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