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La trilogia dei fulmini
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La trilogia dei fulmini
E-book1.389 pagine21 ore

La trilogia dei fulmini

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Info su questo ebook

Un successo tradotto in 8 Paesi

Il principe dei fulmini
Il re dei fulmini
l’imperatore dei fulmini

Una storia di sangue e tradimenti, magia e amicizia

3 romanzi in 1

Una trilogia fantasy che ha conquistato i lettori di tutto il mondo, grazie a un emozionante intreccio di azione e magia, passione e avventura, amicizia e vendetta.
In un mondo da incubo dove la violenza è all’ordine del giorno e l’unica legge possibile è quella del più forte, il principe Honorius Jorg Ancrath ha coltivato l’ira e meditato vendetta, fuggendo dal palazzo reale e mettendosi a capo di una spietata banda di fuorilegge. Dopo anni di incursioni e razzie nei villaggi del regno, per Jorg è finalmente giunto il momento di diventare re. Ma dovrà chiudere una volta per tutte i conti con gli orrori della sua infanzia, e sconfiggere una schiera di oscuri nemici i cui poteri superano ogni immaginazione… Riuscirà a governare in un mondo dominato da oscuri incantesimi e dilaniato dalle lotte intestine, a cominciare da quella con il proprio padre?

Un successo del fantasy tradotto in 8 Paesi

«Fantastico. Il nuovo George R.R. Martin.»
Conn Iggulden

«Una spietata storia di sopravvivenza e conquista, in un mondo brutale medievaleggiante.»
Terry Brooks

«Un fantasy morboso e crudo, che gronda emozioni forti.»
Publishers Weekly
Mark Lawrence
Nato negli Stati Uniti, si è trasferito quand’era ragazzo in Inghilterra, dove vive con la moglie e i figli. Ricercatore scientifico, si è occupato principalmente di intelligenza artificiale. È autore dell’appassionante saga fantasy, già paragonata alle opere di R.R. Martin, composta dai volumi Il principe dei fulmini, Il re dei fulmini e L’imperatore dei fulmini. È autore di altri libri, tra cui ricordiamo la trilogia Red Queen’s War.
LinguaItaliano
Data di uscita9 giu 2015
ISBN9788854179790
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    Anteprima del libro

    La trilogia dei fulmini - Mark Lawrence

    IL PRINCIPE DEI FULMINI

    A Celyn. Perché quel che è importante è intatto.

    cartina1

    Capitolo 1

    Corvi! Sempre i corvi. Si erano posati sul timpano della chiesa prima ancora che i feriti diventassero morti. Prima ancora che Rike avesse finito di tagliare via dalle mani le dita, e da quelle gli anelli. Io mi appoggiai al patibolo e annuii agli uccelli; ce n’erano una dozzina a formare una fila nera, e osservavano con occhi attenti.

    La piazza del villaggio divenne rossa. Sangue nei rivoli di scolo, sangue sulle pietre, sangue nella fontana. I corpi adagiati nelle posizioni tipiche dei cadaveri. Alcuni dall’aria comica, mentre tendevano al cielo le mani prive di dita, altri sereni, raggomitolati sulle loro ferite. Le mosche si levavano attorno ai feriti mentre arrancavano di qua e di là, alcuni alla cieca, altri furtivamente, traditi dallo sciame ronzante.

    «Acqua! Acqua!». È sempre l’acqua che chiede chi sta morendo. Strano, a me è uccidere che mette sete.

    Dunque questa era Mabberton. Duecento contadini morti che giacevano con le loro asce e le falci. Sapete, io li avevo avvertiti che questo era il nostro mestiere. L’avevo detto al loro capo, Bovid Tor. Avevo dato loro una possibilità, lo faccio sempre. Ma niente. Avevano voluto il sangue e la carneficina. E li avevano ottenuti.

    La guerra, amici miei, è una cosa bella. Sono gli sconfitti a dire il contrario. Se mi fossi preso la briga di andare dal vecchio Bovid, riverso sulla fontana con le viscere in grembo, egli probabilmente l’avrebbe pensata in maniera diversa. Ma guardate dove l’hanno condotto le sue obiezioni.

    «Maledetti bifolchi pezzenti». Rike lasciò cadere una manciata di dita sul ventre squarciato di Bovid. Venne verso di me sollevando il suo bottino, come se fosse colpa mia. «Guarda! Un anello d’oro. Uno! Un intero villaggio e un solo schifosissimo anello d’oro. Mi piacerebbe rimettere in piedi questi bastardi e abbatterli tutti di nuovo. Schifosi contadini di fogna».

    L’avrebbe anche fatto. Era un bastardo malefico, nonché avido. Sostenni il suo sguardo. «Calmati, Rike. C’è un oro di tipo diverso, a Mabberton».

    Gli rivolsi uno sguardo ammonitore. Le sue bestemmie avevano cancellato la magia del momento; oltretutto, dovevo essere rigido con lui. Rike era sempre sovreccitato dopo una battaglia, come se ne volesse ancora. Gli lanciai un’occhiata come a dirgli che sì, ne avevo ancora. Più di quanto potesse reggere. Lui grugnì, ripose l’anello e rinfoderò il coltello nella cintura.

    Makin ci raggiunse e abbracciò entrambi, picchiando i suoi guanti contro le spalliere delle armature. Se Makin aveva un talento, era quello di pacificare gli animi.

    «Fratello Jorg ha ragione, piccolo Rikey. Ci sono tesori in abbondanza da recuperare». Era solito chiamare Rike piccolo Rikey poiché era più alto di tutti noi di almeno una testa, e due volte più largo. Raccontava sempre barzellette. Le raccontava anche a quelli che uccideva, se gli lasciavano il tempo. Gli piaceva vederli morire con un sorriso.

    «Che tesoro?», volle sapere Rike, ancora irritato.

    «Quando mieti dei contadini, cos’altro raccogli, piccolo Rikey?». Makin sollevò le sopracciglia con aria allusiva.

    Rike sollevò la visiera dell’elmo, offrendoci la sua brutta faccia. O meglio, brutale più che brutta. Penso che le cicatrici lo migliorassero. «Vacche?».

    Makin fece una smorfia di disapprovazione. Non mi erano mai piaciute le labbra di Makin, troppo grosse e carnose, ma lo perdonavo per il suo spirito allegro e il lavoro mortale che compiva con la sua mazza. «Be’, puoi tenerti le vacche, piccolo Rikey. Io, per me, vedrò di rimediare due o tre figlie dei contadini, prima che gli altri se le prendano tutte».

    Quindi si allontanarono, e Rike scoppiò nella sua caratteristica risata, Ahr, ahr, ahr, come se cercasse di tossire via una lisca di pesce.

    Li osservai sfondare la porta della casa di Bovid, di fronte alla chiesa; era una bella casa dal tetto alto, con uno steccato in legno e un piccolo giardino fiorito sul davanti. Bovid li seguì con lo sguardo, ma non riuscì a girare la testa.

    Io guardai i corvi; vidi Gemt e il suo stupido fratello Maical raccogliere le teste, uno con l’ascia, l’altro con il carretto. Ve l’ho detto, in un certo senso è un bello spettacolo. Almeno a vedersi. L’odore non è buono, sono d’accordo. Ma avremmo bruciato quel posto abbastanza in fretta e la puzza si sarebbe trasformata in fumo di legna. Anelli d’oro? A me non serviva altro bottino.

    «Ragazzo!», chiamò Bovid con la sua voce cupa e debole.

    Andai a piazzarmi davanti a lui, appoggiandomi sulla spada, con le braccia e le gambe improvvisamente stanche. «Farai meglio a parlare in fretta, bifolco. Fratello Gemt sta arrivando con la sua ascia. Zac-zac».

    Non sembrò curarsene. È difficile spaventare un uomo così prossimo a diventare cibo per i vermi. Tuttavia mi indispettì il fatto che mi si rivolgesse con tanta leggerezza e mi chiamasse ragazzo. «Hai figlie, contadino? Magari nascoste in cantina? Il vecchio Rike le scoverà».

    A quel punto Bovid sollevò lo sguardo penetrante e carico di dolore. «Qu-quanti anni hai, ragazzo?».

    Ragazzo, di nuovo. «Abbastanza per aprirti in due come un borsellino gonfio», risposi, mentre cominciavo ad arrabbiarmi. Non mi piace arrabbiarmi, mi fa arrabbiare. Non si accorse nemmeno di quello, credo. Penso che non fosse neppure consapevole che fossi stato io a sventrarlo, meno di mezz’ora prima.

    «Quindici estati, non di più. Non possono essere di più…». Le parole uscirono lente dalle sue labbra blu sul volto pallido.

    Hai sbagliato di due, volevo dirgli, ma non mi stava più ascoltando. Il carretto cigolò alle mie spalle e Gent si avvicinò con l’ascia grondante.

    «Prendi la testa», dissi. «Lascia il suo grosso ventre ai corvi».

    Quindici! Non potevo averne quindici e bruciare i villaggi. Quando avrei compiuto quindici anni, sarei stato re!

    *

    Certe persone vengono al mondo per prenderti

    per il verso sbagliato.

    Fratello Gemt era nato per prendere il mondo

    per il verso sbagliato.

    *

    Capitolo 2

    Mabberton bruciò bene. Tutti i villaggi bruciavano senza problemi, quell’estate. Makin l’aveva definita la calda estate bastarda, troppo avara per concedere un po’ di pioggia, e aveva ragione. Quando arrivavamo si alzava la polvere alle nostre spalle, quando partivamo si levava il fumo.

    «Chi mai vorrebbe essere un contadino?». Makin amava fare domande.

    «Chi mai vorrebbe essere la figlia di un contadino?». Feci un cenno in direzione di Rike, che ciondolava sulla sella, quasi troppo stanco per tenersi su, con uno stupido ghigno sul viso e un rotolo di sciamito sull’armatura. Non sono mai riuscito a capire dove avesse trovato dello sciamito a Mabberton.

    «Fratello Rike sa godere dei piaceri semplici», disse Makin.

    Era vero. Rike ne era avido, vorace come un fuoco.

    Le fiamme divorarono Mabberton. Io avvicinai una torcia alla locanda coperta di paglia e il fuoco ci corse dietro. Un altro giorno di sangue nei lunghi anni di agonia del nostro impero. Makin si asciugò il sudore, tamponandosi il corpo con delle pezze coperte di fuliggine. Aveva un vero talento per insudiciarsi, quell’uomo. «Nemmeno tu eri al di sopra di simili piaceri, fratello Jorg».

    Non potevo obiettare. Quanti anni hai?, mi aveva chiesto quel grasso contadino. Abbastanza per fare una visitina a sua figlia. Quella cicciona aveva avuto parecchio da ridire, come suo padre. Aveva strillato come un barbagianni, tanto da farmi male alle orecchie. Con la più grande era andata meglio. Lei era stata tranquilla. Così tranquilla da doverle dare una strizzatina qua e là giusto per capire se non fosse morta di paura. Tuttavia credo che nessuna delle due sia stata molto tranquilla, quando il fuoco le ha raggiunte.

    Gemt si avvicinò e interruppe le mie fantasticherie.

    «Gli uomini del barone vedranno il fumo da dieci miglia. Non avresti dovuto appiccare il fuoco». Scosse la testa, sbatacchiando di qua e di là la sua stupida chioma fulva.

    «Non avresti dovuto», s’intromise quell’idiota di suo fratello, in sella al cavallo grigio. Avevamo lasciato a lui il baio grigio con attaccato il carro. Quel cavallo non avrebbe lasciato la strada, era più sveglio di Maical.

    Gemt voleva sempre puntualizzare le cose. Non avresti dovuto gettare quei corpi nel pozzo, adesso ci verrà sete. Non dovevi uccidere quel prete, ci porterà sfortuna. Se ci fossimo andati leggeri con lei, avremmo rimediato un riscatto dal barone Kennick. Morivo dalla voglia di piantargli il coltello in gola. Che dici, fratello Gemt? Glugluglu? Non avrei dovuto accoltellare il tuo vecchio pomo d’Adamo?.

    «Oh no!», gridai, fingendomi sconvolto. «Presto, piccolo Rikey, vai a pisciare su Mabberton. Dobbiamo spegnere l’incendio».

    «Gli uomini del barone lo vedranno», disse Gemt, cocciuto e paonazzo. Diventava rosso come una bistecca se veniva contraddetto. Quella faccia rossa mi faceva venire ancora più voglia di ammazzarlo. Tuttavia non lo feci. Quando sei il capo, hai delle responsabilità. Hai il dovere di non uccidere troppi dei tuoi uomini. Altrimenti chi comanderai?

    La carovana ci si strinse intorno, come faceva sempre a missione compiuta. Tirai le redini di Gerrod, che si fermò con un nitrito, pestando le zampe. Guardai Gemt e attesi, attesi finché tutti e trentotto i miei compagni non ci si fecero intorno, e Gemt si fece talmente rosso che pareva che le sue orecchie stessero per sanguinare.

    «Fratelli, dove stiamo andando?», chiesi, e mi sollevai sulle staffe in modo da poter guardare le loro brutte facce. Lo chiesi con voce tranquilla, e tutti fecero silenzio per poter sentire.

    «Dove?», chiesi nuovamente. «Certo non sono l’unico a saperlo. Ho forse dei segreti con voi, Fratelli?».

    Rike parve piuttosto confuso davanti a tutto ciò, e aggrottò le sopracciglia. Burlow il Grasso si portò alla mia destra, alla mia sinistra stava il Nubano, con i suoi denti bianchissimi sulla faccia nera come il carbone. Silenzio.

    «Ce lo dice fratello Gemt. Lui sa come stanno le cose e come dovrebbero andare». Sorrisi, anche se la mia mano fremeva dal desiderio di piantargli il pugnale nel collo. «Dove stiamo andando, fratello Gemt?»

    «A Wennith, sulla Costa del Cavallo», disse con riluttanza. Non voleva essere mai d’accordo su niente.

    «Bravissimo. E come contiamo di arrivarci? Siamo quasi quaranta e abbiamo dei bellissimi cavalli rubati». Gemt serrò i denti. Aveva capito benissimo dove volevo arrivare.

    «Come contiamo di arrivarci, se vogliamo una fetta di torta finché è ancora calda?», chiesi.

    «La Via degli Spettri!», esclamò Rike, tutto contento di sapere la risposta.

    «La Via degli Spettri», ripetei, sempre calmo e sorridente. «Che altra strada potremmo prendere?». Guardai il Nubano dritto negli occhi scuri. Non potevo leggere il suo sguardo, ma lasciai che fosse lui a leggere il mio.

    «Non c’è un’altra strada».

    Rike va alla grande, pensai; non sa a che gioco giochiamo ma gli piace il suo ruolo.

    «Gli uomini del barone sanno dove andiamo?», chiesi a Burlow il Grasso.

    «I suoi sgherri seguono il fronte», disse. Burlow non è stupido. Gli trema il gozzo quando parla, ma non è stupido.

    «Quindi…», feci scorrere lo sguardo su di loro, molto lentamente. «Quindi, il barone sa dove stanno andando dei banditi come noi, e sa che strada prenderemo». Lasciai penetrare quel pensiero. «E io ho acceso un dannato incendio che dice a lui e ai suoi che pessima idea sarebbe quella di seguirci».

    Fu allora che pugnalai Gemt. Non era necessario, ma volevo farlo. Fece un bel balletto, gorgogliò qualcosa nel sangue, e cadde da cavallo. La sua faccia paonazza divenne pallida piuttosto in fretta.

    «Maical», dissi. «Prendi la sua testa».

    Così fece.

    Gemt aveva solo scelto un brutto momento.

    *

    Qualunque cosa tormentasse fratello Maical,

    lui restava esteriormente impassibile.

    Sembrava solido, duro e ruvido come tutti gli altri.

    Finché non gli facevi una domanda.

    *

    Capitolo 3

    «Due morti, e due che ancora si contorcono». Makin sfoggiò il suo ghigno.

    Ci saremmo accampati comunque nei dintorni della gogna, ma Makin era andato avanti in perlustrazione. Pensai che la notizia che due gabbie della gogna contenevano dei prigionieri ancora vivi avrebbe rallegrato la truppa.

    «Due!», borbottò Rike. Era stremato, e un piccolo Rike stremato vede sempre la forca mezza vuota.

    «Due», gridò il Nubano a tutta la schiera.

    Vidi alcuni dei ragazzi scambiarsi le monete scommesse. La Via degli Spettri è noiosa come un sermone domenicale. Corre dritta e piatta. Così dritta che ammazzeresti qualcuno per una svolta a destra o a sinistra. Così piatta da accogliere un pendio con un applauso. E da ogni parte paludi, moscerini, moscerini e poi ancora paludi. Sulla Via degli Spettri non poteva capitare niente di meglio di due ingabbiati che ancora si contorcono.

    Strano che io non mi sia interrogato su cosa ci facesse una forca piantata lì in mezzo al nulla. La presi come un premio. Qualcuno aveva lasciato i suoi prigionieri a morire, appesi nelle gabbie ai lati della strada. Uno strano posto da scegliere, ma ciononostante un divertimento gratuito per la mia combriccola. I miei compagni erano impazienti, così spinsi Gerrod al trotto. Un buon cavallo, Gerrod. Scrollò via la stanchezza e scalpitò in avanti. Nessuna strada è come la Via degli Spettri per scalpitare.

    «I moribondi!». Rike lanciò un urlo e tutti si affrettarono a raggiungerlo.

    Allentai la briglia a Gerrod. Non avrebbe permesso ad alcun cavallo di superarlo. Non su quella strada, con ogni miglio lastricato, con le pietre così vicine l’una all’altra da non lasciar vedere luce a un filo d’erba. Nessuna pietra rivoltata, nessuna rotta. Ed era una strada costruita su una palude, per di più!

    Li condussi ai due tizi agonizzanti, naturalmente. Nessuno di loro poteva competere con Gerrod. Certo non con me in sella quando tutti gli altri pesavano almeno una volta e mezzo il suo carico. Giunto al patibolo mi voltai verso di loro, in fila lungo la strada. Lanciai un urlo, fuori di me per la gioia, abbastanza forte da svegliare il carro delle teste. Gemt era lì che rimbalzava sul retro.

    Makin fu il primo a raggiungermi, nonostante poco prima avesse percorso due volte quella distanza.

    «Che vengano gli uomini del barone», gli dissi. «La Via degli Spettri è perfetta, come un ponte. Dieci uomini potrebbero fronteggiare un esercito, qui. Coloro che volessero aggredirci ai fianchi affonderebbero nella palude».

    Makin annuì, sempre ansimando.

    «Quelli che hanno costruito questa strada… se mi avessero fatto un castello…». Un tuono a est interruppe le mie parole.

    «Se quelli che costruiscono le strade costruissero castelli, non andremmo da nessuna parte», disse Makin. «Rallegrati che se ne siano andati».

    Guardammo i nostri Fratelli avvicinarsi. Il tramonto tinse di fuoco arancione le pozze della palude, e mi venne in mente Mabberton.

    «Una buona giornata, fratello Makin», dissi.

    «Una buona giornata senz’altro, fratello Jorg», rispose.

    Quindi i Fratelli arrivarono e cominciarono a discutere sui moribondi. Io andai a sedermi contro il carro dei bottini per leggere, finché c’era ancora luce e la pioggia si teneva lontana. La giornata mi aveva lasciato l’idea di leggere Plutarco. Lo tenevo tutto per me, stretto tra copertine di cuoio. Qualche valido monaco aveva passato la vita su quel libro. Una vita piegato su di esso, con il pennello in mano. Qui l’oro, per le aureole, il sole e gli ornamenti. Là un azzurro, colore del veleno, più azzurro del cielo a mezzogiorno. Piccoli puntini vermigli per fare un letto di fiori. Probabilmente quel monaco era diventato cieco su quel libro, ci aveva speso tutta la sua vita, da ragazzo fino a vecchio canuto, ad abbellire le parole di Plutarco.

    Un tuono rimbombò, i moribondi si contorcevano e gemevano, e io sedevo leggendo parole più antiche del tempo remoto in cui i costruttori avevano realizzato le loro strade.

    «Siete dei codardi! Donnicciole con spade e asce!». Uno degli spuntini per corvi nella gogna aveva ancora fiato per parlare.

    «Non c’è un uomo tra voi. Tutti pedofili, appresso a quel ragazzino». Storpiava la fine delle parole come gli abitanti delle sponde del Merssy.

    «C’è un tipo laggiù che ha qualcosa da dire su di te, fratello Jorg!», gridò Makin.

    Una goccia di pioggia mi colpì sul naso. Chiusi il mio Plutarco. Aveva aspettato un po’ per raccontarmi di Licurgo e Sparta, avrebbe potuto aspettare ancora ed evitare di bagnarsi nel frattempo. Il moribondo aveva altro da dire e lasciai che parlasse mentre gli davo le spalle. Lungo la strada bisogna avvolgere bene un libro per tenerlo al riparo dalla pioggia. Dieci giri di tela cerata, altri dieci nell’altro senso, e poi si nasconde sotto un mantello dentro una bisaccia. Una bisaccia buona, non quei cenci dei Turtani, ma un buon cuoio a doppia cucitura della Costa del Cavallo.

    I ragazzi fecero largo per farmi avvicinare. La forca puzzava più del carro delle teste, un odore grezzo di legna appena tagliata. C’erano appese quattro gabbie. Due contenevano uomini morti. Molto morti. Le gambe penzolavano attraverso le sbarre, rosicchiate dai corvi fino alle ossa. Le mosche erano fitte attorno a loro, come una seconda pelle, nera e ronzante. I ragazzi avevano punzecchiato un po’ uno dei due agonizzanti, il quale non ne sembrava troppo contento. In effetti pareva che l’avessero fatto fuori. Il che era uno spreco visto che avevamo tutta la notte davanti, o almeno così avrei detto, ma non certo per l’altro che ancora riusciva a parlare.

    «Ecco che arriva il ragazzo! Ha finito di guardare le immagini oscene sul suo libro rubato». Sedeva rannicchiato nella sua gabbia, i piedi sanguinanti ed escoriati. Era un vecchio, forse sulla quarantina, dai capelli neri, la barba grigia e gli occhi scuri e scintillanti. «Prendi le pagine per pulirtici il culo, ragazzo», disse con tono sfrontato, afferrando improvvisamente le sbarre e facendo dondolare la gabbia. «È l’unico uso che ne puoi fare».

    «Lo arrostiamo a fuoco lento?», disse Rike. Perfino lui aveva capito che quel tale voleva farci arrabbiare così che lo finissimo in fretta. «Come abbiamo fatto alla gogna di Turston».

    Alcuni sghignazzarono a quell’idea. Non Makin, però. Aggrottò la fronte sotto lo sporco e la fuliggine, e guardò il tizio nella gabbia. Io sollevai una mano per riportare il silenzio.

    «Sarebbe vergognoso sprecare un libro così bello, padre Gomst», dissi.

    Come Makin, anche io avevo riconosciuto padre Gomst in mezzo a tutta quella barba e quei capelli. Se non fosse stato per il suo accento, però, sarebbe stato arrostito. «Soprattutto un Su Licurgo scritto in latino aulico, non in quel romano bastardo che insegnano in chiesa».

    «Mi conosci?», chiese con la voce incrinata, improvvisamente lamentosa.

    «Naturalmente». Feci scorrere le mani tra i miei bei riccioli e spostai indietro i capelli così che potesse vedermi bene nella penombra. Ho il sembiante scuro e affilato degli Ancrath. «Siete padre Gomst, venuto a riportarmi a scuola».

    «Pr-prin…». Ora piagnucolava, incapace di articolare le parole. Davvero disgustoso, mi fece sentire come se avessi morso qualcosa di rancido.

    «Principe Honorius Jorg Ancrath, per servirvi». Feci il mio inchino rituale.

    «Ch-che ne è stato del capitano Bortha?». Padre Gomst si mosse appena nella sua gabbia, confuso.

    «Capitano Bortha, signore!». Makin fece un saluto e si alzò in piedi. Aveva su di sé il sangue dell’altro moribondo.

    Seguì un silenzio mortale. Perfino il cinguettio e il brusio della palude si ridussero a un sussurro. I Fratelli spostavano lo sguardo da me a padre Gomst e poi di nuovo a me, a bocca aperta. Il piccolo Rikey non sarebbe potuto apparire più sorpreso nemmeno se qualcuno gli avesse chiesto quanto fa sei per nove.

    La pioggia scelse quel momento per cadere, tutta insieme come se il Signore Onnipotente avesse svuotato su di noi il suo vaso da notte. L’oscurità, che andava crescendo, divenne densa come melassa.

    «Principe Jorg!». Padre Gomst dovette gridare per sovrastare il rumore della pioggia. «La notte! Dovete correre!». Strinse le sbarre della sua gabbia, con le nocche bianche e gli occhi spalancati e immobili che fissavano il buio.

    E attraverso la notte e la pioggia, sopra le paludi su cui nessun uomo può camminare, li vedemmo giungere. Vedemmo le loro luci. Luci pallide come cadaveri ardevano in stagni profondi dove agli uomini non è concesso guardare. Luci che promettevano ogni cosa che un uomo potesse desiderare, che spingevano a seguirle in cerca di risposte, per trovare solo il fango freddo, profondo e vorace.

    Padre Gomst non mi era mai piaciuto. Mi aveva sempre detto cosa fare fin da quando avevo sei anni, il più delle volte fornendo come ulteriore motivazione il dorso della mano.

    «Correte, principe Jorg! Correte!», gemette il vecchio Gomst, in uno stomachevole sacrificio di se stesso.

    Io rimasi immobile.

    *

    Fratello Gains non faceva il cuoco perché era bravo a cucinare.

    Semplicemente, non era capace di fare nient’altro.

    *

    Capitolo 4

    I morti avanzarono attraverso la pioggia, fantasmi dei morti delle paludi, degli annegati e di coloro i cui cadaveri erano stati gettati nell’acquitrino. Vidi Kent il Rosso correre alla cieca e affondare nella gora. Alcuni dei Fratelli ebbero il buonsenso di imboccare la strada, quando fuggirono, ma la maggior parte finì nella palude.

    Padre Gomst cominciò a pregare nella sua gabbia, gridando le parole come se potessero essere il suo scudo: «Padre che sei nei cieli proteggi i tuoi figli. Padre che sei nei cieli». Sempre più veloce, a mano a mano che la paura lo attanagliava.

    Il primo emerse dallo stagno gorgogliante e si incamminò sulla Via degli Spettri. Intorno a sé aveva un alone come di luce lunare, qualcosa che, si capiva, non ti avrebbe tenuto al caldo. Il suo corpo era chiaramente visibile nella luce, mentre la pioggia lo attraversava andando a rimbalzare sulla strada.

    Nessuno rimase accanto a me. Il Nubano fuggì, con gli occhi spalancati sul viso scuro. Burlow il Grasso pareva aver perso ogni goccia di sangue. Rike urlava come un bambino. Perfino Makin era sovrastato dal terrore.

    Spalancai le braccia alla pioggia. La sentivo picchiare su di me. Non avevo ancora molti anni alle spalle, ma anche per me ogni goccia risvegliava un ricordo. Mi ritornavano in mente le notti selvagge di quando ero nella Torre di Guardia, in bilico sul precipizio, quasi affogato nel diluvio, e sfidavo i fulmini a toccarmi.

    «Padre che sei nei cieli. Padre che sei…». Gomst iniziò a farfugliare quando il negromante si avvicinò. Ardeva di una fredda fiamma che sembrava quasi lambire le nostre ossa.

    Tenni le braccia aperte e offrii il mio volto alla pioggia.

    «Mio padre non è nei cieli, Gomst», dissi. «È al castello, a contare i suoi uomini».

    La creatura morta venne verso di me, e io la guardai negli occhi. Erano vuoti.

    «Che cosa porti?», dissi.

    Mi mostrò cosa portava, e io feci altrettanto.

    C’è un motivo se vincerò questa guerra. Tutti coloro che sono vivi hanno combattuto una battaglia che era già vecchia quando sono nati. Io mi sono fatto le ossa sui soldati di legno nella sala delle armi di mio padre. C’è un motivo se io vincerò laddove altri hanno fallito. Perché io capisco il gioco.

    «L’inferno», disse il morto. «Porto l’inferno».

    Quindi fluì dentro di me, gelido come la morte, affilato come un rasoio.

    Sentii la mia bocca piegarsi in un sorriso. Sentii la mia risata coprire il rumore della pioggia.

    Un coltello fa paura se viene puntato alla gola, freddo e tagliente. Così come il fuoco e la tortura della ruota. O un antico fantasma sulla Via degli Spettri. Tutte cose che possono metterti a tacere. Finché non capisci cosa sono veramente. Sono solo modi per perdere la partita. Perdi la partita, e cos’hai perso? Hai perso il gioco.

    Quello è il segreto, e mi stupiva pensare che solo io l’avessi capito. Vidi il gioco per quello che era realmente la notte in cui gli uomini del conte Renar catturarono il nostro carro. Anche quella sera c’era una tempesta, ricordo il frastuono della pioggia sul tetto del carro e i tuoni in sottofondo.

    Big Jan aveva letteralmente scardinato la porta per farci uscire. Però ebbe il tempo di liberare solo me. Mi gettò fuori, in una macchia di rovi così fitta che gli uomini del conte si convinsero che fossi fuggito nella notte, e non vollero cercarmi. Ma io non fuggii. Rimasi appeso in mezzo alle spine e li vidi uccidere Big Jan. Lo vidi nei pochi istanti di luce che un fulmine mi concesse.

    Vidi cosa fecero a mia madre, e quanto tempo impiegarono. Ruppero la testa del piccolo William contro una pietra del lastricato. Riccioli dorati e sangue. E devo ammetterlo, William fu il primo dei miei Fratelli, mi faceva scherzi con le sue grasse mani e la sua risata. Da allora avevo preso con me più di un fratello, alcuni davvero crudeli, così non mi sarei preoccupato di perderne uno o due. Ma all’epoca mi fece male vedere il piccolo William martoriato in quel modo, come un giocattolo. Come un oggetto senza valore.

    Quando lo uccisero, mia madre non si diede pace, così le tagliarono la gola. Allora ero stupido, avevo solo nove anni, e combattei per salvarli. Ma le spine mi tenevano stretto. Da allora ho imparato ad apprezzarle.

    Le spine mi hanno spiegato le regole del gioco. Mi hanno fatto capire cose che quegli uomini truci e seriosi che avevano combattuto la Guerra dei Cento dovevano ancora imparare. Puoi vincere il gioco solo se capisci che si tratta di un gioco. Fate giocare un uomo a scacchi e ditegli che ogni pedone è un suo amico. Fate che ritenga sacri gli alfieri. Che ricordi i giorni felici all’ombra delle sue torri. Che ami la sua regina. E guardatelo perdere tutti.

    «Cos’hai per me, creatura dell’oltretomba?», chiesi.

    È un gioco. Muoverò le mie pedine.

    Sentii il freddo dentro di me. Vidi la sua morte. La sua disperazione. E la sua fame. E ricambiai. Mi aspettavo di più, ma era solamente un morto.

    Gli mostrai il tempo vuoto in cui la mia memoria non vaga. Glielo lasciai guardare.

    Quindi fuggì da me. Corse via, e io lo inseguii, ma solo fino al ciglio della palude. Perché è un gioco, e sarò io a vincerlo.

    Capitolo 5

    Quattro anni prima

    Per lunghissimo tempo ho studiato la vendetta ed escluso ogni altra cosa. Ho costruito la mia prima camera di tortura nelle oscure segrete dell’immaginazione. Disteso su lenzuola insanguinate nelle Sale di Guarigione, scoprii porte nella mia mente che prima non avevo trovato, porte che perfino un bambino di nove anni sa che non devono essere aperte. Porte che non si richiudono più.

    Io le spalancai.

    Fu sir Reilly a trovarmi, appeso nel roveto, a meno di dieci metri dalle rovine fumanti della carrozza. Mi avevano quasi mancato. Li vidi raggiungere i cadaveri sulla strada. Li vidi farsi strada tra i rovi, i lampi argentei dell’armatura di sir Reilly e il balenare rosso delle cotte dei soldati di Ancrath.

    Mia madre fu facile da trovare, avvolta nelle sete.

    «Santo cielo! È la regina!». Sir Reilly ordinò agli uomini di voltarla. «Con delicatezza! Mostrate un po’ di rispetto…». Si interruppe con un singhiozzo. Gli uomini del conte non erano stati clementi con lei.

    «Signore! Quaggiù c’è Big Jan, insieme a Grem e Jassar». Li vidi sollevare Jan e poi dedicarsi alle altre guardie reali.

    «Faranno bene a essere morti!». Sir Reilly sputò. «Cercate i principi».

    Non li vidi trovare Will, ma seppi quando accadde dal silenzio che si levò al di là della siepe. Lasciai ricadere il mento sul petto e guardai lo scuro disegno del sangue che si riversava sulle foglie secche ai miei piedi.

    «Ah, maledizione…», disse infine uno degli uomini.

    «Mettetelo su un cavallo. Fate piano», disse sir Reilly. La sua voce era rotta. «E trovate il Delfino!», aggiunse con più energia, ma meno speranza.

    Cercai di chiamarli, ma le forze mi avevano abbandonato, non riuscivo nemmeno a sollevare la testa.

    «Qui non c’è, sir Reilly».

    «L’hanno preso in ostaggio», disse lui.

    In parte aveva ragione, c’era qualcosa che mi tratteneva contro la mia volontà.

    «Posatelo vicino alla regina».

    «Piano! Fate piano…».

    «Metteteli al sicuro», disse sir Reilly. «Galopperemo in fretta verso l’Alto Castello».

    Una parte di me voleva lasciarli andare. Non sentivo più male, solo un dolore sordo, e anche quello stava svanendo. Una pace mi avvolse con la promessa dell’oblio.

    «Signore!». Un grido giunse da uno degli uomini.

    Sentii il rumore dell’armatura mentre sir Reilly avanzava per vedere.

    «Un pezzo di scudo?», chiese.

    «L’ho trovato nel fango, le ruote della carrozza devono avercelo spinto sotto». Il soldato tacque per un istante. Sentii grattare. «Mi sembra un’ala nera».

    «Un corvo. Un corvo in campo rosso. Sono i colori del conte di Renar», disse Reilly.

    Conte Renar? Ora avevo un nome. Un corvo nero su fondo rosso. Le insegne balenarono davanti ai miei occhi, arse dai fulmini della tempesta della notte precedente. Un fuoco mi accese, e il dolore di centinaia di spine bruciò in ogni arto. Mi sfuggì un lamento. Le mie labbra si aprirono, lacerando la pelle secca.

    E Reilly mi trovò.

    «Qui c’è qualcosa!». Lo sentii bestemmiare mentre i rovi trovavano ogni spiraglio della sua armatura. «Presto! Tirate via questa roba».

    «Morto». Sentii il mormorio alle spalle di sir Reilly mentre mi liberava.

    «È così pallido».

    Immagino che le spine mi avessero quasi dissanguato.

    Quindi andarono a prendere un carro e mi riportarono indietro. Io non dormii: guardavo il cielo farsi nero e pensavo.

    Nelle Sale di Guarigione frate Glen e il suo aiutante, Inch, estrassero le spine dalla mia carne. Il mio tutore, Lundist, giunse quando mi avevano già fatto mettere sul tavolo e avevano sguainato i coltelli. Aveva con sé un libro, grande come uno scudo teutone e, a giudicare dall’aspetto, tre volte più pesante. Lundist aveva più forza in quel vecchio corpo raggrinzito e ossuto di quanto si potesse immaginare.

    «Spero che quei pugnali siano stati sterilizzati con il fuoco, frate». Lundist aveva l’accento della sua terra natia, nell’Estremo Oriente, e la tendenza a lasciare in sospeso metà parola, come se l’interlocutore dovesse essere in grado di riempirne i vuoti.

    «È la purezza dello spirito che previene la purezza della carne, tutore», disse frate Glen. Lanciò a Lundist un’occhiata di disapprovazione e tornò al suo lavoro.

    «Nondimeno, sterilizzate il pugnale, frate. Il Sacro Ufficio sarà di scarsa protezione dall’ira del re se il principe dovesse morire nelle vostre Sale». Lundist posò il suo libro sul tavolo vicino a me, facendo tintinnare un vassoio di fiale alla sua estremità. Sollevò la copertina e lo sfogliò fino a una pagina segnata.

    «Le spine dei roveti sono in grado di raggiungere le ossa». Fece scorrere un dito ingiallito lungo le righe. «Le punte possono spezzarsi e infettare la ferita».

    A quel punto frate Glen diede un colpo secco che mi fece urlare. Posò il pugnale e si girò per affrontare Lundist. Io riuscivo a vedere solo la schiena del frate, la cappa marrone tesa sulle sue spalle, scura di sudore lungo la schiena.

    «Tutore Lundist», disse. «Un uomo della vostra professione è avvezzo a pensare che tutte le cose possano essere apprese dalla lettura di un libro o della giusta pergamena. L’apprendimento ha un suo ruolo, signore, ma non pensate di venire a fare lezione a me sulla base di una nottata passata con un vecchio tomo».

    Ebbene, frate Glen aveva vinto la disputa. L’armigero dovette accompagnare Lundist fuori dalla sala.

    Immagino che anche a nove anni io non fossi affatto spiritualmente puro, perché le mie ferite s’infettarono in due giorni, e per nove settimane giacqui febbricitante, in preda agli incubi e lungo i confini della morte.

    Mi hanno raccontato che gridai e piansi. Che delirai mentre il pus colava dalle lacerazioni provocate dalle spine che mi avevano avvolto. Ricordo l’odore della macerazione. Era dolciastro, il tipo di dolcezza che fa venir voglia di scappare.

    Inch, l’aiutante del frate, si stancò di tenermi inchiodato al letto, nonostante avesse le braccia di un boscaiolo. Alla fine dovettero legarmici.

    Venni a sapere da Lundist che frate Glen, dopo la prima settimana, non mi aveva fatto più visita. Diceva che avevo un diavolo in corpo. Per quale altra ragione un bambino avrebbe dovuto dire simili oscenità?

    Durante la quarta settimana strappai le cinghie che mi tenevano ancorato al letto e diedi fuoco alla Sala. Non ricordo nulla della mia fuga, o della mia cattura nei boschi. Quando ripulirono le rovine, trovarono i resti di Inch, con l’attizzatoio del camino piantato in mezzo al petto.

    Molte volte stetti davanti a quella Porta. Vidi mia madre e mio fratello lanciati attraverso di essa, fatti a pezzi, e nel sogno i miei piedi mi portavano lì davanti, ancora e ancora. Mi mancava il coraggio di seguirli, trattenuto dagli aculei e dalle spine della mia codardia.

    A volte vedevo la terra dei morti sulla sponda opposta di un nero fiume, a volte al di là di un baratro attraversato da uno stretto ponte di pietra. Una volta vidi la Porta con l’aspetto del portale della sala del trono di mio Padre, ma circondata di brina e che trasudava pus dalle giunture. Dovevo solo posare la mano sulla maniglia…

    Il conte di Renar mi aveva tenuto in vita. La promessa della sua sofferenza schiacciava la mia sotto il calcagno. L’odio ti terrà in vita laddove non ci riesce l’amore.

    Un giorno, infine, la febbre mi abbandonò. Le mie ferite rimasero rosse e infiammate, ma si richiusero. Mi nutrirono con brodo di pollo, e le forze mi tornarono strisciando, quasi non le riconoscevo.

    La primavera venne a colorare le foglie sugli alberi. Avevo riacquistato le energie, ma sentivo che qualcos’altro mi era stato portato via. Qualcosa che avevo perduto per sempre, tanto da non poterlo nemmeno più nominare.

    Il sole fece ritorno e, a dispetto di frate Glen, Lundist tornò ancora una volta a istruirmi. La prima volta che venne, io ero seduto sul letto. Lo osservai disporre i suoi libri sul tavolo.

    «Tuo padre ti visiterà al ritorno da Gelleth», disse. La sua voce conteneva una nota di disappunto, ma non nei miei confronti. «La morte della regina e del principe William pesano sul suo cuore. Quando il dolore si sarà affievolito verrà senza dubbio a parlare con te».

    Non capivo perché Lundist sentisse il bisogno di mentire. Sapevo che mio padre non avrebbe sprecato il suo tempo con me mentre sembrava che stessi per morire. Sapevo che mi avrebbe fatto visita quando la sua presenza avrebbe potuto avere uno scopo.

    «Dimmi, tutore», dissi. «La vendetta è una scienza o un’arte?».

    Capitolo 6

    La pioggia diminuì quando lo spettro volò via. Avevo sconfitto il primo, ma anche gli altri erano in fuga, di ritorno agli stagni che infestavano. Forse il mio avversario era il loro signore; o forse gli uomini divengono codardi nella morte, non lo so.

    Riguardo ai miei, di codardi, non avevano un posto in cui fuggire e li ritrovai piuttosto facilmente. Il primo fu Makin. Almeno lui stava tornando verso di me.

    «Hai trovato un tuo pari?», gli gridai.

    Tacque per un momento e mi guardò. La pioggia ormai non era molto forte, ma lui sembrava un ratto bagnato. L’acqua scorreva formando piccoli rivoli sul pettorale della sua armatura, dentro e fuori dalle ammaccature. Lanciò un’occhiata alla palude, a destra e a sinistra, ancora teso, e abbassò la spada.

    «Un uomo che non ha più paura è un uomo che ha perso un amico, Jorg», disse, e un sorriso si fece strada tra le sue labbra carnose. «Fuggire non è un male. Purché si fugga nella direzione giusta». Fece un gesto con la mano verso Rike, che stava lottando contro un intrico di giunchi, con il fango che già gli arrivava al petto. «La paura aiuta l’uomo ad affrontare le sue battaglie. Tu le stai combattendo tutte, mio principe». E fece un inchino, lì sulla Via degli Spettri, grondante di pioggia.

    Io gettai uno sguardo a Rike. Maical aveva un problema simile in uno stagno sul lato opposto della strada, solo che il suo gli arrivava fino al collo.

    «Alla fine, le combatterò tutte».

    «Scegli le tue battaglie», disse Makin.

    «Scelgo di rimanere saldo», dissi io. «Resterò saldo ma non ho intenzione di fuggire. Mai. È già stato fatto, eppure siamo ancora in guerra. Io vincerò, fratello Makin. Tutto questo finirà con me».

    S’inchinò di nuovo. Non a fondo come prima, ma questa volta capii che era sincero. «È per questo che ti seguirò, principe. Ovunque tutto ciò ci porterà».

    Per il momento ci portò a tirare fuori dal fango i nostri Fratelli. Prima andammo da Maical, anche se Rike urlò e ci maledisse. Con l’assottigliarsi della pioggia, riuscivo a vedere il cavallo grigio e il carro delle teste. L’animale aveva avuto il buonsenso di mantenersi sulla strada, anche se Maical non l’aveva fatto. Se questi l’avesse trascinato nella palude, l’avrei lasciato affogare.

    Poi tirammo fuori Rike. Quando lo raggiungemmo il fango gli era quasi arrivato alla bocca. Sopra la superficie non si vedeva altro che la sua faccia pallida, ma questo non gli impedì di sbraitare insulti e bestemmie per tutto il tempo. Trovammo la maggior parte degli altri sulla strada, ma sei di loro erano stati risucchiati troppo in fretta, e ormai erano perduti per sempre; probabilmente sarebbero stati pronti ad assalire la successiva congrega di viaggiatori.

    «Torno dal vecchio padre Gomst», dissi.

    Avevamo percorso un buon tratto di strada, e la luce era quasi scomparsa. Guardando indietro non si vedeva più la gogna, solo una grigia cortina di pioggia. Nelle paludi i morti attendevano. Sentii i loro gelidi pensieri strisciare sulla mia pelle.

    Non chiesi a nessuno di loro di venire con me. Sapevo che nessuno l’avrebbe fatto, e non si confà a un capo chiedere e sentirsi rispondere di no.

    «Cosa vuoi fare di quel vecchio prete, fratello Jorg?», disse Makin. Mi stava chiedendo di non andare, ma non poteva dirlo apertamente.

    «Vuoi ancora arrostirlo vivo?». Nemmeno il fango riuscì a nascondere l’improvviso entusiasmo di Rike.

    «Sì», dissi. «Ma non è per questo che sto tornando da lui». Quindi mi allontanai lungo la strada.

    La pioggia e l’oscurità mi avvolsero. Lasciai indietro i Fratelli ad attendermi. Gomst e la gogna erano più avanti. Camminai rinchiuso nel silenzio, nessun rumore al di fuori del mormorio della pioggia e del suono dei miei stivali sulla strada.

    Ora ve lo posso dire: quel silenzio quasi mi sovrastò. È il silenzio che mi spaventa. È la pagina bianca su cui posso scrivere le mie paure. Gli spiriti dei morti nulla possono in confronto. Quella creatura aveva provato a mostrarmi l’inferno, ma era solo una pallida imitazione dell’orrore che io riesco a raffigurarmi nell’oscurità in un momento di silenzio.

    E lì giaceva appeso padre Gomst, prete della Casa degli Ancrath.

    «Padre», dissi, e accennai un inchino. Sinceramente non ero in vena di scherzi. Avevo un dolore sordo dietro agli occhi. Quello che di solito fa finire la gente ammazzata.

    Mi guardò con gli occhi spalancati, come se fossi stato uno spirito della palude strisciato fuori da una pozza.

    Andai verso la catena che reggeva la sua gabbia. «Reggetevi, padre».

    La spada che estrassi aveva sventrato Bovid Tor da meno di ventiquattro ore. L’avrei calata per liberare un prete. La catena cedette sotto il suo taglio. Dovevano aver aggiunto qualche incantesimo o stregoneria a quella lama. Mio padre mi aveva detto che gli Ancrath la brandivano da quattro generazioni, e che lui l’aveva presa dalla Casa di Or. Quindi quell’acciaio era antico prima ancora che gli Ancrath vi posassero le mani sopra per la prima volta. Antico prima ancora che lo rubassi.

    La gabbia cadde a terra con un pesante schianto. Padre Gomst cacciò un urlo e andò a battere la testa contro le sbarre, procurandosi un livido cruciforme sulla fronte. Avevano avvolto la gabbia in una corda. Questa non resistette al filo della mia spada ancestrale, rubata due volte. Per un attimo pensai a mio padre, immaginai la sua espressione distorta dall’indignazione per aver usato una lama così raffinata per un compito tanto banale. Ho molta immaginazione, ma mi venne difficile collocare un’espressione sul viso di pietra di mio padre.

    Gomst strisciò fuori, debole e indolenzito, come si conviene ai vecchi. Apprezzavo che avesse avuto la grazia di portare sulle spalle i suoi anni. Alcuni con l’età si rinvigoriscono.

    «Padre Gomst», dissi. «Farete bene ad affrettarvi, o i morti delle paludi potrebbero tornare a spaventarci con i loro lamenti e ululati».

    Lui mi guardò, indietreggiando come se avesse visto un fantasma, poi si rilassò.

    «Jorg», disse, carico di compassione. Questa traboccava dai suoi occhi, e cominciò a sgorgare come se non fosse solo pioggia. «Cosa vi è accaduto?».

    Non vi mentirò. Una metà di me voleva piantargli il pugnale nel petto all’istante, come avevo fatto con quel faccione di Gemt. Più di una metà. Le mani mi prudevano dal bisogno di sfoderare quel pugnale. La testa mi doleva, come se una morsa mi stesse stringendo le tempie.

    Io sono un bastian contrario. Se vengo spinto in una direzione, prendo quella opposta. Anche se a spingere sono io stesso. Sarebbe stato facile sbudellarlo lì, su due piedi. Ma quel bisogno era troppo forte, e mi sentii pressato.

    Sorrisi e dissi: «Perdonatemi padre, poiché ho peccato».

    E il vecchio Gomst, nonostante fosse indolenzito per via della gabbia, e dolorante in ogni arto, piegò la testa per ascoltare la mia confessione.

    Parlai nella pioggia, calmo e a voce bassa. Abbastanza alta per padre Gomst, però, nonché per i morti che infestavano le paludi intorno a noi. Gli raccontai le cose che avevo fatto. Quelle che avrei fatto. Raccontai con serenità tutti i miei piani a coloro che avevano orecchie per sentirli. Allora i morti ci lasciarono.

    «Voi siete il diavolo!». Padre Gomst fece un passo indietro e afferrò la croce che teneva al collo.

    «Se serve». Non mi misi a discutere. «Ma mi sono confessato, e voi dovete assolvermi».

    «Abominio…». La parola gli uscì in un lento respiro.

    «E ben altro», convenni. «Ora assolvetemi».

    Padre Gomst ritrovò infine la lucidità, ma rimase dov’era. «Cosa volete da me, Lucifero?».

    Giusta domanda. «Voglio vincere», dissi.

    Lui scosse la testa, così mi spiegai.

    «Sono riuscito a legare a me alcuni uomini per quello che sono. Altri per quello che farò. Altri ancora hanno bisogno di sapere chi cammina vicino a me. Vi ho dato la mia confessione, mi sono pentito. Ora Dio cammina con me, e voi siete il prete che racconterà ai fedeli che io sono il Suo guerriero, il Suo strumento, la Spada dell’Onnipotente».

    Scese il silenzio, scandito dai battiti del cuore.

    «Ego te absolvo», disse padre Gomst con voce tremante.

    Tornammo indietro lungo la strada e poco alla volta raggiungemmo gli altri. Makin li aveva fatti preparare e mettere in fila. Aspettavano nell’oscurità, con un’unica torcia e la lanterna coperta appesa al carro delle teste.

    «Capitano Bortha», dissi a Makin, «è ora di muoversi. C’è molta strada da fare prima di raggiungere la Costa del Cavallo».

    «E il prete?», chiese lui.

    «Forse faremo una deviazione dopo l’Alto Castello per lasciarlo lì».

    Il mio mal di testa si acuì.

    Forse per via del fatto che avevo permesso a un vecchio fantasma di farsi strada fin dentro le mie ossa, quel giorno avevo delle fitte terribili, come se qualcuno mi pungolasse con un bastone, spingendomi in avanti. La cosa cominciava a farmi veramente incazzare.

    «Penso che in effetti faremo una sosta all’Alto Castello». Strinsi i denti per resistere al pugnale che avevo piantato in testa. «Riporteremo personalmente laggiù il vecchio frate. Sono sicuro che mio padre sarà preoccupato per me».

    Rike e Maical mi fissarono instupiditi. Burlow il Grasso e Kent il Rosso si scambiarono uno sguardo. Il Nubano roteò gli occhi e si mise in guardia.

    Io guardai Makin, alto, con le spalle larghe, i capelli neri stirati dalla pioggia. Lui è il mio cavallo, pensai. Gomst il mio alfiere, l’Alto Castello la mia torre. Poi pensai a mio padre. Avevo bisogno di un re. Non si può giocare la partita senza un re. Pensai a lui e mi sentii bene. Dopo l’incontro con lo spettro, avevo cominciato a riflettere. Questi mi aveva mostrato il suo inferno e io ne avevo riso. Ma in quel momento, pensando a mio padre, scoprii di poter ancora provare paura e ne fui felice.

    Capitolo 7

    Cavalcammo tutta la notte e la Via degli Spettri ci condusse fuori dalle paludi. L’alba ci sorprese a Norwood, tetra e grigia. La città era in rovina. Le sue ceneri ancora emanavano l’aspro filo di fumo che permane quando il fuoco è ormai spento.

    «Il conte di Renar», disse Makin al mio fianco. «È diventato così sfrontato da attaccare apertamente i protettorati di Ancrath». Lasciò cadere le parole come ci si libera di un mantello.

    «Come possiamo sapere chi è stato a causare tanto scempio?», chiese padre Gomst, con il volto grigio come la sua barba. «Forse gli uomini del barone Kennick hanno imperversato lungo la Via degli Spettri. Sono stati loro a imprigionarmi nella gogna».

    I Fratelli si sparpagliarono tra le rovine. Rike prese sottobraccio Burlow il Grasso e scomparve nel primo edificio, che non era altro che un recinto di pietre senza più il tetto.

    «Pezzenti contadini di palude! Proprio come in quella schifosa Mabberton». La violenza della sua ricerca provocò altre proteste.

    Ricordavo Norwood nel giorno della festa, abbellita di nastri. Mia madre camminava con il borgomastro, mentre io e William ricevevamo mele caramellate.

    «Questi però erano i miei pezzenti contadini di palude». Mi voltai verso padre Gomst. «Non ci sono cadaveri. È opera del conte di Renar».

    Makin annuì. «Troveremo la pira nei campi a ovest. Renar brucia tutti insieme, i vivi e i morti».

    Gomst si fece il segno della croce e mormorò una preghiera.

    La guerra è una cosa bella, come ho detto prima, e quelli che dicono diversamente sono gli sconfitti. Sfoderai un sorriso, anche se non mi si addiceva. «Fratello Makin, pare che il conte abbia fatto la sua mossa. È doveroso per noi, Fratelli in arme, apprezzare la sua maestria. Fatti un giro qui intorno, voglio sapere come ha giocato la sua partita».

    Renar. Prima padre Gomst e adesso Renar. Come se lo spettro delle paludi avesse girato una chiave e i fantasmi del mio passato si fossero messi in marcia, uno a uno.

    «Padre Gomst», dissi nel mio tono più cortese. «Ditemi, vi prego. Dove eravate quando gli uomini del barone Kennick vi trovarono?». La storia che il nostro cappellano era stato catturato durante una razzia non aveva senso.

    «Al villaggio di Jessop, mio principe», replicò circospetto, guardando chiunque tranne me. «Non dovremmo proseguire? Nelle nostre terre saremo al sicuro. Le razzie non arriveranno oltre Hanton».

    Giusto, pensai, quindi tu perché ti saresti avventurato nel pericolo?

    «Il villaggio di Jessop? Non credo di averlo mai sentito nominare, padre Gomst», dissi, sempre tranquillo e affabile. «Il che significa che non sarà più grande di tre capanne e un maiale».

    Rike uscì infuriato dalla casa, più nero del Nubano per la cenere che lo copriva, e imprecando. Si diresse verso la porta successiva. «Burlow, bastardo di un ciccione! È colpa tua!». Se il piccolo Rikey non riusciva a fare un po’ di bottino qualcuno doveva farne le spese. Sempre.

    Gomst parve grato di quel diversivo, ma io richiamai la sua attenzione. «Padre Gomst, mi dicevate di Jessop». Gli tolsi le redini di mano.

    «Un villaggio delle paludi, mio principe. Un’inezia. Una miniera di torba per il protettorato. Diciassette capanne e forse una manciata di maiali in più». Tentò una risata, ma gli uscì troppo acuta e nervosa.

    «Quindi voi avete viaggiato fin laggiù per offrire l’assoluzione ai poveri?». Lo fissai negli occhi.

    «Be’…».

    «Oltre Hanton, oltre i confini della palude, andando dritto incontro al pericolo?», dissi. «Siete davvero un sant’uomo, padre».

    Lui chinò il capo.

    Jessop. Il nome fece suonare un campanello. Un campanello dal suono profondo, basso e solenne. «Jessop è il luogo dove le maree della palude portano i morti», dissi. Mi riecheggiarono in testa le parole pronunciate dal vecchio tutore Lundist. Rividi la mappa alle sue spalle, inchiodata al muro dello studio, le correnti segnate in nero. «È una corrente lenta ma inesorabile. La palude mantiene i suoi segreti, ma non per sempre, e Jessop è il luogo in cui li rivela».

    «Quel gigante, Rike, sta strangolando il tipo grasso». Padre Gomst accennò in direzione del villaggio.

    «Mio padre vi ha mandato a osservare i morti». Non permisi a Gomst di distrarmi con delle sciocchezze. «Perché trovaste me».

    La bocca di Gomst articolò un no, ma ogni muscolo del suo corpo diceva . Avrei creduto che i preti sapessero mentire meglio, per via del loro lavoro e tutto il resto.

    «Mi sta ancora cercando? Dopo quattro anni!». Sarebbero bastate quattro settimane per sorprendermi.

    Gomst si spostò indietro sulla sella. Spalancò le mani in un gesto d’impotenza. «La regina è gravida di un figlio. Sageous ha detto al re che sarà un maschio. Dovevo confermarne la successione».

    Ah! La successione. Messa su questo piano era più credibile, conoscendo mio padre. La regina? Quella sì che era una notizia.

    «Sageous?», chiesi.

    «Un leccaossa pagano, nuovo a corte». Gomst sputò fuori quelle parole come se fossero amare al palato.

    La pausa divenne un lungo silenzio.

    «Rike!», dissi. Non gridai, ma parlai a voce abbastanza alta da raggiungerlo. «Lascia andare Burlow il Grasso o dovrò ucciderti».

    Rike lo lasciò e Burlow colpì il suolo con tutti i suoi centocinquanta chili di grasso. Credo che, dei due, Burlow fosse leggermente più rosso in viso, ma di poco. Rike venne verso di noi con le mani protese in avanti, torcendosele come se già me le stesse stringendo intorno al collo. «Tu!».

    Nessun segno di Makin, e padre Gomst sarebbe stato utile come una scoreggia nel vento contro un piccolo Rikey furioso.

    «Tu! Dov’è lo schifosissimo oro che ci hai promesso?». A quella domanda, qualche testa fece capolino dalle finestre e dalle porte. Perfino Burlow sollevò lo sguardo, inspirando come se l’aria gli venisse da una fessura. Lasciai scivolare via la mano dall’elsa della spada. Non è bene sacrificare troppi pedoni. Rike era ormai a una decina di metri. Saltai giù dalla sella di Gerrod e gli carezzai il muso, dando le spalle al villaggio.

    «Ci sono diversi tipi di oro, a Norwood», dissi. A voce abbastanza alta, ma non troppo. Quindi mi voltai e passai oltre Rike. Non lo guardai: se si concede a Rike un attimo, ne approfitta subito.

    «Non venirmi a raccontare di figlie dei contadini, questa volta, piccolo bastardo». Mi seguì ruggendo, ma io lo lasciai sbollire. Ormai erano solo chiacchiere. «Quello schifoso di un conte ha già ammucchiato tutti sul rogo».

    Percorsi la Via Centrale, dirigendomi dalla piazza del mercato verso la casa del borgomastro. Quando gli passammo davanti, fratello Gains alzò lo sguardo dal falò che aveva acceso. Si alzò in piedi per seguirci e godersi lo spettacolo.

    La torre delle granaglie non era mai stata granché, all’apparenza. Ora era ancora meno impressionante, annerita dal fuoco, le pietre rotte dal calore. Prima che fossero distrutti dall’incendio, i sacchi di grano avevano nascosto la botola. La trovai rovistando un po’. Rike aveva sbuffato alle mie spalle per tutto il tempo.

    «Aprila». Indicai l’anello incastonato nella lastra di pietra. Rike non se lo fece dire due volte: si chinò e sollevò la lastra come se fosse stata leggera come una piuma. E lì si trovavano, botte dopo botte, tutte impilate nell’oscurità polverosa.

    «Il vecchio borgomastro teneva la birra della festa sotto la torre delle granaglie. Tutti gli abitanti lo sapevano. C’è un piccolo fiume che scorre là sotto e mantiene tutto fresco e in buone condizioni. Sembrano quanti? Venti, venticinque barili di dorata birra della festa». Sorrisi.

    Rike non ricambiò il sorriso. Stava poggiato su mani e ginocchia e scorreva lo sguardo sulla lama della mia spada. Immaginai quanto dovesse pizzicargli sul collo.

    «Vedi, fratello Jorg, io non volevo…», iniziò. Perfino con la mia spada alla gola aveva quel suo sguardo astioso.

    Makin si avvicinò e venne al mio fianco. Io tenni la lama sul collo di Rike.

    «Sarò anche piccolo, Rikey, ma non sono un bastardo», dissi piano, con il mio tono più crudele. «Giusto, padre Gomst? Se fossi un bastardo, non avreste rischiato l’osso del collo per cercarmi tra i cadaveri, non è vero?».

    «Principe Jorg, lasciate che il capitano Bortha uccida questo selvaggio». Gomst in qualche modo aveva ritrovato il proprio contegno. «Cavalcheremo verso l’Alto Castello e vostro padre…».

    «Mio padre aspetterà, dannazione!», gridai. Ricacciai in gola tutto il resto, arrabbiato per il fatto stesso di essermi arrabbiato.

    Per un momento Rike si scordò della spada. «Che diavolo sono tutte queste stronzate sul principe? E chi sarebbe il capitano Bortha? E quand’è che posso bere questa maledetta birra?».

    A quel punto avevamo raccolto il massimo del pubblico possibile, visto che tutti i Fratelli stavano intorno a noi.

    «Be’», dissi. «Visto che lo chiedi così gentilmente, fratello Rike, te lo dirò».

    Makin mi guardò aggrottando la fronte e strinse la mano sulla spada. Lo tranquillizzai con un cenno.

    «Le stronzate sul capitano Bortha vogliono dire che Makin è il capitano Makin Bortha della Guardia Imperiale degli Ancrath. Le stronzate sul principe stanno a significare che io sono l’amato figlio ed erede di re Olidan della Casa degli Ancrath. E la birra possiamo berla adesso, visto che oggi è il mio quattordicesimo compleanno, e quale modo migliore di brindare alla mia salute?».

    *

    Ogni fratellanza ha la sua gerarchia.

    In questa fratellanza nessuno vuole essere all’ultimo posto.

    Esiste la possibilità di essere degradato fino alla morte.

    Fratello Jobe aveva il giusto miscuglio

    di umiltà e rabbia per poter sopravvivere a ciò.

    *

    Capitolo 8

    Così sedemmo sulle pietre rotte della casa del borgomastro e bevemmo la birra. I Fratelli bevevano molto e invocavano il mio nome. Alcuni dicevano fratello Jorg, altri principe Jorg, ma tutti adesso mi guardavano con occhi diversi. Rike mi osservava, la barba grondante di schiuma e il collo che portava il segno della mia spada. Lo immaginavo mentre soppesava la situazione, un lento balletto di possibilità che si facevano strada sulla sua fronte bassa. Non aspettai che la parola riscatto venisse a galla.

    «Mi vuole morto, piccolo Rikey», dissi. «Ha mandato il vecchio Gomst a cercare una prova della mia morte, non a cercare me. Ora ha una nuova regina».

    Rike fece un ghigno che conteneva più cipiglio che sorriso, quindi obiettò con vigore. «Sei fuggito da un castello pieno di oro e donne per cavalcare con noi? Quale idiota farebbe una cosa simile?».

    Sorseggiai la mia birra. Era amara, ma andava bene così. «Un idiota conscio del fatto che non vincerà mai la guerra con la guardia del re al proprio fianco», dissi.

    «Quale guerra, Jorg?». Il Nubano sedeva vicino a me, senza bere. Parlava sempre piano e con tono serio. «Vuoi sconfiggere il conte? Il barone Kennick?»

    «La guerra», risposi. «Tutta».

    Kent il Rosso ci raggiunse allontanandosi dai barili con l’elmo traboccante di birra. «Non succederà mai», disse. Sollevò l’elmo e ne vuotò la metà in quattro sorsi. «E così sei il principe degli Ancrath? Un regno dalla corona di rame. Devono essere una dozzina quelli che hanno qualche scusa per rivendicare il trono. Ognuno con la sua armata».

    «Direi più una cinquantina», ringhiò Rike.

    «Quasi cento», dissi io. «Li ho contati».

    Cento frammenti di un impero che si consumavano l’un l’altro in un interminabile ciclo di guerre, faide, battaglie, espandersi di regni, ridursi ed espandersi di nuovo; vite intere spese in conflitti e mai nulla che cambiasse. Ma sarebbe cambiato con me, con la mia vittoria finale.

    Finii la birra e mi alzai per cercare Makin.

    Non dovetti cercare a lungo: lo scovai tra i cavalli, mentre controllava il suo stallone, Saltafuoco.

    «Cos’hai trovato?», gli chiesi.

    Makin fece una smorfia di disapprovazione. «Ho trovato la pira. Circa duecento persone, tutti morti. Non l’hanno accesa però, probabilmente si sono preoccupati». Indicò verso ovest. «Sono venuti a piedi, dalla strada delle paludi, lungo quel crinale laggiù. Avevano circa una ventina di arcieri nel boschetto lungo il fiume, per intercettare chi avesse cercato di fuggire».

    «Quanti uomini, nel complesso?», chiesi.

    «Probabilmente un centinaio. Quasi tutta fanteria». Sbadigliò e si passò una mano sulla faccia. «Due giorni fa. Siamo abbastanza al sicuro».

    Sentii il graffio di spine invisibili, uncini affilati nella mia pelle. «Vieni con me», gli dissi.

    Makin mi seguì fino all’uscio e ai pilastri crollati della casa del borgomastro. I Fratelli avevano fatto aprire a Maical una seconda botte.

    «Salve, capitano!», gridò Burlow a Makin con la voce ancora roca per la stretta di Rike. Si levò una risata a quel saluto, e io attesi che si spegnesse. Sentii ancora le spine, profonde e appuntite. Mi stavano preparando a qualcosa. Duecento corpi su una catasta. Tutti morti.

    «Il capitano Makin dice che presto avremo compagnia», dissi.

    Makin inarcò le sopracciglia al mio annuncio, ma io lo ignorai. «Venti spade, gente tosta, banditi della peggior specie. Non il tipo di persone che vorreste incontrare», dissi ai Fratelli. «Vagano pigri nella nostra direzione, appesantiti dal bottino».

    Rike si alzò in piedi di scatto, la mazza gli tintinnò contro il fianco. «Bottino?»

    «Sono lenti, vi dico. Si arricchiscono massacrando gli altri». Sorrisi. «Be’, Fratelli, gli faremo vedere dove sbagliano. Li voglio morti, fino all’ultimo. E dovremo farlo senza farci male. Voglio delle trappole sulla strada principale. Voglio dei Fratelli nascosti nella torre delle granaglie e nella Locanda del Cinghiale Blu. Voglio Kent, Row, l’Infame e il Nubano qui, dietro queste mura, per abbatterli quando passeranno tra la torre e la taverna».

    Il Nubano sollevò la sua balestra, un grandioso capolavoro di ingegneria, realizzata in metallo antico e ornata con volti di strani dèi. Kent svuotò l’elmo dalla sporcizia e se lo mise in testa, pronto con il suo arco.

    «Potrebbero anche arrivare dal crinale, quindi Rike andrà con Maical e altri sei a nascondersi nelle rovine della conceria. Lasciate passare tutti quelli che arrivano da quella strada, poi fateli a pezzi. Makin sarà la nostra vedetta e ci darà il segnale. Il buon padre rimarrà qui e voi cinque verrete con me per attirarli dentro la cittadella».

    Ai Fratelli non servivano parole. Be’, a Jobe sì, ma Rike lo strappò subito alla sua birra, e non fu gentile con lui.

    «Bottino!», gli urlò in faccia. «Vai a scavare le trappole, coglione».

    Quei ragazzi sapevano come preparare un’imboscata senza commettere errori. Nessuno sapeva lottare meglio di loro in mezzo alle rovine. Avrebbero passato la metà del tempo a produrre loro stessi quelle rovine, combattendo contro qualcuno nell’altra metà.

    «Burlow, Makin», chiamai mentre gli altri si occupavano dei loro compiti. «Non mi serve che tu faccia da vedetta, Makin», dissi a bassa voce. «Voglio che voi due andiate nel boschetto lungo il fiume. Voglio che vi nascondiate. Mimetizzatevi così bene che qualcuno potrebbe sedersi su di voi senza riuscire a vedervi. Nascondetevi lì e aspettate. Saprete cosa fare».

    «Principe… Fratello Jorg», disse Makin. Aveva un’aria molto perplessa e i suoi occhi continuavano ad andare lungo la strada, fino al vecchio padre Gomst che pregava davanti alla chiesa bruciata.

    «Hai detto che mi avresti seguito ovunque, Makin», risposi. «È qui che cominciamo. Quando scriveranno la leggenda, questa sarà la prima pagina. Qualche vecchio monaco diverrà cieco per miniarla, Makin. Qui tutto ha inizio». Tuttavia non specificai che il libro avrebbe potuto essere molto corto.

    Makin fece quel suo inchino che voleva essere un cenno di assenso e si allontanò, seguito in fretta da Burlow.

    Quindi i Fratelli approntarono le trappole, prepararono le frecce e si nascosero tra quel poco che rimaneva di Norwood. Li guardai maledicendo la loro lentezza, ma rimasi tranquillo. Poco a poco rimanemmo sulla scena solo io, padre Gomst e i cinque che avevo preso con me. Tutti gli altri, poco più di due dozzine, erano nascosti tra le rovine.

    Padre Gomst mi venne vicino, continuando a pregare. Mi chiesi quanto intensamente avrebbe pregato se avesse saputo davvero cosa stava giungendo.

    La testa mi faceva male, come se due uncini fissati dietro agli occhi mi stessero strattonando. Lo stesso dolore che avevo iniziato a provare quando il sospiro del vecchio Gomst mi aveva suggerito l’idea di tornare a casa. Un dolore familiare, che più di una volta avevo sentito sulla mia strada. Spesso avevo permesso a quella sofferenza di dirigere le mie azioni,

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