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La camera celeste: Un romanzo psicologico, una fiaba moderna tra misteri e ornitologia
La camera celeste: Un romanzo psicologico, una fiaba moderna tra misteri e ornitologia
La camera celeste: Un romanzo psicologico, una fiaba moderna tra misteri e ornitologia
E-book159 pagine2 ore

La camera celeste: Un romanzo psicologico, una fiaba moderna tra misteri e ornitologia

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Info su questo ebook

Livia e Flaminia sono due sorelle che vivono a Roma, hanno una vera passione per i classici e l’ornitologia e nello sgabuzzino un’ingombrante valigia piena di soldi ereditata dal padre, avvocato e ciurmatore assai poco compianto…

… Alla strada hanno sempre preferito il salotto di casa e del mondo sanno poco e nulla.
Invece Zelvira, ai tempi compagna di scuola di Livia, è una tipa sveglia e Flaminia ne subisce il fascino: telefonini, trucchi, ragazzi; la leggerezza, finalmente!

Una leggerezza che le porterà a Pisa e Livia dietro a loro, all’inseguimento, ma il tutto avviene, appunto, con la leggerezza che è la cifra stilistica dell’intero romanzo.

Un romanzo che scivola dalla realtà al sogno, andata e ritorno, che scorre, a tratti carsicamente, senza strappi, con la dolcezza senza tempo della fiaba e un’ironia tutta moderna, consapevole e sorniona, a cui è deputato il compito di indorare un’amarezza di fondo che assume così i contorni di un piccolo incubo.

Uno sguardo lineare che tende all’allontanamento e da cui spontaneamente scaturisce il surrealismo.

Un surrealismo a pastelli, attraversato da suspence e mistero. La tinta, inutile dirlo, è celeste…
LinguaItaliano
Data di uscita15 mar 2021
ISBN9788897469834
La camera celeste: Un romanzo psicologico, una fiaba moderna tra misteri e ornitologia

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    Anteprima del libro

    La camera celeste - Anna Viale

    (Orestea)

    Parte Prima

    Eravamo appena tornate. Il cortile era invaso di sole. Cominciammo a correre a destra e a sinistra, l’una dietro l’altra, in circolo: attorno alle aiuole, agli alberi e alla fontana coi pesci. E poi più su, sempre più su, coi gradini saltati a due a due, lungo le scale, le ringhiere e le porte, sino in cima.

    All’ultimo piano la finestra mandava un fiotto di luce e lì c’era un cielo azzurro, solo azzurro.

    «Dai, apri, che ci vedono!... Ci vedono tutti!...»

    La guardai. Nessuno poteva vederci, solo gli uccelli. Nel corridoio ridevamo forte, chissà perché, con le mani sul viso. Poi scivolammo lungo il muro a gambe larghe, senza fiato.

    «Andiamo da quelli della rosticceria. Ho i soldi in tasca.»

    «Non bastano.»

    «Bastano per venti persone» risposi; ma lei stette muta.

    «Dai, su, alzati, che mangiamo le cose fritte! Che, non ti piacciono più le cose fritte?!»

    La strattonai, e lei s’alzò.

    Nel negozio incartarono tutto, pagai, e mangiammo i filetti di baccalà, le patate al forno, quattro supplì di riso e otto fiori di zucca, con le alici. C’era pure la birra: una bottiglia a testa.

    La notte, la bella notte, sognai i nostri libri riordinati negli scaffali, a uno a uno. Le pareti delle stanze erano gonfie come le vele, le tapparelle scardinate, e il cielo schizzava in alto le stelle. Poi la notte. La notte nera, la notte nella notte, e nel mezzo un piccione con le zampe troppo grosse e la testa quasi implume.

    Mi alzai. Andai a scartabellare ma vi capii un bel nulla: scambiavo i piccioni per le tortore e le tortore per le gazze. Presi a leggere dell’usignolo, del saltapicchio, del fagiano, e m’accorsi che era inutile perché pensavo solo a lei, alla scatola.

    La valigia del vecchio stava lì in un canto come una balla di cartone. Poggiava sul ripiano del mobile ed era zeppa di soldi.

    Le mazzette di banconote stavano ferme, legate con lo spago. I fogli, spiegazzati, rugosi, mezzi stinti, segnavano dei numeri tutti uguali e non v’era alcuna differenza: quelli nel basso, nel fondo, segnavano la stessa cifra degli altri, di quelli in cima, quelli col nodo nel mezzo.

    Erano tanti, però. Pigiati e folti che sembravano le pagine d’un libro; talmente ordinati che i pensieri presero a girarmi come le trottole e le banderuole. Sognavo le rondini; e poi i gabbiani sui tetti; e i prati verdi. Le colline rotonde, lucenti, lente come il respiro del mare e l’erba fitta, bagnata dal temporale. Ma mia sorella piangeva.

    Ritta davanti ai soldi piangeva e piangeva che pareva una fiammella. Le scendevano le gocciole dal viso e lei se le teneva sul palmo delle mani, fra le dita.

    Corsi, allora: presi la fotografia del vecchio nello stanzone e gliela portai. Lei la guardò e io la sbattei per terra; la cornice si spaccò in due e a forza di calci quel ritratto divenne un nulla, una sozzura: il vetro ridotto a minuscoli brillantini e la faccia a uno sgorbio senza bocca, senza occhi e senza cappello in testa.

    Flaminia s’asciugò una guancia con il braccio e poi restammo così, nel bel silenzio.

    «Da oggi in poi andrete all’università» ci disse un giorno.

    «E una volta laureate lavorerete con me. Così, tutto andrà a posto.»

    Non rispondemmo. E lui, d’un colpo, rovesciò la nostra scrivania, stracciò i foglietti, buttò i libri sugli uccelli e fece a pezzi Shakespeare e le tragedie greche; strappò centinaia di pagine dai romanzi, e i vocabolari, tutti e tre, finirono nell’immondizia.

    Restammo vuote, come un guscio. I suoi abiti stavano appesi, le scarpe lucidate, la casa era pulita e noi aprivamo la porta ai clienti col sorriso delle femmine, sempre quello.

    Alle tre d’un pomeriggio, forse dopo un mese, il vecchio ci chiamò nel suo stanzone e lì ci propose di studiare l’inglese e il francese: «con l’aiuto di due ottime persone che già conosco» disse «Ottime persone.»

    Ritte davanti a lui rimanemmo abbacinate. Ci spuntarono davanti agli occhi parcelle non riscosse, imbrogli, liti, lunghe ciglia d’indiani e volti neri di senegalesi con indosso larghe camicie di cotone. E poi truffe e ricatti. Sagome d’uomo che sapevano di disgrazie e di musi come vitelli.

    Ma accettammo. Dicemmo di sì: certamente, volentieri. Mentivamo, come sempre.

    Dopo nemmeno una settimana quei due dannati ci parevano due mostri. A capo chino sui quaderni, di fronte a noi, puzzavano come draghi e si portavano addosso due facce sgorbiate e incomprensibili. Avevano i nasi, i becchi, la fronte sudata, e noi non capivamo nulla, non leggevamo niente e c’eravamo fatte sorde e mute, cieche. Giunse la noia allora, rigogliosa. E l’uggia di quelle ore prese ad avviticchiarsi così lenta e stanca che un giorno, tenera come un germoglio, sfiorò la lama della collera e morì: spiccò dal tronco e cadde.

    « Please, go into» dissi. « Quickly.» E chiusi la porta a chiave.

    I due stavano l’uno accanto all’altro, in piedi. Uno era più alto e uno era più basso.

    «Nostro padre non è il signor avvocato, non è nulla» gli sussurrai nelle orecchie. «È un signore alto, snello, ben vestito, ma non è niente: è vuoto. Nothing. Capite " nothing"?»

    Sì, capivano.

    «Quello lì, quello nell’altra stanza, è un tipo balzano: uno scervellato… Capite, scervellato?» No, non capivano.

    «Insomma, quello lì, quello che sta seduto nello studio, è un contafrottole, dice un sacco di fesserie: è un bugiardo! Bugia… Dalla parola bugia viene bugiardo… Capite, bugiardo

    Fecero di sì con la testa.

    «Bene» ripresi; «e allora? Cosa fanno i bugiardi?... Dicono bugie, e questo è logico. Ma lui… quello lì, quello nell’altra stanza, ne ha inventata una grossa: una enorme!... Una bugia terribile, terribile!... Una cosa come invadere di fumo il mondo intero, tutto quanto: fino alla cima dei capelli… E si fa, una cosa simile? È ben fatta?... Insomma: quello lì, nostro padre, non è un avvocato, non è niente.»

    Impallidirono, forse. E noi cominciammo a spazientirci.

    «Non ha studiato niente, capite?! Niente codici, niente università, niente laurea, niente di niente… Avete inteso?!»

    Ma quei due, all’improvviso, si erano trasformati in due alte statue criselefantine, oro e avorio. Ci gettarono uno sguardo come il pollo al chicco e poi dissero: «Ma come: niente di niente… Come possibile questo…»

    «Ma sì, sì: è possibile! Ve l’assicuriamo noi: nothing, niente di niente!... Lui, quello lì, è niente di niente: aria, aria fritta! Che puzza.»

    «E i soldi?»

    «I soldi?!...»

    «Sì, i soldi…» E fecero il gesto con le dita.

    «Ah, be’, i soldi, i vostri soldi, ormai li avete persi, tutti. Non v’è più nulla da fare, a questo riguardo. Assolutamente nulla.»

    «Eh già» disse Flaminia, «proprio così. Perché lui, almeno in questo campo, se ne intende molto, moltissimo. E tutti quelli che vogliono riaverli in tasca, lui li manda dritti in galera: spediti come il fulmine.»

    «Galera?!...», ripeterono.

    «Sì, sì: galera. Prigione. Sbarre, insomma.»

    Urlarono qualcosa. E noi facemmo un passo indietro.

    «Ma non c’è da preoccuparsi a questo modo!... Davvero! Ve l’assicuriamo noi!... Basta non farsi più vedere» ripresi io, «basta scomparire. Andarsene via da quella porta in fondo e tutto finisce lì: svanisce. Capite svanisce?...» L’indiano ringhiò e noi, svelte, aprimmo l’uscio dello sgabuzzino. Poi richiudemmo.

    «E la galera?...» domandò il nero, quello più alto.

    «Eh, no: quella resta. Resta sempre. E per tutti quelli che vengono qui e in-si-sto-no è cosa sicura. Sicurissima.»

    « But, what’s the matter?!... I don’t understand: what do you want? What do you want!...»

    E lì si vide molto bene, molto nitido, l’indiano attaccarsi al collo di Flaminia mentre l’altro, il nero, lo tirava per la camicia. Una camicia da quattro soldi, sudicia.

    « Ok, ok: be quiet now, please. Seat down, please. Seat down.»

    Indicammo due sedie e quelli s’accomodarono; ma c’era un tanfo, in quello stanzino, un buio e un puzzo che non si poteva respirare. Aprii la finestra e il nero sudava. Ma sudava anche l’altro, sotto le ascelle e dappertutto, anche sul viso.

    «Dunque» ripresi guardandoli, con le mani in grembo,

    «finora una cosa è certa e voi l’avete capita. E cioè che quell’uomo lì» e indicai di fuori, «quel tipo nello studio e dietro la scrivania… l’avete vista, la scrivania?... Be’, quell’uomo, non è un avvocato: quell’uomo finge di essere un avvocato… Va bene?»

    « No. This is a bad business.»

    « Ok: bad business. Ma chi è il bad man? È lui, il bad man. Et pourquoi?... It’s simple: lui ruba. Lui beve i suoi long-drink, i suoi bibitoni col whisky, e s’inventa di essere nel giusto, di conoscere la giustizia. Voi la conoscete, la giustizia?»

    Non risposero.

    «Insomma» dissi io, «la conoscete, per così dire, a volo d’uccello… Non è così?»

    Assentirono.

    «…ed è giusto, infatti. Perché, chi la conosce, la giustizia: la Diche?... Noi no di certo.»

    «Lascia stare» disse Flaminia. «Sorvola.»

    «Comunque sia,» ripresi, «vi par giusto che due povere ragazze come noi siano state derubate di tutto e d’ogni cosa?... E vi par giusto che quattro fattorie in Corsica, più tre castelli in aria, più cinque appartamenti a Roma e quattro tombe etrusche, tonde, tutte dipinte, belle da far impallidire i lucumoni, se le sia prese tutte lui come un rapace? come un’aquila? come il falco che aguzzata la vista si getta coi suoi artigli sulla preda?... Vi par giusto, questo?... No, che non vi par giusto… E chi era la preda? Voi ve lo chiederete di certo, incuriositi: proprio come una bella coppia di cardellini. Ebbene, la preda eravamo noi! Solo noi! Eccole qua. Solo noi eravamo la preda…! La preda sbranata, martoriata, lacerata in tutte le carni e fatta a pezzi. Vi par poco?»

    Dissero di no e Flaminia specificò che era orribile: «veramente ineffabile…»; e poi voltò la testa verso il muro.

    « And our money?...» s’udì d’un tratto. « We are short of money!»

    « The money, the money… The money» feci sospirando

    «adesso volano alti come gli uccelli: as the birds…» e sorrisi.

    «Ma lui ha nostri soldi! Tutti nostri soldi!...»

    «Oh, mio Dio! Ma certo che li ha. Almeno li ha già avuti… Ma adesso sono volati via: sono scomparsi. Come i nostri. E voi,» sfoderai un’aria d’intesa «volete subir la stessa nostra sorte di misere femmine sbranate, martoriate, lacerate in tutte le carni e fatte a pezzi?...» Allungai il collo e gli fissai.

    « Ok, ok: these two are two big talker» dissero dopo un po’. « Good morning.» E s’alzarono, di scatto, tutt’e due. Non vollero stringerci la mano, però. E una volta imboccato il corridoio sparirono lungo le scale. Per non ricomparire mai più.

    Ma parecchi clienti, a dire il vero, se ne fuggivano di loro spontanea volontà: decisi. Alcuni pretendevano i loro denari e gridando sbattevano il pugno sul tavolo. Ma molti, il maggior numero, rimanevano perplessi. Entrati da lui con passo spedito, varcata la soglia e sbrigati i primi convenevoli, trovavano appesa al muro una scritta grande, fissata in alto, al lato sinistro della scrivania. Quel riquadro di terracotta giallastra, mezzo sbeccato, recitava così:

    « Si no encuentras remedio, de que te preocupes? Y es los encuentras, de que te preocupes?». Nient’altro.

    La parete intorno era candida come la neve e quelli se ne uscivano come se fossero nudi e senza scarpe. Alcuni credevano addirittura d’aver inciampato in non so cosa, si voltavano, e poi se ne andavano pieni di cartacce e di brogliacci: guardando di sottecchi, svicolando.

    «Ma la prego, signore…» diceva Flaminia inchinandosi, «la prego… Forse ha dimenticato qualcosa. Prego…» E quando il fesso, vergognoso, raccattava dal pavimento quell’inutilità piena di scarabocchi, lei riprendeva soave:

    «Il signor avvocato non ammette dimenticanze; se lo ricordi, è un bufalo.» E poi lo congedava sbattendo la porta, sonoramente.

    Ma poi riapriva. Gli faceva pissi-pissi per le scale e quando quello si voltava lento e ingobbito lei gli diceva

    «Mi scusi, signore, è stato il vento…» Oppure la neve, la grandine, il tornado. Anche in piena estate; anche quando il sole, in alto, spaccava il mezzodì.

    Eppure, i clienti ritornavano.

    Dapprincipio un po’ guardinghi e poi, via

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