Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La cospirazione degli Illuminati - Il sigillo dei tredici massoni - La chiave di Dante
La cospirazione degli Illuminati - Il sigillo dei tredici massoni - La chiave di Dante
La cospirazione degli Illuminati - Il sigillo dei tredici massoni - La chiave di Dante
E-book1.257 pagine15 ore

La cospirazione degli Illuminati - Il sigillo dei tredici massoni - La chiave di Dante

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Tradotto in tutta Europa
A vertici delle classifiche in Italia

Grandi thriller
3 romanzi in 1

Quello degli Illuminati per voluntatem Dei è il segreto meglio custodito della storia.
Uomini privi di scrupoli, legati da un voto di omertà e silenzio, nell’ombra tessono trame che decidono le sorti del mondo. E tra misteri da svelare, intrighi da risolvere, cospirazioni da smascherare, la vita stessa di chi indaga su di loro è in pericolo. 
La cospirazione degli Illuminati ha inizio con un terribile incendio che distrugge la Sacra Sindone a Torino. È il primo tassello di un puzzle che mette insieme le alte sfere vaticane, il presidente dello IOR, trafficanti d’armi e alcune cellule terroristiche islamiche. 
Il sigillo dei tredici massoni racconta un’indagine tra Italia ed Europa, sulle tracce di un misterioso omicidio avvenuto a Castel Sant’Angelo. 
E di nuovo dal Vaticano prende le mosse l’intreccio di La chiave di Dante: il curatore dei Musei Vaticani si è davvero suicidato? O è soltanto un’abile messa in scena creata ad arte dall’assassino? 

Quale segreto nascondono gli Illuminati?

«Una bella storia di selfpublishing all’italiana.»
Il Giornale

«Terrorismo, alta finanza, Sacra Sindone, Vaticano, e le Guardie svizzere. Cosa si crea unendo questi elementi? Un capolavoro di tensione e intrighi made in Italy.»

«Dove c’è mistero, complotto, scienza e teologia ben amalgamati e conditi come solo Barone sa fare, non si rimane mai delusi e, anzi, si resta sempre piacevolmente soddisfatti!»

«I personaggi hanno una loro identità, tridimensionalità... Tutto ciò li rende solidi: non vi sono eroi allo sbaraglio, né cattivi da operetta ma figure credibili, perfettamente immerse nel loro mondo.»
G. L. Barone
Nato a Varese nel 1974, ha una laurea in giurisprudenza, è appassionato di economia e nel tempo libero suona in un gruppo heavy metal. I suoi libri sono tradotti nei Paesi di lingua anglosassone, portoghese e spagnola. Per la Newton Compton ha pubblicato La cospirazione degli Illuminati, Il sigillo dei tredici massoni, La chiave di Dante, il serial ebook Il tesoro perduto dei templari e uno dei racconti della raccolta Sette delitti sotto la neve.
LinguaItaliano
Data di uscita15 mar 2016
ISBN9788854192065
La cospirazione degli Illuminati - Il sigillo dei tredici massoni - La chiave di Dante

Leggi altro di G. L. Barone

Correlato a La cospirazione degli Illuminati - Il sigillo dei tredici massoni - La chiave di Dante

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su La cospirazione degli Illuminati - Il sigillo dei tredici massoni - La chiave di Dante

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La cospirazione degli Illuminati - Il sigillo dei tredici massoni - La chiave di Dante - G. L. Barone

    1172

    Prima edizione ebook: marzo 2016

    © 2013, 2014, 2015, 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9206-5

    www.newtoncompton.com

    G. L. Barone

    La cospirazione degli Illuminati

    Il sigillo dei tredici massoni

    La chiave di Dante

    Newton Compton editori

    La cospirazione degli Illuminati

    Giuro di servire fedelmente, lealmente e

    onorevolmente il Sommo Pontefice e i suoi

    legittimi successori, come pure di dedicarmi

    a loro con tutte le forze, sacrificando, ove

    occorra, anche la vita per la loro difesa.

    Giuramento delle Guardie Svizzere

    Egli allora, comprato un lenzuolo, lo calò

    giù dalla croce e, avvoltolo nel lenzuolo, lo

    depose in un sepolcro scavato nella roccia.

    Marco 15,46

    La Sacra Sindone – il telo che secondo la tradizione avvolse il corpo di Gesù dopo essere stato calato dalla croce – è custodita all’interno di una teca di cristallo nel duomo di Torino. Nel 1988 vennero prelevati tre campioni di tessuto perché fossero sottoposti all’esame del radiocarbonio e determinarne la datazione.

    I tre laboratori indipendenti di Oxford, Zurigo e Tucson pervennero al medesimo risultato: il Sacro Lino non poteva avere avvolto il corpo di Cristo perché risale al tredicesimo o quattordicesimo secolo, tra il 1260 e il 1390 d.C.

    Nonostante il metodo del carbonio 14, usato per la datazione, sia scientificamente irrefutabile, persistono tutt’oggi numerosi dubbi sull’attendibilità dell’esame del 1988.

    Ufficialmente, da allora, nessun altro test è più stato effettuato sulla Sacra Sindone.

    Città del Vaticano

    Personaggi

    Personaggi principali

    Andreas Henkel - Ex agente del Servizio di Sicurezza cecoslovacco

    Stella Rosati - Procuratore aggiunto di Roma

    Curt Weistaler - Comandante della Guardia Svizzera

    Flavio Osios, il Greco - Trafficante d’armi

    Stefano Liguori - Agente dell’Ispettorato Vaticano

    Marco Lo Schiavo - Agente dell’Ispettorato Vaticano

    Personaggi della Città del Vaticano

    Eduardo Rodrigo Himenez - Segretario di Stato Vaticano

    Luciano Spada - Presidente dello IOR

    Attilio Sacconi - Comandante della Gendarmeria Vaticana

    Carlo De Medici - Vice Comandante della Gendarmeria Vaticana

    Camillo Perrone - Arcivescovo di Torino

    Altri personaggi (ordine alfabetico)

    Clemente D’Oria - Presidente del Banco di Ivrea

    Ernesto De La Cruz - Petroliere argentino

    Lorenzo Fossati - Pubblico ministero

    Jin Hawang - Armatore coreano

    Robert Maina - Avvocato di Santa Monica

    Massimo Mancini - Funzionario della polizia di Torino

    Carlo Maria Rosati - Deputato, padre di Stella

    Hay Shin Yang - Ricercatore coreano

    Doo Woong Yoo - Scienziato coreano

    1

    Gennaio, quattro mesi prima della morte di Weistaler

    L’auto era ferma con il motore acceso lungo il marciapiede di piazza Castello. Nevicava. Era il 4 gennaio e Curt Weistaler se ne stava seduto sul sedile ad attendere che dalla penombra di un porticato comparisse una figura umana.

    Da poco si era fatto buio e la neve, che per tutto il pomeriggio aveva risparmiato Torino, cominciava a depositarsi sulle strade e sui tetti delle case con maggiore insistenza.

    Lo sportello posteriore dell’Audi si aprì ed entrò un giovane dai capelli rossi.

    «Queste sono le chiavi d’accesso di oggi», dichiarò senza neppure salutare. Il ragazzo mostrò a Weistaler un pezzetto di plastica nero, grande come un’unghia.

    Prima di porgere la mano, quello che appena due mesi dopo sarebbe divenuto il nuovo comandante della Guardia Svizzera Pontificia, osservò bene il giovane: indossava una giacca a vento azzurra, completamente lisa sul collo e sui gomiti, e si copriva il volto con una voluminosa sciarpa color ciliegia. Aveva i capelli corti e occhi di un azzurro chiaro che sbucavano da sopra la sciarpa. Non aveva nulla di interessante da offrire.

    Weistaler prese la scheda di memoria micro SD, quasi facendo attenzione a non sfiorare la mano del ragazzo, e la infilò nell’apposito slot del suo fidato Next M1, lo smartphone dal quale non si separava mai.

    Furono necessari pochi secondi perché ottenesse la risposta che stava cercando: lo schermo multitouch si illuminò e comparve in automatico l’immagine di una piccola applicazione di verifica. Sembrava tutto a posto.

    «Aspetta qui!», ordinò in un italiano dal forte accento germanico.

    Scese dalla macchina, per controllare che nessuno avesse seguito il Rosso e, quasi scivolando sulla neve che aveva coperto il marciapiede, andò ad aprire il bagagliaio dell’Audi. Ne estrasse una busta di plastica, rifece il giro dell’auto e tornò a sedersi sul sedile del guidatore.

    «Sai qual è la cosa più importante?», chiese al giovane osservandolo dallo specchietto retrovisore.

    «Immagino la discrezione», rispose secco il ragazzo dai capelli rossi.

    Non era troppo attraente, ma sembrava sveglio. Lavorava come inserviente in una bella abitazione che si affacciava su piazza San Giovanni. Sapeva osservare e memorizzare, e quello che Weistaler aveva visto in lui lo aveva appena ripagato di due codici alfanumerici da sedici cifre ognuno.

    «Ricorda che so dove trovarti». A quel punto si girò e lo guardò dritto negli occhi.

    Il ragazzo non sembrò per nulla intimorito e allungò la mano. Weistaler, dopo una finta esitazione, gli mise in mano la busta che aveva estratto dal bagagliaio.

    «Io non l’ho mai vista», confermò il giovane sorridendo, mentre controllava velocemente il contenuto della busta. Quando fu certo di avere ottenuto quello che aveva chiesto, uscì dall’auto con la stessa discrezione di quando era arrivato e sparì sotto il porticato di piazza Castello.

    Weistaler indugiò ancora diversi istanti sul telefono, poi lo spense e lo ripose nel giubbotto. Inserì la marcia e l’Audi imboccò via Pietro Micca.

    La geometria delle strade di Torino gli ricordava un po’ quella di New York: tutte le vie formavano un reticolo di verticali e orizzontali e le strade che attraversavano la città in diagonale, come la Broadway della Grande Mela, erano poche. Una di quelle era via Micca.

    La percorse tutta, slittando sulla neve, poi svoltò in direzione del duomo.

    2

    All’incirca nello stesso istante in cui Curt Weistaler verificava il contenuto della minuscola scheda di memoria pagata a peso d’oro, Andreas Henkel era seduto davanti al computer nella sua stanza d’albergo.

    Da diversi anni lavorava per il Servizio Segreto Vaticano, meglio conosciuto come SSV. Era un uomo minuto con un paio d’occhiali senza montatura appiccicati davanti a uno sguardo vigile.

    Nato a Praga quarantacinque anni prima, aveva vissuto quasi tutta la sua giovinezza nella Germania dell’Ovest, dove suo padre gestiva importanti affari per il governo cecoslovacco. Nonostante fosse cresciuto oltre la cortina di ferro, era stato educato secondo i princìpi del partito e dell’ideologia marxista. Era rientrato nella patria natia poco più che adolescente e in piena guerra fredda, quando le condizioni politiche, al di là del muro di Berlino, erano mutate. Aveva frequentato l’università statale nella capitale e dopo la laurea, come spesso accade alle menti brillanti – ma soprattutto ai predestinati di famiglia – gli era stata offerta la possibilità di servire il suo Paese. Lui aveva accettato e l’STB, il Servizio di Sicurezza cecoslovacco, era diventato la sua seconda famiglia.

    Si alzò dalla sedia e andò alla finestra per vedere quella che quasi tutti consideravano la più bella piazza di Torino. I palazzi secenteschi di piazza San Carlo, dalle ricche facciate color crema, riposavano immobili sotto la neve. La serie interminabile di finestre e balconi superbamente decorati, e allineati senza interruzione sui due lati più lunghi, rifletteva la strana luce giallognola dei lampioni. Il silenzio era irreale, sembrava di osservare un quadro raffigurante l’immenso monumento equestre proprio sotto la sua finestra. Solo due taxi, uno dietro l’altro, percorrevano la piazza in senso longitudinale.

    La missione, sulla carta, era semplice, ma aveva l’impressione di avere tralasciato qualche dettaglio. I movimenti erano stati programmati con maniacale precisione, e lo stesso Weistaler – che di lì a pochi minuti gli avrebbe inviato l’email cifrata di conferma – gli aveva garantito che se il piano fosse stato eseguito nel dettaglio, tutto sarebbe andato per il verso giusto.

    A Henkel, Weistaler non piaceva affatto. Nonostante lo svizzero fosse innegabilmente un uomo elegante, dall’aspetto sempre ben curato, ciò che lo preoccupava era una costante sensazione di instabilità che aveva dimostrato più volte: sarebbe stato senza dubbio capace di sgozzare una persona e, il momento successivo, raccogliersi in preghiera per chiedere perdono a Dio. Era un uomo che aveva una visione distorta della religione. E non solo di quella.

    Era cresciuto tra i luterani e, nonostante questo, si professava fedele alla Santa Romana Chiesa: di fatto una contraddizione vivente.

    Lo schermo del computer uscì dallo stato d’inattività nel quale era stato negli ultimi minuti e mostrò un’icona saltellante che raffigurava un francobollo racchiuso tra le ali di un’aquila. Un effetto sonoro appena percettibile confermò la ricezione di un nuovo messaggio email cifrato.

    Inforcò gli occhiali che aveva appoggiato sulla tastiera del portatile e lesse il messaggio: «Confermato».

    Era ciò che attendeva.

    Indossò un giubbotto con la cerniera e scese nel parcheggio.

    3

    La sede dell’Istituto per le Opere di Religione si trova nel torrione di Niccolò V, un bunker con muri spessi nove metri a pochi passi dalla porta vaticana di Sant’Anna.

    Quella sera Luciano Spada se ne stava pensieroso seduto alla sua scrivania, in uno studio illuminato solo dalla lampada da tavolo. Il silenzio era interrotto solo dal ritmico ticchettio dell’orologio a pendolo e dall’eco lontana del traffico di Roma. Fuori dalla porta stazionavano stabilmente due guardie svizzere, ma per il resto l’edificio era semivuoto.

    Ricopriva la carica di presidente dello IOR da quasi tre anni, ed era uno dei primi laici a sedere in quell’ufficio dalle pareti porpora e dalle superbe librerie in rovere.

    Era nato a Lugano sessantotto anni prima e nella sua lunga carriera nel mondo della finanza aveva avuto l’occasione di occupare poltrone di gran prestigio: era stato al vertice dell’Unione Banche Svizzere, fino al 1986, e presidente del Banco di Ivrea per un quindicennio, fino a tre anni prima. Aveva presieduto due società chiave per gli affari vaticani, una lussemburghese e una con sede fiscale nelle isole Cayman, e sedeva tuttora nel consiglio d’amministrazione di tredici società.

    Nonostante l’età e i molti successi professionali, non si era però stancato del suo lavoro. Era sempre lo stesso uomo, deciso e sicuro di sé. Sapeva cosa desiderava e come ottenerlo.

    Di certo avrebbe dovuto ringraziare suo padre, un immigrato italiano che dopo la seconda guerra mondiale aveva comprato un’edicola nella svizzera italiana: quell’uomo aveva sempre creduto in lui e, con sforzi inimmaginabili, era riuscito a pagare al suo unico figlio la retta alla facoltà di Economia presso la prestigiosa Università Bocconi di Milano.

    Il resto, il Figlio del Giornalaio, così come lo avevano soprannominato alcune personalità del mondo della finanza, lo aveva fatto da solo, anche grazie alla sua intelligenza, che tutti consideravano fuori del comune.

    Il cellulare fece solo due squilli e il presidente dello IOR rispose.

    «Tutto confermato», disse qualcuno all’altro capo del telefono. Era una voce autorevole e il tono lasciava immaginare un interlocutore avanti con gli anni. Tuttavia sembrava camuffata da qualche dispositivo elettronico.

    «Qual è la cifra esatta?», chiese. Naturalmente conosceva già la risposta, anche perché gli era stato recapitato il solito foglietto con l’ordine, ma vista l’entità era meglio accertarsene ancora una volta.

    «Trentotto milioni», confermò la voce.

    «Devo aspettarmi problemi dopo questa sera?», replicò Spada.

    All’altro capo del telefono ci fu un istante di silenzio.

    «Non ti preoccupare, non sono un correntista qualunque», rispose la voce.

    «Infatti. Se lo fossi non mi preoccuperei».

    «Fai partire il pagamento e ovviamente trattieni la tua percentuale», tagliò corto il suo interlocutore.

    Luciano Spada non poté rispondere perché la comunicazione si interruppe bruscamente.

    Ormai era in ballo. Non si poteva più tirare indietro e, in ogni caso, non avrebbe mai potuto dire di no.

    Voci di stampa avevano recentemente ipotizzato un suo coinvolgimento in un affare di riciclaggio di denaro proveniente dall’ex Jugoslavia. Nonostante le pendenze giudiziarie che lo riguardavano fossero numerose ed eterogenee, Luciano Spada non aveva peli sullo stomaco; se anche un fondamento di verità poteva esserci, qualche causa non lo spaventava di certo.

    Nelle casse dello IOR si vociferava ci fossero più di cinque miliardi di euro, ma lui sapeva benissimo che quelle stime erano state fatte notevolmente al ribasso. Non si diventa presidente dello IOR senza fare qualche giocata sporca, ma quella era probabilmente troppo grossa.

    In pochi minuti, davanti allo schermo piatto del suo terminale, compì l’operazione che gli era stata richiesta, dirottando trentotto milioni di euro dalle casse vaticane in quattro conti correnti sparsi in altrettanti angoli della terra.

    Era sua la gestione degli affari della banca, anche se formalmente il controllo della sua attività era affidato a un collegio cardinalizio presieduto dal segretario di Stato Vaticano, il cardinale argentino Eduardo Rodrigo Himenez. Con ogni probabilità il porporato, a causa dei molti impegni, non avrebbe nemmeno letto la relazione annuale e certamente non gli avrebbe creato problemi.

    Finita l’operazione, la ripeté da capo, questa volta trasferendo una cifra di poco inferiore ai due milioni di euro direttamente su un suo conto corrente privato. Non stava rubando quei soldi, e di questo era consapevole anche l’anziano che aveva appena chiamato al cellulare: si trattava solo del compenso per il servigio reso.

    Spada uscì dalla sede dello IOR poco dopo le dieci di sera – subito dopo un’ultima telefonata – più contento e di poco più ricco.

    A pochi metri dal torrione di Niccolò V, in un furgone parcheggiato lungo via dei Corridori, quattro figuri in abito scuro avevano appena finito di ascoltare le sue telefonate. La voce camuffata non era stata riconosciuta, ma in ogni caso il telefono di Spada, i suoi movimenti e le sue operazioni bancarie erano costantemente monitorate.

    All’incirca nello stesso momento, dall’altra parte del globo, per la precisione a Santa Monica in California, Robert Maina, avvocato cinquantenne di bella presenza e d’indubbio valore, stava entrando presso la corte civile del tribunale con un dossier riguardante proprio Spada.

    4

    L’auto di Andreas Henkel procedeva lenta sulla strada innevata: era un grosso fuoristrada americano con cambio automatico e gomme chiodate. Per quanto avesse pianificato quella nottata, l’agente del Servizio Segreto Vaticano non poteva certo immaginare che proprio la sera cruciale della missione gli sarebbero servite le quattro ruote motrici per muoversi agilmente in una Torino gelata e deserta. Era stato fortunato, come al solito.

    Nonostante avesse un indubbio fascino, Henkel non era un bell’uomo: il viso era segnato da lineamenti duri e squadrati, la pelle era pallida e ruvida, gli occhi profondi e scuri; capelli neri corti pettinati a spazzola e statura nella media. Nel complesso, però, aveva un’aria del tutto rassicurante che gli aveva consentito di ottenere lusinghieri risultati, come lui stesso amava definirli, con molte delle donne con le quali aveva avuto a che fare, per lavoro o per diletto.

    Erano da poco passate le nove di sera quando l’auto si fermò lungo il marciapiede di via San Domenico, molto vicino in linea d’aria al duomo di Torino, esattamente di fronte al museo della Sacra Sindone.

    Un prelato avvolto in un lungo cappotto nero lo stava aspettando dietro una porta a vetri. Appena l’auto arrestò il motore, uscì dalla penombra e sotto la neve si avvicinò al fuoristrada. L’uomo rimase in piedi, con l’ombrello aperto, accanto all’auto. Henkel abbassò il finestrino e lo squadrò dalla testa ai piedi.

    «Salga!», ordinò.

    Il prete non si mosse di un centimetro e recitò la frase che si era preparato. «Hanno appena finito il sopralluogo».

    «Immagino tutto bene», rispose Henkel sorridendo. Voleva dimostrare più sicurezza di quella che realmente aveva.

    «Stiamo facendo la cosa giusta?», chiese il prelato.

    «Non sarebbe qui se non lo pensasse».

    Il prete sollevò una valigetta in metallo grigio e la porse attraverso il finestrino all’agente del Vaticano. Henkel afferrò la valigetta con entrambe le mani e la depositò sul sedile del passeggero, poi consegnò all’uomo un dispositivo nero poco più grande di una moneta da un centesimo.

    «Sa cosa fare. Ha meno di mezz’ora!», concluse.

    Non attese la risposta. Chiuse il finestrino, inserì la marcia ridotta e si diresse nuovamente verso piazza San Carlo.

    Il prete rimase immobile osservando l’auto che si allontanava poi, dopo un lungo sospiro, con il trasmettitore GPS stretto nella mano si mosse a passo svelto verso il duomo.

    5

    Weistaler fermò la sua Audi proprio dietro un furgone nero e scese agilmente dall’auto.

    Mentre passava accanto alla fiancata e saliva dal lato del passeggero, gli parve di vedere quello che stava succedendo dentro al duomo, a pochi metri da lui: un giovane sacerdote, tenendo tra le dita un pezzetto di ferro grande poco più di una moneta, stava aprendo la teca di cristallo che conteneva la Sacra Sindone.

    Se tutto era andato secondo i piani, ormai la valigetta doveva essere nella mani di Henkel.

    Alla guida del furgone c’era un gigante di origine greca che aveva detto di chiamarsi Flavio Osios. Nessuno, vedendo i due uno vicino all’altro, avrebbe potuto immaginare che il Greco, solo quattro mesi dopo, lo avrebbe brutalmente assassinato con un colpo di pistola alla tempia.

    Weistaler si scrollò la neve dal loden blu e chiuse lo sportello.

    «Tutto okay?».

    Osios sorrise, ma nel suo sorriso non c’era nulla di tranquillo. «Non è mai uscito di casa», mormorò tra i denti. «Meglio così, no?»

    «Andiamo, allora», rispose Weistaler.

    Il Greco non si considerava un uomo cattivo, né tantomeno un terrorista. Gli piaceva pensarsi come un professionista freelance che va dove c’è bisogno dei suoi servigi. Poco importava chi fosse il datore di lavoro e quali fini avesse. Lui lavorava per i soldi. Quelli che gli erano mancati in tutta la sua infanzia. E non il denaro per comprarsi, come i suoi coetanei, abiti o scarpe alla moda, ma perfino quello per mettere il pane sotto ai denti.

    Era figlio di un ex marinaio greco e di una nullafacente italiana. Due morti di fame che avevano passato la loro vita stravaccati sul divano di quel tugurio che chiamavano casa. Li ricordava come due parassiti e li aveva abbandonati appena ne aveva avuto l’opportunità. Da quando aveva diciassette anni non li aveva neppure più sentiti. Chissà se erano ancora vivi.

    Tutto quello che era, lo doveva solo a se stesso: poco più che adolescente, alla fine degli anni Settanta, si era autofinanziato con piccoli furti nella sua Trieste e poi, dopo un anno di carcere minorile, era passato alla caccia grossa diversificando i suoi affari; dietro le sbarre si era reso conto di avere una gran fortuna, cioè di vivere in una zona che conosceva alla perfezione, molto vicina al confine con la Jugoslavia.

    Certamente era stato aiutato dai cosiddetti anni di piombo e dalle ottime pistole di fabbricazione jugoslava. Il suo apporto personale, però, non era stato da poco: oltre che in Italia, aveva messo piede anche in tutti i teatri di guerra del Medio Oriente negli anni Ottanta. Aveva venduto pistole e fucili acquistati dai suoi vicini comunisti e quando occorreva aveva fatto anche il mercenario. Con il tempo, nell’ambiente si era perfino guadagnato la fama di uomo fidato e di buon comando.

    Osios e Weistaler attraversarono piazza San Giovanni a piedi e velocemente. Si fermarono davanti al portone del palazzo di fronte al duomo, proprio accanto alle vetrine sprangate della Regia farmacia XX Settembre. Era lo stesso portone nel quale lavorava il giovane dai capelli rossi che aveva fornito le chiavi numeriche a Weistaler. Senza curarsi di non fare rumore, salirono lungo la scalinata interna e arrivati al secondo piano suonarono il campanello.

    Il presidente della Commissione per la Conservazione della Sacra Sindone aveva sentito un gran frastuono per le scale e adesso se ne stava immobile nell’ingresso del suo appartamento. Era un uomo basso, pelato e di mezz’età.

    Il campanello suonò di nuovo e poi ancora.

    Furono necessari diversi squilli prima che si decidesse. Si avvicinò allo spioncino e cercò di osservare i due sconosciuti. Non riusciva a vederli bene, il vano scala era buio. Poteva essere qualcuno che aveva bisogno di lui?

    Per scrupolo, mise la catenella alla porta e aprì una piccola fessura per potere osservare meglio. Non fece in tempo neppure ad aprire la bocca che uno spintone lo fece barcollare all’indietro. La piccola catena fu scardinata dal muro e la porta venne spalancata.

    Osios e Weistaler entrarono senza convenevoli e si piazzarono davanti al prete. La casa era nella penombra ma si riusciva a distinguere il pavimento di marmo coperto da preziosi tappeti. Alle pareti dell’ingresso s’intravedevano quadri raffiguranti preti e cardinali.

    «Si vesta!», ordinò Osios. «Lei viene con noi!».

    «Chi siete?», chiese il prete terrorizzato.

    «Amici», rispose Weistaler. Poi aggiunse: «Faccia quello che le diciamo e nessuno si farà male».

    L’uomo non si mosse di un centimetro, paralizzato dalla paura. Sembrava stesse per avere una crisi respiratoria.

    Era stato uno stupido ad aprire la porta, anche solo per guardare.

    Weistaler incrociò lo sguardo di Osios. Il Greco estrasse una Luger calibro .9 di fabbricazione jugoslava e la puntò contro il prete.

    «Vi darò tutto quello che volete», provò a balbettare, fraintendendo completamente il motivo della presenza di quegli estranei in casa sua. «Non fatemi del male».

    Pronunciò quelle parole soffocando un singhiozzo.

    Osios si avvicinò e lo prese sotto braccio. «Vieni con noi e non ti accadrà nulla».

    In quel momento la paura lo fece reagire in modo scomposto: il prete cominciò ad agitarsi e divincolarsi. Strattonò Weistaler ma nonostante gli sforzi non riuscì a liberarsi dalla presa. Non appena capì che non c’era via di scampo, fece quello che chiunque, nella sua situazione, avrebbe fatto: si mise a urlare.

    Il rumore, in condizioni normali, avrebbe anche potuto sortire gli effetti sperati, facendo accorrere qualche vicino di casa, ma quella sera il palazzo era semideserto a causa delle festività di fine anno. Le urla non furono né troppo rumorose né troppo insistenti. Cessarono quando Weistaler mise sulla bocca del presidente della Commissione un panno imbevuto di una sostanza a base di cloroformio.

    Il prete perse i sensi quasi all’istante.

    Osios e Weistaler lo presero di peso e lo trascinarono giù per le scale.

    Piazza San Giovanni era illuminata dalla luce giallognola dei lampioni che dava alla neve che ancora cadeva una strano colore da fotografia seppiata.

    I due la attraversarono rapidi sino ai gradini del duomo. A un osservatore inconsapevole, la scena sarebbe potuta sembrare quasi normale: un ubriaco sorretto da due persone. La cosa strana era però l’abbigliamento dell’ubriaco, che invece di indossare degli abiti consoni alla serata nevosa, scarponi e magari un giubbotto, era vestito solo con una vestaglia, un pigiama e un paio di pantofole.

    Il portone del duomo era già stato aperto da Osios prima dell’arrivo del collega. Dopo aver disattivato il sistema d’allarme, il Greco aveva lasciato alcuni attrezzi e un grosso contenitore di alluminio lungo la navata. Poi aveva socchiuso il battente così che al loro arrivo non sarebbero stati costretti a indugiare sulla serratura.

    Entrarono in piena oscurità aiutati da due visori all’infrarosso. Il duomo di Torino era una chiesa spoglia. Weistaler c’era già stato diverse volte e l’impressione che aveva avuto era sempre stata di un senso di povertà. Era lontana anni luce dagli sfarzi di Roma.

    La navata centrale era riempita fino all’inverosimile di panche in legno mentre le uniche opere d’arte, se così si potevano definire, erano alcune statue, posizionate nelle due navate laterali, e quattordici quadretti raffiguranti le cappelle della via crucis.

    Weistaler e Osios trascinarono il prete lungo la navata centrale con l’aiuto dei visori a infrarossi. In fondo, dietro l’altare, s’intravedeva la gigantografia della cappella del Guarini, la prima casa della Sindone, ancora in restauro dopo l’ultimo incendio del 1997.

    La Sacra Sindone era adesso custodita dietro un vetro spesso due dita sulla sinistra della navata. La cappella, con i suoi drappi rossi, colonne e balconate d’oro che arrivavano fino alla volta, era la parte più preziosa di tutta la chiesa.

    Le passarono accanto e percorsero i pochi metri dell’abside fino a una paratia in ferro, anch’essa coperta da un drappo orlato in oro.

    A quel punto Osios lasciò cadere rovinosamente il prete, ancora incosciente, sul pavimento della chiesa. Recuperati gli attrezzi e il contenitore si mise a svitare un pannello in acciaio accanto alla paratia.

    Weistaler accese lo smartphone e vi inserì la scheda micro SD avuta pochi minuti prima. L’unica luce che rischiarava il duomo era quella del display del computer. Estrasse dalla tasca del giubbotto un cavo ottico e ne collegò un’estremità al telefono e l’altra a un pannello che nel frattempo era stato smontato da Osios.

    Sapevano esattamente come muoversi, avevano fatto decine di simulazioni al computer e studiato tutti i documenti disponibili sull’apparato di sicurezza che proteggeva la Sacra Sindone da gente come loro. Il sistema si basava su una doppia chiave d’accesso: un blocco a scansione retinale e una serie di codici a sedici cifre, cambiati ogni giorno.

    Se una delle due chiavi non è inserita correttamente, l’allarme suona e la polizia piomba nel duomo in quattro minuti.

    Weistaler inserì il codice sulla tastiera touch del Next M1 e il flusso di byte cominciò a scorrere verso il microchip contenuto nel pannello.

    A quel punto Osios svegliò il prete con uno schiaffo.

    «Dove siamo?», sussurrò con un filo di voce quando aprì gli occhi nella piena oscurità.

    Nessuno gli rispose, ma l’uomo fu sollevato di peso e trascinato fino alla paratia. La sua faccia fu appoggiata con forza a un vetro gelido. Non riusciva a muoversi.

    Una luce verdastra scansionò la retina del prete e, un secondo dopo che la paratia in vetro a protezione della Sindone cominciò a scorrere, un proiettile gli perforò il cervello.

    Il presidente della Commissione per la conservazione della Sacra Sindone cadde esanime sul pavimento. Era morto senza neanche capire il perché: era l’unico che aveva avuto accesso ai codici giornalieri e alla programmazione della scansione retinale. Quella era stata la sua condanna.

    Osios e Weistaler entrarono nella cappella. La Sindone era conservata in posizione orizzontale in un’urna di alluminio e vetro ricoperta da un ampio tessuto di damasco bianco.

    Prima di appoggiare le mani sulla teca, Weistaler fu quasi preso da una sensazione di pentimento, ma durò solo un attimo. Mentre toccava il tessuto bianco con drappi rossi che ricopre l’involucro, la sua missione gli fu nuovamente chiara.

    Tuam Sindonem Veneramum Et Tuam Recolimus Passionem – adoriamo la tua immagine e meditiamo sulla tua sofferenza. L’altro non si fece impressionare dall’iscrizione sul drappo bianco, lo tolse con foga e lo gettò sul pavimento. Poi si mise ad armeggiare per aprire l’urna.

    Sapeva esattamente dove mettere le mani, anche di quella aveva visto e studiato i progetti originali.

    In quattordici lunghissimi minuti, con estrema calma, per essere sicuri di fare le cose nel miglior modo possibile, riuscirono ad aprire la teca ed estrarre il telo sacro.

    Weistaler lo piegò con cura e insieme lo riposero nel contenitore d’alluminio alto una decina di centimetri e lungo poco più di sessanta.

    Non si guardarono più indietro e, prima di uscire dal duomo, Osios abbandonò un oggetto metallico sul corpo del prete che era sdraiato in una posizione innaturale ai piedi dell’altare centrale.

    6

    Il fuoristrada imboccò la rampa che portava al garage del Banco Nazionale di Ivrea e scese a bassa velocità. Più o meno nello stesso istante, a pochi chilometri di distanza, il presidente della Commissione per la conservazione della Sacra Sindone cadeva esanime con un proiettile calibro .9 conficcato nel cervello.

    La valigetta, che era stata consegnata solo pochi minuti prima a Henkel, era gelosamente sistemata sul sedile del passeggero.

    La sede della banca, di concezione futurista e di nuovissima costruzione, si trovava appena fuori città. Era un parallelepipedo grigio di cinque piani con le sbarre alle finestre e un unico accesso carraio dal piano interrato. Un bunker a prova di bomba, oltre che di ladro.

    L’auto di Andreas Henkel non aveva impiegato più di trenta minuti per raggiungerla: il traffico della tarda sera non aveva affatto rallentato la marcia del suo veicolo.

    La città era semideserta. Nell’attraversare il centro imbiancato, Henkel si sentì come un astronauta catapultato in un pianeta monocolore.

    Raggiunse la sede della banca quasi senza accorgersene. La sua mente aveva vagato riesaminando tutti i dettagli del piano e cercando di reprimere quel senso di preoccupazione che aveva cominciato ad affliggerlo da qualche giorno.

    Non era in grado di dire cosa non lo convincesse in quell’operazione, ma il suo istinto gli suggeriva che c’era qualcosa di sbagliato. Al suo arrivo alla banca avrebbe dovuto essere accolto da Clemente D’Oria, che ne era presidente da poco più di tre anni. Sapeva che aveva preso il posto del suo amico e collega Luciano Spada.

    Henkel non conosceva personalmente D’Oria, ci aveva parlato solo un paio di volte al telefono. Gli accordi erano che il presidente, a quell’ora della notte, si sarebbe fatto trovare nel parcheggio interrato della banca, avrebbe preso in consegna la valigetta metallica e l’avrebbe depositata, sempre scortato da Henkel, nell’apposita cassetta di sicurezza che era stata noleggiata per l’occasione.

    Quando Henkel spense il motore del fuoristrada erano da poco passate le dieci di sera. Il parcheggio sotterraneo era praticamente deserto. Lui ne approfittò per lasciare la sua auto proprio al centro, tra due colonne dipinte di giallo.

    Scese con la valigetta in mano. Provava un senso di disagio, e non solo perché la porta scorrevole che aveva imboccato prima di percorrere la rampa si era chiusa alle sue spalle, ma perché in quell’immenso scantinato di cemento armato non si muoveva neppure una mosca.

    Prima di individuare una figura in abito scuro si era guardato attorno. Tre auto in tutto, una nera e di grossa cilindrata e due utilitarie bianche, identiche nell’aspetto e parcheggiate una accanto all’altra dalla parte opposta del garage.

    «Ben arrivato», esordì con tono baritonale D’Oria.

    Era un omino piccolo e scheletrico, con un vestito da becchino, una cravatta nera e i capelli color latte. Se non avesse saputo che era impossibile, Henkel gli avrebbe dato cent’anni.

    «Lei dev’essere il nostro amico Andreas Henkel», continuò il presidente in tono amichevole.

    Henkel sorrise. «Aspettava qualcun altro?»

    «Certo che no. Non è mia abitudine rimanere ad aspettare i clienti qui nel parcheggio e soprattutto non a quest’ora». D’Oria sorrise.

    «Questa valigetta evidentemente merita tutta la nostra attenzione».

    «Non c’è alcun dubbio. Se adesso vuole seguirmi, mi occuperò personalmente di metterla sotto chiave», concluse il presidente.

    I due attraversarono il garage deserto in silenzio e si infilarono in una porta a vetri. Varcata la soglia, si ritrovarono in un corridoio a forma di L, con le pareti color crema e un’illuminazione rassicurante. Oltre l’angolo c’era l’ascensore.

    Quando si chiusero le porte, Henkel capì che stavano scendendo. Finirono la loro corsa direttamente nel caveau della banca. Mentre percorrevano un lungo tappeto rosso, sulla sinistra si vedeva un muro alto cinque metri, ricoperto di cassette di sicurezza, e sulla destra una serie di cabine dotate di scrivania e di sedia.

    Le operazioni furono molto rapide: il presidente inserì la sua chiave nell’apposito spazio e Henkel fece lo stesso. Poi un inserviente arrivò con una cassetta in mano, la depositò su uno dei tavoli e invitò Henkel a entrare. Chiusosi la porta alle spalle, ripose la valigetta nella cassetta e la riconsegnò all’inserviente.

    7

    Il furgone nero guidato da Flavio Osios procedeva veloce lungo l’autostrada imbiancata, seguito a breve distanza dall’Audi di Weistaler.

    Il paesaggio scorreva indefinito fuori dai finestrini: un’immensa distesa bianca al bordo della strada e, poco oltre, nuvole basse che facevano quasi da paravento.

    I due veicoli comunicavano con due ricetrasmittenti Bosch a onde corte.

    «Come ti senti Curt? Hai detto la tua preghiera?», chiese il Greco sorridendo.

    Il furgone era a una trentina di metri davanti a Weistaler. «Non scherzare con queste cose», disse nell’auricolare.

    «Non ti offendere, lo facevo per sdrammatizzare. È andato tutto bene...».

    «Ti rendi conto di qual è il carico che stai trasportando?».

    La ricetrasmittente gracchiò subito prima della risposta di Osios. «Mi rendo conto di quanto ci frutterà».

    «Non essere blasfemo».

    L’autostrada A5 Torino-Aosta in quel punto piegava a sinistra. Il furgone prima, e l’Audi subito dopo dovettero controllare la velocità per evitare di scivolare sui mucchi di neve che si erano formati nel mezzo della carreggiata. Il tempo non accennava a migliorare. Davanti ai fari del furgone i fiocchi di neve sembravano grossi come prugne.

    «Credo sia ora di fare quella telefonata, Curt».

    «Pensa a guidare, non puoi permetterti la minima distrazione», insistette Weistaler.

    «Non ti preoccupare, so difendere i miei investimenti», fu la risposta di Osios.

    Weistaler scosse la testa, subito dopo estrasse dalla tasca il cellulare e compose il numero. Prima di riattaccare attese che dall’altra parte del telefono ci fossero tre segnali di libero. Il quarto segnale non lo udì, sostituito da un tu-tu ritmico.

    A circa quaranta chilometri di distanza, all’interno del duomo di Torino, il trillo di un cellulare ruppe il silenzio.

    Nessuno era in grado di rispondere.

    Nell’oscurità si vedeva un oggetto piccolo e colorato che s’illuminava a intermittenza. Era appoggiato sul cadavere insanguinato dello studioso della Sacra Sindone.

    Il quarto squillo fu l’ultimo, seguito da un bagliore e da un frastuono assordante.

    La bomba fece il vuoto attorno a sé. Il vetro dietro al quale aveva riposato la Sindone andò in frantumi e fiamme rosse alte cinque metri divamparono fino alla cappella del Guarini.

    L’incendio divorò prima i drappi che adornavano il tabernacolo e poi fu alimentato dal legno delle numerose panche posizionate nella navata centrale.

    8

    L’auto di Henkel era ferma nelle vicinanze di piazza Castello con il motore acceso. Erano le ventitré e trenta.

    Durante il suo ritorno dal Banco Nazionale di Ivrea non aveva smesso un secondo di nevicare. Gli sembrava quasi di essere a Hannover, dove aveva vissuto da ragazzino, prima di ritornare con la sua famiglia in Cecoslovacchia.

    A Henkel l’azione piaceva più di ogni altra cosa, e questo era il motivo per cui, fresco di laurea, aveva accettato di fare l’analista per il Servizio di Sicurezza cecoslovacco. Certo, il cognome e la posizione di prestigio che il padre occupava da anni al ministero degli Esteri, gli erano stati di indubbio aiuto, ma la sua bravura e la predisposizione per quel tipo di lavoro avevano fatto il resto.

    Il suo ruolo d’ufficio durò ben poco, le sue attitudini erano altre. In meno di tre anni diventò un operativo, prima in patria e poi all’estero. All’inizio del 1980 si occupava di scovare i nemici del Partito, e solo un anno dopo fu destinato a osservarne uno in particolare. Si trattava di un polacco che cominciava a destare qualche preoccupazione oltre la cortina di ferro: un certo Karol Vojtyla.

    Così, esattamente come accadde ai migliori agenti dell’Est, fu spedito a Roma. E la città eterna gli piacque fin da subito, a differenza del suo lavoro che, invece, in quella circostanza gli sembrò di estrema inutilità; per quanto si sforzasse di essere un sostenitore dell’ideologia comunista come gli era stato insegnato, aveva intuito prima degli altri che era impossibile fermare l’avanzata del capitalismo. E, in ogni caso, la semplice osservazione delle attività del papa non sarebbe servito a evitarlo.

    Henkel era arrivato nella capitale italiana pochi mesi dopo il 13 maggio 1981, giorno in cui un attentatore turco aveva sparato al pontefice. Non volle mai sapere quale suo collega l’avesse preceduto in quell’incarico. Di certo, se lui era stato inviato a Roma, significava che aveva preso il posto di un altro agente che, con ogni probabilità, doveva avere avuto un qualche rapporto con l’attentato al papa. Preferì non indagare in quella direzione: certe cose era meglio non saperle; preferì invece documentarsi nel migliore dei modi sulla cristianità e imparare l’italiano il meglio possibile. Entrambe le cose gli furono molto utili, quando, diversi anni dopo, gli fu offerto di lavorare per il suo ex nemico: lo Stato del Vaticano e il papa polacco.

    La sua profezia sulla caduta del comunismo era diventata realtà e come la maggior parte dei suoi colleghi Henkel si era trovato senza lavoro dalla sera alla mattina. Così, quando pochi mesi dopo il Servizio Segreto Vaticano gli offrì la possibilità di continuare ciò che sapeva fare meglio, accettò senza indugio. Dapprima fu utilizzato come freelance, anche per mettere alla prova le sue capacità e la sua fedeltà, e dopo qualche tempo fu inserito in pianta stabile nell’organigramma del Servizio. Il Vaticano aveva guadagnato un agente con grandi capacità e lui aveva avuto l’opportunità da una parte di abbracciare una fede religiosa che l’aveva sempre affascinato, e dall’altra di continuare a fare quello che gli piaceva di più: la spia.

    Il computer portatile era acceso sul sedile del passeggero, e ogni tre secondi emetteva un rassicurante bip. Il ricevitore GPS inviava regolarmente le sue coordinate. Era stato inserito nella fodera della Sacra Sindone dallo stesso uomo che due ora prima aveva consegnato a Henkel una preziosa valigetta in metallo. Poiché gli ordini erano di scovare il mandante del furto, far piazzare quel dispositivo gli era parsa la scelta più efficace: l’occhio dei satelliti difficilmente poteva essere ingannato.

    Tenne lo sguardo fisso sulla mappa del Piemonte sul suo computer: il puntino rosso lampeggiante era quasi giunto al confine con la Valle d’Aosta. Poi, per un secondo, chiuse gli occhi.

    Quella notte stavano scrivendo un nuovo capitolo della storia millenaria della Sacra Sindone. Il Mandylion, così era chiamato il Sacro Telo dai greci, era infatti comparso per la prima volta nel 544 a Edessa per poi sparire e riapparire esattamente quattrocento anni dopo. Nel 1204, durante il saccheggio di Costantinopoli, fu rubato e portato in Francia dove rimase fino a che i Savoia non ne entrarono in possesso.

    Da allora gli spostamenti del telo furono meglio documentati, ma il suo viaggio cominciò a essere ancora più accidentato. Il fuoco divenne parte integrante della sua storia: il Sacro Lino rischiò la distruzione prima nell’incendio di Chambéry del 1532 e poi in quello del 1997 nella cappella del Guarini di Torino, dove nel frattempo la reliquia era stata riposta.

    Henkel ripensò a tutte le volte in cui era entrato in contatto con il Mandylion: era stato lui alla fine del 2001, in una delle sue prime missioni per il Servizio Segreto Vaticano, a scortare il Sacro Lino negli Stati Uniti dove erano stati eseguiti, per la seconda volta e in segreto, gli esami al carbonio 14.

    Proprio mentre era negli USA, gli era stato chiesto di recarsi in New Jersey per partecipare alla riunione di una nuova congregazione religiosa: si trattava di veri e propri integralisti cattolici, che si riunivano in preghiera per chiedere a Dio l’invio di un nuovo Salvatore. Solo Dio in persona, credevano, avrebbe potuto risolvere i contrasti tra il genere umano e solo loro avevano la presunzione di conoscere la sua volontà. Per questo si erano dati il nome di Illuminati per voluntatem Dei, letteralmente Illuminati dalla volontà di Dio.

    Illuminati. Quel nome però evocava pagine oscure di storia: nel Cinquecento, infatti, un gruppo di illustri scienziati che seguivano i lumi della ragione si erano uniti in una vera e propria setta che aveva lo scopo di distruggere la Chiesa Cattolica. Il loro obiettivo era mettere fine alla tirannia dell’inquisizione e del papato nei confronti di chi professava apertamente i princìpi della scienza. Molti di loro avrebbero voluto ricorrere alla violenza, ma esponenti meno radicali, tra cui si dice vi fossero anche Giordano Bruno e Galileo Galilei, teorizzarono invece che scienza e fede fossero due facce della stessa medaglia, due modi diversi per raccontare la medesima verità. Due aspetti della vita che, insomma, dovevano e potevano convivere.

    Lo stesso Galilei aveva scritto che osservando con il suo telescopio la volta celeste, riusciva a vedere la mano di Dio, tanto era perfetta e armoniosa. Ma non era servito: in quegli anni, il divario tra scienza e fede era troppo ampio per essere colmato. Coloro che ebbero il coraggio di esternare le proprie teorie furono condannati per eresia e pagarono con la vita.

    La storia sembrava ripetersi. La congregazione aveva scelto un nome evocativo, ricco di significati, che ancora a distanza di quattrocento anni incuteva preoccupazione. Per tale ragione, pur non essendo chiaro quale scopo si prefiggessero gli Illuminati per voluntatem Dei, Henkel era stato inviato in New Jersey come semplice osservatore. Se non si poteva controllarli, perché del gruppo sembravano far parte importanti politici, uomini d’affari ed esponenti della Chiesa stessa, allora era necessario conoscerli.

    In quell’istante squillò il cellulare.

    La sua espressione s’irrigidì. «Cosa? Ne siete certi?».

    La voce metallica, dall’altro capo del telefono, rispose con un sospiro. «I pompieri stanno arrivando».

    «Quando è successo?», chiese.

    «L’allarme è di due minuti fa», fu la risposta telegrafica del suo interlocutore.

    Figlio di puttana. Weistaler non era stato ai patti.

    Henkel inserì la marcia e si avviò verso la vicina piazza San Giovanni.

    La prima brutta notizia della nottata era appena arrivata, anche se Henkel non poteva sapere che non sarebbe stata né l’ultima né la peggiore delle notizie che avrebbe ricevuto di lì a pochi minuti.

    Il duomo di Torino era in fiamme.

    Ancora una volta.

    9

    «Per la cronaca, ho appena fatto quella telefonata», dichiarò Weistaler alla radio, appena prima di scomparire dal retrovisore di Osios.

    L’Audi non si era mai avvicinata più di trenta metri al furgone che proseguiva a velocità sostenuta lungo l’autostrada, ormai ridotta a un fiume bianco.

    «I pompieri avranno un gran da fare», fu la risposta via radio di Osios.

    Weistaler scalò marcia e guardò oltre i fari della sua auto; i cartelli indicavano che erano entrati in Valle d’Aosta, in meno di un’ora avrebbero raggiunto il traforo del Monte Bianco e poi la Francia.

    Il piano di fuga era stato preparato da lui in persona: un furgone, un’auto di scorta e una strada dritta da percorrere.

    Per Osios sarebbe stato meglio prendere il Cessna dall’aeroporto di Caselle e volare via prima e il più lontano possibile. La ragione era semplice: Torino distava dalla Francia quasi un’ora e mezza... Troppo, se si voleva che la loro fuga passasse inosservata. In un’ora e mezza, tutto poteva succedere.

    Poiché i rapporti con le alte sfere ecclesiastiche – che avevano consentito di conoscere in anticipo tutte le misure di sicurezza attorno alla Sindone – erano stati tenuti da Weistaler, si era però fatto come aveva voluto lo svizzero. E Weistaler aveva elaborato il piano proprio confidando sul fatto che in un’ora e mezza tutto può succedere.

    L’Audi scalò la marcia e uscì in sorpasso.

    «Ti avevo detto che non ero d’accordo nell’incendiare il duomo», ringhiò seccato alla ricetrasmittente.

    «Era necessario cancellare tutte le nostre tracce... E soprattutto creare un diversivo per garantirci la fuga», rispose Osios, che non si accorse che proprio in quel momento l’Audi si era affiancata al suo furgone.

    «Sei uno stronzo!», grugnì Weistaler con gusto inaspettato. Un secondo dopo abbassò il finestrino del passeggero e una folata di aria gelida invase l’abitacolo.

    La Sig-Sauer luccicò nel buio e solo in quell’istante Osios, dall’alto del furgone, si rese conto di quello che stava accadendo. «Cosa diavolo fai?», fece in tempo a urlare alla ricetrasmittente.

    Weistaler non rispose. La neve stava entrando con sorprendente velocità nell’abitacolo e stava ricoprendo il sedile vuoto del passeggero. Prese la mira e sparò alla gomma posteriore del furgone che si disintegrò con un rumore sordo.

    Il mezzo sbandò verso il centro della carreggiata mentre Weistaler prendeva ancora la mira.

    L’Audi accelerò e senza apparente difficoltà si posizionò quasi integralmente davanti al furgone.

    Il secondo proiettile andò ancora a bersaglio, questa volta sulla ruota anteriore.

    Il furgone sbandò nuovamente e Osios non poté più fare niente per mantenere l’assetto del veicolo, ormai fuori controllo: si girò su se stesso, si piegò su una fiancata e in un frastuono di lamiera contorta scivolò lungo la strada innevata.

    L’Audi proseguì lungo l’autostrada e Weistaler si godette tutto lo spettacolo dallo specchietto retrovisore.

    Il veicolo di Osios, che nel frattempo aveva cominciato a prendere fuoco, andò a terminare la sua corsa contro il guard rail che divideva le due carreggiate dell’autostrada. Si ribaltò completamente e rimase con le quattro ruote puntate verso il cielo. Il prezioso carico, vecchio di duemila anni e contenuto in una cassetta di alluminio, fu avvolto dalle fiamme.

    10

    6 maggio, quattro mesi dopo

    Quella calda mattina, il ritrovamento di due cadaveri all’interno delle mura della Città del Vaticano aveva messo in subbuglio l’intera Gendarmeria Pontificia.

    Il corpo del colonnello Curt Weistaler, capo della Guardia Svizzera, e della giovane recluta Tobias Klessen, erano stati rinvenuti poco dopo le undici di mattina da un’anziana suora che era riuscita a fatica a chiamare aiuto.

    Si era catapultata giù dalle scale di palazzo San Carlo, aveva attraversato di corsa piazza Santa Marta, e si era infilata in un doppio portone in legno massiccio del palazzo del Tribunale dove, al primo piano, si trovava l’ufficio centrale della Gendarmeria.

    Fuori dalla porta del comandante, un ex generale dei Carabinieri, due agenti in divisa grigia le avevano sbarrato il passo: «Non può procedere oltre, madre», aveva detto quello più basso.

    La suora, mai stata tanto agitata in vita sua, riuscì a proferire solo poche parole sconclusionate: «Colonnello Weistaler. Morto. Ucciso».

    Il messaggio, per quanto mal riportato, ottenne l’effetto sperato: in meno di cinque minuti agenti della Gendarmeria attraversarono di corsa il sagrato di piazza Santa Marta e si precipitarono al secondo piano del palazzo San Carlo; il comandante, comodamente seduto tra la platea in attesa del giuramento delle Guardie Svizzere, fu avvisato con il cellulare. Quella mattina, il solenne giuramento fu rinviato a data da destinarsi, senza che agli illustri ospiti fosse spiegato il motivo.

    I numerosi porporati, due onorevoli italiani e diverse autorità elvetiche lasciarono sbigottiti il loro posto nella tribuna e si avviarono verso via di Porta Angelica, dove la maggior parte di loro aveva lasciato le auto con gli autisti.

    Alcuni cellulari avevano squillato, alcuni avevano udito voci secondo cui il comandante della Guardia Svizzera era stato colto da malore, altre, ancora prima che la notizia trapelasse, lo davano già per morto.

    La Gendarmeria Vaticana era stata fondata nel 1850 come piccolo esercito privato; in seguito i suoi compiti erano stati modificati e il corpo era diventato una sorta di polizia cittadina con funzioni di sicurezza e sorveglianza.

    Gli effettivi, quella calda mattina, erano centotrentaquattro. Si trattava, per la maggior parte, di ex agenti dei corpi speciali dei Carabinieri e della Polizia di Stato italiana, provenienza che condividevano con il loro comandante, il generale Attilio Sacconi, immobile davanti all’ingresso dell’appartamento di Weistaler.

    «Cosa pensi?», chiese a Carlo De Medici, il suo vice. Era accanto a lui, sbigottito.

    «Cosa dovrei pensare? Mi dà l’idea di costruito a tavolino», commentò il collega, indicando i due cadaveri disposti uno accanto all’altro.

    «La recluta si chiamava Tobias Klessen», proseguì. «Non lo conoscevo personalmente, ho mandato a chiamare due suoi commilitoni, faremo qualche domanda».

    De Medici, sudato e accaldato, si girò verso la scala interna dell’edificio. Era più alto di Sacconi e più giovane di vent’anni. «Hai saputo della richiesta?», chiese.

    Sacconi sospirò. Aveva un’aria rilassata nonostante la situazione. Era un uomo che tutti, sin da giovane, avevano definito elegante nel vestire, nel portamento e nello sguardo. Indossava un abito nero gessato con camicia azzurra e una cravatta regimental. «Sì. Mi ha telefonato il cardinale Himenez. Era abbastanza contrariato».

    «Certamente non quanto lo siamo noi», commentò De Medici. «L’Ispettorato non ha competenza all’interno delle mura del Vaticano. Coinvolgere loro è una mancanza di fiducia verso di noi».

    «Comunque sono stati chiamati in causa per cui, quando arriveranno, cerchiamo di offrire la massima collaborazione», tagliò corto Sacconi.

    Nello stesso istante un agente uscì dalla stanza con un dispositivo metallico all’interno di un sacchetto trasparente. «Il cellulare del colonnello, signore».

    De Medici si avvicinò all’uomo e cercò di osservare l’oggetto più da vicino: aveva la scocca posteriore ricoperta di vetro nero e un grosso display, ma era sorprendentemente fino. «Bene, chissà che non ci dica qualcosa».

    Fece due passi e varcò la porta dell’appartamento.

    Più osservava la scena del crimine, più si convinceva che non era andata come sembrava: il colonnello era morto per un colpo alla tempia, mentre la recluta riportava tre ferite, una all’addome e due alla testa. La pistola dalla quale erano partiti i colpi era probabilmente l’arma del colonnello, la Sig-Sauer calibro .9, ancora stretta nel suo pugno.

    Tutto sembrava sistemato per fare sembrare che il colonnello avesse ucciso la recluta e poi si fosse tolto la vita. Ma era troppo perfetto.

    «Era omosessuale?», chiese una voce femminile.

    De Medici si voltò. «Prego?»

    «Ho chiesto se era omosessuale», ripeté la donna.

    Non ottenne risposta. Gli agenti che stavano rovistando nei cassetti si fermarono di colpo per osservarla, e lo stesso fecero altri due uomini impegnati nel fotografare i corpi.

    «Stella Rosati, vice procuratore aggiunto della Procura di Roma. Mi ha mandato qui l’Ispettorato presso il Vaticano della Polizia di Stato. E questi sono gli agenti Lo Schiavo e Liguori».

    «La stavamo aspettando, dottoressa». La voce era quella di Sacconi, che le si avvicinò tendendole la mano. «Generale Attilio Sacconi, comandante della Gendarmeria Pontificia».

    La donna sfoderò un sorriso compiaciuto e gli strinse la mano. «Piacere». Indossava un tailleur grigio e una camicetta avorio. I capelli, biondi, erano sciolti e qualche boccolo le sfiorava le spalle. Non aveva uno sguardo altezzoso, ma era sufficientemente intenso da lasciare intendere che era lei a decidere cosa fare e come farlo.

    «Ci fa piacere che siate qui anche voi», mentì Sacconi. «Mi hanno da poco avvisato che ci avreste dato una mano nelle indagini; anche se, francamente, credo che le cose siano abbastanza semplici. Ma capisco che in queste circostanze le molte personalità politiche esigano una risoluzione rapida».

    La dottoressa Rosati non intendeva dare spiegazioni sul motivo per il quale era lì, ma dopotutto il generale l’aveva compreso alla perfezione: una mano in più fa sempre comodo. Si avvicinò ai due cadaveri, disposti uno accanto all’altro al centro della stanza. «Si dice che il colonnello Weistaler fosse omosessuale. È la verità?».

    Il generale le si avvicinò e sorrise digrignando i denti: «Vedo che anche lei la pensa come noi! Omicidio a sfondo sessuale?»

    «Può darsi, ma siamo qui per capire cosa sia successo, non per fare congetture».

    A quel punto due gendarmi vestiti di grigio entrarono nell’appartamento in compagnia di un cardinale e di due giovani reclute della Guardia Svizzera, che ancora indossavano la tipica uniforme dai colori blu, giallo e rosso.

    «Sono i compagni di stanza di Tobias Klessen», disse un agente rivolgendosi a De Medici.

    «Venite, andiamo all’ufficio centrale». Il vice comandante tossì per schiarirsi la voce. Poi si rivolse alle persone dentro la stanza: «Dottoressa, quando ha finito qui, la attendo nel mio ufficio, nel palazzo del Tribunale».

    «Per quanto riguarda i reperti, vi sarei grata se li faceste esaminare prima ai miei uomini», ribadì Stella Rosati ad alta voce, rivolta al generale Sacconi e a De Medici.

    «Ma certo dottoressa, ci hanno chiesto di offrirvi la massima collaborazione», precisò De Medici, che aveva già cominciato a scendere le scale.

    «Allora vorrei, se possibile, portare via quel dispositivo». Indicò lo smartphone scuro all’interno di un sacchetto di plastica.

    Il gendarme che ancora lo teneva in mano osservò il generale e poi lo consegnò, con evidente diffidenza, a uno degli agenti dell’Ispettorato.

    Ci fu qualche secondo di silenzio.

    Fu la Rosati a interromperlo. «Siamo qui tutti per lo stesso scopo. Sappiamo benissimo che la competenza dell’Ispettorato si limita a piazza San Pietro, ma ci hanno chiesto di dare una mano. Sapete, ci sono troppi risvolti politici in questo caso».

    «Non si preoccupi dottoressa, non deve giustificarsi. Tutti vogliamo capire cosa sia successo», confermò il generale, per stemperare l’evidente momento di tensione che si era venuto a creare. «Lei cosa ne pensa?».

    La Rosati fece un sospiro e poi guardò Sacconi. «Penso che per la Guardia Svizzera sarà una pessima pubblicità».

    11

    Il volo Lufthansa proveniente da Francoforte toccò la pista dell’aeroporto di Fiumicino poco dopo le tre di pomeriggio, in perfetto orario.

    Dei centodiciassette passeggeri, soltanto pochi erano di nazionalità diversa da quella tedesca o italiana. Uno di questi era Andreas Henkel, che aveva esibito un passaporto colombiano. Falso.

    Il suo viso era così anonimo che a chiunque dava l’impressione di averlo già visto: poteva tranquillamente impersonare un sudamericano o perfino un norvegese. Inoltre sapeva passare inosservato e in un servizio segreto che ufficialmente non esisteva era una qualità determinante.

    Uscito dal terminal romano salì su un taxi.

    La notizia che aveva ricevuto quella mattina era la peggiore che si potesse aspettare: Weistaler era stato ammazzato.

    Non che gli dispiacesse per la sorte che lo svizzero si era ampiamente meritato, ma il Belcolonnello era l’unico che ancora avrebbe potuto consentirgli di portare a termine la sua missione.

    Da vivo non gli era stato di grande aiuto: o non sapeva nulla oppure era talmente bravo da non rivelare quello che sapeva.

    E adesso era morto.

    «Piazza san Pietro per favore», ordinò al tassista.

    12

    Esattamente due giorni dopo essere uscito con la massima tranquillità da Città del Vaticano, dopo aver piantato tre pallottole nel corpo della recluta Klessen e una in quello del comandante della Guardia Svizzera, Flavio Osios si trovava seduto sul sedile di una limousine. Proveniva dall’aeroporto internazionale di Incheon, diretto verso il centro della capitale della Corea del Sud.

    Non era la prima volta che si recava a Seoul per lavoro, ma tutte le volte ne ricavava la stessa fetida impressione. Era una metropoli sterminata, con più di dieci milioni di abitanti, caotica e sporca.

    Osios, che aveva passato parte della sua gioventù in riformatorio e il rimanente nei teatri di guerra di tutto il Medio Oriente, non era un uomo che s’impressionava facilmente, tuttavia ricordava con ribrezzo un episodio di un paio d’anni prima, in un alberghetto del centro: aveva potuto osservare con attenzione decine di ratti, grandi come gatti, passeggiare tranquillamente per le vie attorno all’hotel e anche al suo interno.

    La particolarità della capitale coreana era però un’altra: sporcizia a parte, sembrava di essere in un videogioco trasformato in realtà. Centinaia di insegne luminose erano appese ovunque e offrivano qualunque cosa potesse essere comperata o venduta. C’erano insegne di ristoranti, di corsi di cinese, pubblicità di siti internet, bevande alcoliche e non alcoliche, macchine fotografiche, videocamere, bar, hotel di lusso e no, strip club e gay club, confessioni religiose e molto altro ancora. Ogni millimetro quadrato delle facciate dei grattacieli era coperto di luci al neon: sembrava quasi che fossero stati costruiti solo per sorreggere le insegne.

    Sotto il profilo del territorio, Seoul è disposta su sette colli, come Roma, ma le somiglianze finivano lì. Quando la macchina imboccò un ponte sul fiume Han, uno skyline di grattacieli futuristici gli si parò davanti. A differenza della sua prima visita, questa volta, il magico fiume – come era soprannominato – gli parve abbastanza limpido.

    Osios si era recato in Corea grazie alle informazioni che era riuscito a estorcere al povero colonnello Weistaler, con l’aiuto della Sig-Sauer calibro .9 puntata alla tempia. A distanza di due giorni dall’omicidio, il senso di appagamento era ancora forte. Era tornato al suo posto: nel fango, dove meritava di stare. Colonnello dei miei stivali, pensò.

    Weistaler si era dimostrato il codardo che era: due proiettili nella testa del suo amichetto erano bastati a fargli spifferare gli unici due nomi che conosceva. I due nomi che l’avevano spinto fino in Corea.

    L’auto si fermò davanti all’ingresso dell’hotel Hyirz, un palazzone in vetro nero di quasi quaranta piani, abbastanza vicino alla zona universitaria e comunque non troppo lontano dalla sua destinazione finale.

    Mentre prendeva la piccola valigia che lo aveva accompagnato nel viaggio, due ragazze con l’abito tipico coreano – una lunga gonna che parte dalle ascelle e arriva fino ai piedi – lo accolsero per dargli il benvenuto.

    Osios sorrise e si diresse verso la reception. Consegnò il passaporto all’impiegato e un foglietto con due nomi coreani, insieme a un rotolo di banconote da diecimila won.

    «Me li può rintracciare?», chiese gentilmente.

    L’impiegato, un omino impagliato calato in un vestito blu, di bassa statura e con due baffetti sottili, osservò i due nomi:

    Mr. Hay Shin Yang

    Dr. Doo Woong Yoo

    Dopo qualche secondo guardò Osios dritto in viso e, in un inglese impeccabile, disse: «Non credo sarà troppo difficile signore. Non si preoccupi, ci penso io».

    13

    Mentre Andreas Henkel percorreva con passo svelto piazza del Sant’Uffizio, il cortile opposto a quello di San Damaso – dove quella mattina avrebbe dovuto tenersi la cerimonia di giuramento delle nuove reclute – non poté non notare l’enorme dispiegamento di forze all’interno della Città del Vaticano.

    Non si trattava solo dei mezzi della Gendarmeria Vaticana, che a dispetto dell’esiguo numero di effettivi era comunque considerata all’altezza delle migliori forze di polizia europee, ma dei numerosi carabinieri e poliziotti italiani che stazionavano nei pressi di piazza San Pietro e lungo via Paolo VI.

    La cosa non era del tutto inconsueta, ma un tale numero di militari così vicini alla Casa di Dio lasciava intendere che lo scalpore destato era grande, soprattutto alla luce di ciò che sapeva su tutta quella faccenda e che le autorità italiane certamente ignoravano.

    Per un secondo, prima di raggiungere l’appartamento di Weistaler, cercò di ripensare a tutti gli elementi che aveva in mano. Con il pensiero tornò alla fatidica notte di gennaio in cui tutto era cominciato.

    Notte tra il 4 e 5 gennaio

    Non aveva smesso un secondo di nevicare e, mentre tornava dal caveau del Banco Nazionale di Ivrea, il puntino rosso sullo schermo del suo computer aveva continuato a emettere un rassicurante bip-bip. Il ricevitore GPS era stato inserito nella fodera della Sacra Sindone, e la sua posizione era continuamente monitorata dai satelliti. Adesso procedeva, all’interno di un furgone sull’autostrada Torino-Aosta, ad almeno settanta chilometri da dove si trovava lui.

    Poi il cellulare aveva squillato e la prima brutta notizia della nottata lo aveva costretto a dirigersi verso piazza San Giovanni, dove il duomo di Torino andava in fiamme.

    Appena raggiunta la destinazione vide i camion dei pompieri che arrancavano sull’asfalto imbiancato dalla neve, e numerosi uomini che correvano in direzione delle porte del duomo.

    Le fiamme erano rosse e altissime e sembrava avessero già raggiunto il tetto. Insieme ai fiocchi di neve, gli parve di vedere cadere lapilli di cenere tipici di un’eruzione vulcanica.

    Un secondo prima di scendere dall’auto per avvicinarsi all’incendio, la seconda brutta notizia aveva fatto saltare i piani di Henkel: il puntino lampeggiante sul suo computer aveva smesso, improvvisamente, di lampeggiare.

    Henkel attese un secondo.

    Sapeva che il GPS non funziona in galleria ma in quella zona non ce n’erano.

    Attese ancora qualche istante e quando non vide ricomparire il led rosso lampeggiante collegò tutto: incendio e GPS.

    Weistaler l’aveva fottuto.

    Quando il piccolo elicottero a quattro posti atterrò sul prato imbiancato, accanto all’autostrada, lo spettacolo era finito da almeno un’ora.

    Era passata l’una di notte e i vigili del fuoco avevano rimosso il furgone ribaltato dal centro della carreggiata e l’avevano trainato poco lontano in una piazzola di sosta.

    Henkel raggiunse due pompieri in uniforme appena dietro il guard rail.

    «La stavamo aspettando. È un miracolo che non si sia fatto male nessuno», dichiarò uno dei due, alzando la voce per non essere sovrastato dal rumore del potente motore dell’elicottero e delle cinque pale articolate che ancora continuavano a roteare.

    «Il furgone è andato completamente distrutto?», chiese Henkel.

    «Completamente. Un rottame arrostito ben bene. Mi dicono che il carico era di vostra proprietà», disse l’altro.

    «Siete certi che a bordo non ci fosse nessuno?», chiese Henkel senza rispondere alla domanda del pompiere.

    «Senta, non si offenda. Sappiamo fare il nostro lavoro. Abbiamo spento l’incendio e rimosso il mezzo dal centro della carreggiata. Quando siamo arrivati, a bordo non c’era più nessuno».

    L’altro uomo intervenne quasi a dare man forte al collega. «Qui è successo un gran casino. Chiunque ci fosse alla guida, se l’è data a gambe».

    «Possiamo vedere il mezzo?», chiese Henkel serrando le labbra.

    «Prego, mi segua».

    I tre si spostarono, camminando sul prato che fiancheggiava l’autostrada, affondando gli anfibi negli oltre trenta centimetri di coltre bianca che si erano depositati da quando aveva cominciato a nevicare.

    In quel momento sembrava che il clima volesse concedere una tregua, tuttavia l’aria era gelida

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1