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Un caso bizzarro per il commissario Carra
Un caso bizzarro per il commissario Carra
Un caso bizzarro per il commissario Carra
E-book176 pagine2 ore

Un caso bizzarro per il commissario Carra

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Info su questo ebook

Un thriller inaspettato
Una scoperta tutta italiana

Il commissario Carra non se la passa bene. Nemmeno lo squisito caffè dell’agente Di Giacomo riuscirebbe a tirarlo su. 
Non gli era mai successo di non riuscire a capire da dove cominciare, né si era mai trovato coinvolto in un caso come questo, in cui tra morti e scomparsi è difficile anche solo stare dietro alle chiamate dalla centrale. Carra è abituato ad avere a che fare con qualunque tipo di crimine, ma stavolta è davvero troppo. Com’è possibile che siano collegati tra loro il ritrovamento in un cortile di una carcassa di elefante, la sparizione di un ragazzo, il rapimento di un bambino rom e la morte per overdose di una prostituta? Tutto sembra maledettamente assurdo, gli viene da pensare, mentre attraversa la periferia romana alla ricerca del prossimo indizio. E proprio quando la matassa sembrerà impossibile da sbrogliare, l’incontro con uno stravagante quanto acuto barbone metterà il solitario commissario Carra sulle tracce dell’unico filo da seguire…

Un grande giallo italiano

Hanno scritto del precedente romanzo:

«Una lettura fresca che scorre via veloce, senza intoppi o improvvise frenate. È la storia a dover attirare l’attenzione e non i personaggi: niente eroi, niente menti criminali, soltanto persone che, onestamente o meno, cercano di sbarcare il lunario giorno dopo giorno.»
Corpi Freddi

«Agli autori il merito di avere creato un commissario “ordinario”, con le intrinseche contraddizioni dell’uomo moderno, che si muove all’interno di una trama gialla colta e garbata, dove è proprio la trama in se stessa, la parte godibile del romanzo.»
Thriller Cafè
Claudio Arbib
è nato a Roma, dove ha sempre vissuto. Insegna all’università dell’Aquila. 
Rodolfo Rossi
vive a Roma e insegna al Conservatorio di Latina.
LinguaItaliano
Data di uscita27 giu 2016
ISBN9788854196773
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    Anteprima del libro

    Un caso bizzarro per il commissario Carra - Claudio Arbib

    1.

    Poco più che una ragazzina. Un’adolescente che cerca di capire come si fa a diventare donna. Esile, le forme appena accennate. Invece ha ventiquattr’anni, e urla. Grida e si dimena con la forza di una madre. Stringe il bambino con un braccio e si afferra con la mano alla maniglia. Anche il bambino strilla, abbarbicato a lei mentre l’uomo, un gigante in jeans e canottiera, lo tira per le braccia e tenta di strapparlo via. Sulla soglia del prefabbricato un altro, magro, la barba incolta, la sigaretta all’angolo della bocca, guarda annoiato.

    Non riuscendo a separare madre e figlio il gigante alza il braccio sinistro e comincia con metodo a colpirla col pugno in viso: una, due, tre volte. Lei molla la presa, si accascia a terra, gli occhi sbarrati in uno sguardo sbalordito, un ematoma si allarga sotto lo zigomo sinistro, un rantolo acquoso soffoca i singhiozzi.

    Il magro afferra il bambino che si allunga verso la madre urlando, lo schiaffeggia, lo spinge giù dagli scalini, lo manda carponi sulla strada infangata. Il grosso getta delle banconote da 50 euro sul tavolo di cucina ed esce. Prende il bambino per un braccio, si avvia trascinandolo. Muto, senza offrire resistenza, il bambino guarda l’ingresso del prefabbricato. Oppone alla violenza tutto quel che sa fare: piangere. Si avviano verso un grosso suv parcheggiato fuori del campo. Allineati sulla sterrata che costeggia le baracche, vestiti di stracci e di sporcizia, dei ragazzini guardano in silenzio. Più in là, degli adulti fingono di non vedere.

    Lo spinge sul sedile posteriore accanto al magro, poi si mette al volante. Il motore ronza, non disturba il silenzio sceso sul campo, denso, che i lamenti sommessi all’interno del prefabbricato non scalfiscono. La macchina scivola via lasciando dietro di sé tracce di costosi pneumatici e una madre senza il figlio.

    L’appartamento aveva l’aspetto pretenzioso della palazzina. Ceto medio impiegatizio, un tempo in ascesa come le ambizioni della padrona di casa, oggi sobriamente affacciato sul nulla: porte con spessi vetri gialli e cornici, maniglie elaborate, alle pareti stampe su tela con scene alla maniera antica. Mobili dello stesso marrone delle porte, solidi. Dovevano essere costati e, in effetti, erano di qualità: sembravano appena usciti di fabbrica. Ma invece di dare al salotto un’aria elegante o quantomeno vissuta gli conferivano un che di freddo e anonimo. Fuori moda.

    Il ragazzotto se ne stava sciattamente sprofondato nella poltrona di pelle marrone, una gamba a cavallo del bracciolo, l’altra allungata di fronte. Fingendo di ascoltare la predica che il genitore gli impartiva dall’altro capo del tavolo, era in realtà concentrato sul risultato dell’accurata ispezione nasale appena compiuta, risultato che stava appallottolando con perizia fra il pollice e l’indice della mano destra. Eseguito con destrezza, al commissario Carra non per ciò sfuggì il lancio che portò la pallina, dopo una precisa parabola, a infilarsi nel finto vaso cinese al centro del tavolo.

    «…Responsabilità, senso del dovere!», stava scandendo il padre. «Alla tua età non mi sarei mai neanche sognato, e quando dico mai intendo mai», precisò, dovessero sorgere equivoci al riguardo.

    Carra osservò il ragazzo: scarpe da ginnastica, una slacciata, jeans che non arrivavano in vita – un robusto elastico da mutande rosso spuntava dall’orizzonte del primo tratto di pantalone, un palmo sotto l’ombelico –, maglietta nera con facce truci e scritte gotiche, cranio rasato, a eccezione di una striscia di capelli verdi che univa la fronte alla nuca, orecchino al lobo destro, piercing alla narice sinistra. L’età in cui il rasoio è ancora tenuto alla larga dai brufoli e la voce non ha deciso tra la chiave di violino e quella di basso.

    «Quando la sera mio padre tornava a casa controllava i quaderni uno per uno, se non avevo fatto i compiti erano dolori. Ai miei tempi se osavi interrompere la lezione il maestro ti mollava un ceffone, e poi a casa arrivava il resto. Tua madre e io fatichiamo tutta la settimana, devi portare rispetto per il lavoro dei grandi».

    Che ci faccio qui?, stava pensando Carra.

    Il tipo che apostrofava abitava nella palazzina accanto. Amico del giornalaio che Carra visitava la mattina andando in commissariato. «Ce mancherebbe dotto’, co’ tutto quello che c’avrà da fa’… Ma magari visto che je sta accanto, si ce potesse fa’ ’n sarto ’na sera de queste. Così, senza parere. Vede», s’era raccomandato l’edicolante, «ar giovanotto je gira male, fa sega a scuola, sta tutto er giorno ar compiute e alla ple stescion. Fino a poco fa era un ragazzetto per bene, allegro, rispettoso, studiacchiava. Mo s’è rapato, s’è ficcato st’anelli ar naso: all’oratorio nun ce va, e sì che annava a messa tutte le domeniche, e puro ar campeggio coi boiscaut. Tuttantratto, gnente. Er padre, poretto, se dispera, c’ha provato in tutti i modi, nun sa più che pesci pija’. M’ha chiesto magari si ce parli lei, cor giovanotto. Po’ esse che de ’n commissario c’ha rispetto».

    Così ora si ritrovava nel salotto buono ad assistere al sermone. Partito all’esplorazione dell’altra narice, il ragazzo pareva infischiarsi tanto dell’autorità paterna quanto di quella costituita.

    «Per questa volta, e quando dico questa volta intendo questa volta, passi. Ma se salti ancora la scuola ti levo il computer e la PlayStation. Lo sai che non parlo a vanvera. Se una cosa la dico, la faccio. Ci siamo capiti? Vero commissario? Glielo dica anche lei…».

    Carra non se ne intendeva, pensava che un paio di ceffoni presenti sarebbero serviti più di tante minacce future. Ma forse si sbagliava. Schiaritosi la voce con un colpo di tosse, guardò il ragazzo in faccia. Il ragazzo fece altrettanto. Poi abbassò lo sguardo sulla maglietta e chiese: «Che significa ac/dc?».

    Le undici e mezza era l’ora. Per inspiegabile influsso cosmico, negli uffici del commissariato a quell’ora scendeva la quiete, una tregua non firmata fra guardie e ladri, imprevisti, incidenti, pratiche urgenti e squilli di telefono. Quel giorno poi c’era un tiepido sole di primavera alla finestra di Carra, aperta sulla strada; anche i rumori giungevano attutiti.

    Il commissario accantonò la circolare con le note esplicative sul pallosissimo questionario la cui compilazione rimandava da tempo, Di Giacomo appoggiò il vassoio sulla scrivania e si accinse a versare il caffè nelle tazzine. La macchina nel corridoio sfornava espressi non disprezzabili, non per i romani; ma per un salernitano erano veleno. Un caffè senza caffettiera, cos’e’pazz’. Organizzatosi con moka e fornelletto elettrico, il caffè se lo portava da casa. Carra approfittava.

    «Di Gia’, tuo figlio ha mai provato a marinare la scuola?».

    A Di Giacomo da Salerno il verbo marinare evocava le alici che la madre preparava al ritorno dal mercato. Si guardò bene dal dirlo al commissario, pescivoro fanatico e irredimibile, ma fu inutile: l’occhio vacuo con cui l’agente lo fissò gli fece comunque pensare a un pesce lesso. Represso il languorino, Carra tradusse: «Ha mai fatto sega a scuola?»

    «Ah!», l’occhio s’illuminò. «Commissa’, mio figlio tiene nove anni: dritto a scuola ce lo porta mia moglie, o qualche volta io quando posso. Però una volta c’ha provato. Di sabato mattina, ha detto che si sentiva tanto stanco e che sicuramente c’aveva una malattia misteriosa, pure se non teneva febbre».

    «E voi che avete fatto?»

    «Lo abbiamo tenuto a casa. E ce lo abbiamo tenuto pure il pomeriggio, quando la malattia misteriosa era passata e lui s’era preparato lillo lillo per andare a fare la partita con la squadra».

    Carra sorrise e annuì: non sarebbe venuto su coi capelli verdi. E su questo pensiero la tregua finì, con urla e mobili spostati nel corridoio.

    «Lassame, a’nfame! Lassame, che poi esse fijo mio, dio solo sa le mignotte che me so’ scopate…», e: «Ma che ne sapete voi de la fame, che ne sapete, magnaccia che nun sete artro! Guardame nell’occhi, brutto stronzo rincojonito! Guardame!».

    A Carra venne voglia di andarli a guardare, quegli occhi. La voce la sentiva, e pareva di un assatanato.

    Uscì sul corridoio e fece appena in tempo a scansare un avambraccio che, divincolatosi dall’agente Tuozzi, diffuse la puzza del forsennato, vomito e altri aromi corporei, nella fragrante aria di primavera da poco timidamente entrata. Senza fiato, Carra arretrò di mezzo passo biasimando di non avere a disposizione un crocefisso o meglio ancora un prete esperto in queste cose.

    La furia si placò improvvisamente, sostituita da uno smaniare catarroso: «Ma chi sete voi, me conoscete? Chi sete, che cazzo volete, lassateme anna’, che cazzo volete, chi cazzo sete, che cazzo volete…», con l’autore che si dondolava a testa bassa sulla sua litania. Et blasphemaris ab his qui se dicunt Iudaeos esse, et non sunt, sed sunt synagoga Satanae… Un barbone. Anche in senso stretto, perché aveva una barba bianca veramente lunga, come quella di un personaggio da fiaba. Ma era la sola cosa fiabesca che portava addosso: il resto era già visto, che a Roma i senza fissa dimora crescevano giorno dopo giorno. Ammucchiato sul pavimento dentro gli stracci che lo coprivano, torcendo gli occhi in modo spaventoso biascicava: «Ma che sapete, che ne sapete de la fame». Al che Carra fece cenno a Di Giacomo: «Vedi un po’ se trovi un panino». Non fece in tempo a finire. Il barbone scattò: stavolta l’avambraccio andò a cercare direttamente la guancia di Carra e la trovò con un manrovescio. Carra, talmente sorpreso da non aver modo di reagire, diede tempo a Tuozzi di metter mano alla pistola. Fortuna che Di Giacomo pensò d’istinto di bloccare il collega sparalesto prima del barbone, il quale nel frattempo aveva ripreso a urlare, diretto al commissario: «A testa de cazzo, te brucio i peli der culo! A chi cazzo credi de da’ l’elemosina, te credi che nun c’ho da magna’? Me magno un elefante intero! L’hai mai magnato un elefante? Io me lo magno! Io! E nun te lascio un cazzo! E doppo me te magno pure a te e a tu’ madre, a guardia ’nfame! E pure a quei stronzi dei preti che me danno l’avanzi der giorno prima!». Et ad iracundiam motus, ita Dominus quasi magnum furorem exorcet… Uno così, Carra era un pezzo che non lo vedeva. Gli agenti lo bloccarono di nuovo: «Lassateme perde, a ’nfami! Devo anna’ a taja’ l’elefante! Che ne sapete voi, io ho fatto de tutto, ho sbudellato più gatti… Io lo so come se taja, che ve credete».

    «Aspetta aspetta aspetta. Naturalmente l’avete perquisito».

    Tuozzi aprì bocca anche a nome del collega Marzullo col quale stava condividendo il momentaccio. Carra li guardò male e fece un cenno. Quelli strinsero la morsa. Il commissario si avvicinò e il barbone gli piazzò uno scaracchio che andò a colpirlo sul taschino della giacca. Carra fece finta di nulla e con calma spedì la destra a tastare le gambe dell’indemoniato. E così trovò il coltello. Un coltellaccio da macellaio. Vade retro, Satana!

    «Allora, Tuozzi, vediamo di capire».

    «Niente commissario. Io e Marzullo l’abbiamo trovato che stava a scassina’ un furgone. L’abbiamo fermato e, siccome che era un poveraccio, così abbiamo pensato che voleva solo trovare un posto per dormire e quindi non abbiamo pensato…».

    «…a perquisirlo, va bene, continua».

    «Be’, come l’abbiamo lasciato andare è tornato al furgone e ha cercato di nuovo di aprirlo, e allora abbiamo provato con più decisione a fargli capire che doveva andarsene, e lui ha cominciato a dare di matto».

    «E che diceva?»

    «Diceva che doveva assolutamente prendere quel furgone perché era un furgone frigorifero e gli serviva per l’elefante».

    «Gli serviva…?»

    «Per l’elefante, commissario. Ha sentito pure lei prima, no? È fissato, c’ha questa fissazione dell’elefante. Anche adesso che sta in cella non fa che ripeterlo: è preoccupatissimo per l’elefante».

    «Mah, non so, ha detto l’elefante? Mi pareva più che altro che avesse fame».

    «Sì, commissario. È evidente che non mangia da un pezzo. Ma forse è proprio la fame che l’ha fatto uscire di testa. Dice che ha da tagliare a pezzi un elefante per metterlo in frigo, che se non lo fa subito l’elefante va a male, e lui invece con l’elefante ha risolto, per un anno sistema pranzo e cena, e non deve tornare dai preti».

    Carra guardò il soffitto. Il mondo è strano. Un barbone apre un furgone, e uno pensa: vorrà trovare da dormire. Invece vuole usarlo come frigo, e uno pensa: avrà da mangiare. Invece si vede che non mangia da tre giorni, e uno pensa: diamogli un panino. E invece di accettare il panino quello… Be’, nella logica illogica di tutti questi invece ci sarebbe stato bene: quello tira fuori il coltello e ti ammazza. E invece… Invece ora sta in cella, buono buono, non ha toccato cibo e farnetica di un elefante da macellare.

    «Sta’ a vedere che il

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