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Quelli cattivi
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Quelli cattivi
E-book667 pagine9 ore

Quelli cattivi

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Info su questo ebook

La nascita e l’ascesa della grande mala nella capitale

Roma non vuole padroni

Omar Gentile, “colonnello” di una formazione di estrema destra e Pietro Salis, conosciuto come “er Cattivo”, boss indiscusso della criminalità del litorale romano: non hanno nulla in comune, né ideali, né obiettivi, né stile di vita. È un furto in banca da quaranta miliardi, realizzato a metà degli anni Ottanta, a segnare l’inizio di un sodalizio criminale tra i terroristi neri e i criminali di Ostia. E a dare il via a una catena di omicidi, attentati e ricatti che andrà avanti per più di un decennio, attraversando una delle fasi più drammatiche e sanguinose della storia italiana e della Capitale, funestata da una malavita spietata e aggressiva e dalla tragedia degli anni di piombo. Partendo da un reale fatto di cronaca, Antonio Del Greco e Massimo Lugli, con un ritmo serratissimo e colpi di scena di ogni genere, raccontano l’affascinante e violenta storia della “grande mala”: la sua nascita, l’ascesa e il cambiamento di un gruppo criminale che ancora oggi domina incontrastato sulla scena di Ostia e di Roma.

Un episodio di cronaca nera diventa un romanzo feroce e appassionante

Un terrorista nero.
Un boss della criminalità romana.
Una città dilaniata dalla violenza e dalla sete di vendetta.

Hanno scritto degli autori:
«Metti insieme uno Sbirro e un Cronista con le maiuscole, e trovi un pezzo del Paese e di Roma che non ci sono più. La Questura di Roma e Roma sono state esattamente quel mondo in cui vi preparate a entrare leggendo le pagine di Lugli e Del Greco.»
Carlo Bonini
Massimo Lugli
Si è occupato per «la Repubblica» di cronaca nera per quarant’anni. Ha scritto Roma Maledetta e per la Newton Compton La legge di Lupo solitario, L’Istinto del Lupo, finalista al Premio Strega, Il Carezzevole, L’adepto, Il guardiano, Gioco perverso, Ossessione proibita, La strada dei delitti, Nelmondodimezzo. Il romanzo di Mafia capitale, Stazione omicidi. Vittima numero 1, Vittima numero 2 e Vittima numero 3, Città a mano armata, Il criminale e nella collana LIVE La lama del rasoio. Suoi racconti sono contenuti nelle antologie Estate in giallo, Giallo Natale, Delitti di Ferragosto, Delitti di Capodanno e Delitti in vacanza. Ha firmato con Andrea Frediani Lo chiamavano Gladiatore. Cintura nera di karate e istruttore di tai ki kung, pratica fin da bambino le arti marziali di cui parla nei suoi romanzi.Antonio Del Grecoè nato a Roma nel 1953 ed è entrato in Polizia nel 1978. Dopo i primi incarichi alla Questura di Milano, è stato dirigente della Omicidi. Sue le indagini su alcuni dei più grandi casi di cronaca nera degli ultimi anni, tra cui l’omicidio del “Canaro” alla Magliana, la cattura di Johnny lo Zingaro, il delitto di via Poma, la Banda della Magliana. Attualmente è direttore operativo della Italpol.Insieme hanno scritto Città a mano armata, Il Canaro della Magliana e Quelli cattivi.
LinguaItaliano
Data di uscita28 nov 2018
ISBN9788822728388
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    Anteprima del libro

    Quelli cattivi - Massimo Lugli

    copertina Quelli cattivi

    2188

    Prima edizione ebook: febbraio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    978-88-227-2838-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Massimo Lugli – Antonio Del Greco

    Quelli cattivi

    logo Newton Compton editori

    Indice

    Prologo

    Parte I

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Parte II

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    Capitolo XIII

    Parte III

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    Capitolo XIII

    Epilogo

    Alla memoria di Rino Monaco

    Prologo

    Il caffè sapeva di sabbia. O forse era la sua bocca. Fece una smorfia di disgusto e accese una Marlboro. Anche il fumo faceva schifo. Tutto faceva schifo.

    Si guardò allo specchio della stanza da letto. La canottiera bianca tesa sulla pancia strabordante. I pettorali rilassati che cominciavano a sembrare i seni di una vecchia, l’accenno di pappagorgia, i peli grigi sul petto, i muscoli flosci delle braccia, le gambe secche da fenicottero, i capelli sempre più radi, lunghi sulle orecchie, il gran naso rapace da tucano che, col passare del tempo, appariva sempre più grosso, sempre più incongruo, in caduta libera verso il labbro superiore. Una maschera. La maschera grottesca di un viso che, in passato, era stato bello o quantomeno attraente. Un viso crudele, aggressivo, che faceva paura ma non privo di un fascino sinistro. Nobilmente rapace, l’aveva definito una squinzia che aveva fatto il classico e che si faceva sbattere una volta alla settimana in cambio di un grammo di coca. Nobilmente rapace. All’inizio aveva pensato che lo stesse prendendo per il culo, poi, da solo, ci aveva riflettuto, aveva assaporato quell’espressione idiota come una caramella. Nobilmente rapace, proprio così. Una faccia da pirata, da contrabbandiere fenicio, da assassino. Adesso era la faccia di un vecchio. E aveva solo cinquantaquattro anni.

    Soltanto gli occhi erano rimasti gli stessi. Quegli occhi grigi, freddi, inespressivi che gli avevano dato il soprannome con cui lo chiamavano tutti, nel giro: er Cattivo.

    Si avvicinò allo specchio con una sorta di perversa curiosità per se stesso, per quel se stesso che ormai non riconosceva più. Rughe, ciccia, peli e tutto il resto. Troppe sigarette, troppi spaghetti, troppa coca, troppo whisky. Troppo tutto. Vivere al massimo, morire giovani e avere un bel cadavere. I Marsigliesi dicevano così e infatti, a forza di sparatorie, faide, infamate, vendette e regolamenti di conti, quasi tutti avevano chiuso bottega prima dei trent’anni, accoppati in strada, in carcere, in uno scontro a fuoco suicida con la polizia per non farsi arrestare. Lui no. Era sopravvissuto. Aveva vinto. Lui e gli altri che avevano preso il posto dei francesi, dei Pesciaroli, di quei pazzi assetati di sangue della gang delle Belve di Lallo lo Zoppo. Era ancora lì. Grosso, gonfio, imbolsito, stanco, disilluso ma vivo. E ricco. Potente. Rispettato. Temuto.

    Sospirò. In fondo ci poteva anche stare. Un po’ di palestra, un po’ di dieta, un’ora di corsa tutte le mattine e sarebbe tornato un figurino. Da quanti anni se lo proponeva?

    S’infilò la vecchia tuta della Roma, calzò le infradito e aprì la porta della camera da letto per riportare la tazzina sporca in cucina. Era sempre stato un tipo ordinato, preciso e, nonostante la colf filippina, gli piaceva sbrigare da solo le piccole faccende. Da solo o con Barbara. Sorrise pensando a quella figlia di dieci anni cresciuta senza madre. Una bambina curiosa, impertinente, sveglia, che, ogni tanto, assumeva qualche atteggiamento materno, lo prendeva in giro, lo sfotteva, gli diceva di non fumare troppo, lo sgridava, lo accudiva, gli portava il caffè la mattina. Un caffè schifoso, che sapeva di terra o di sabbia ma lui si sarebbe fatto spellare vivo piuttosto che dirglielo. Barbara. La sua gioia, la sua vita. L’unico essere umano che lo amava per quello che era, non per i soldi, il potere, la paura che incuteva a tutti.

    «Papà, ti stanno rubando la macchina».

    Sogghignò. Sempre la stessa. Un folletto malizioso che adorava farlo sobbalzare, prenderlo in giro, inventarsi di continuo nuove trovate per strappargli una risata o almeno un sorriso, quando i fantasmi tornavano a tormentarlo.

    «Papà, guarda che è vero… Ti stanno fregando la Mercedes».

    Tese le orecchie. Il sibilo modulato dell’allarme era inconfondibile. Corse sul balcone dell’attico che dominava i cinque piani del palazzo rossastro e guardò in strada. All’inizio non vide niente di insolito: file di auto parcheggiate su entrambi i lati, le tende a strisce tirate giù per difendere i balconi dal sole di inizio estate, la sua Mercedes 190 parcheggiata nel posto dei disabili grazie al permesso che aveva rimediato allungando qualche millanta extra al tizio della circoscrizione che teneva a stipendio. La macchina sembrava a posto. Forse il solito imbecille aveva fatto partire l’allarme appoggiandosi a una portiera o urtando la Mercedes mentre parcheggiava. Il mondo è pieno di idioti.

    Poi guardò meglio e li notò. Due figure minuscole che armeggiavano attorno al portellone posteriore. Una faceva da palo, con la faccia rivolta alla strada, l’altra si dava da fare sulla serratura con qualcosa che non riusciva a vedere, da quella distanza, ma che sicuramente doveva essere uno spadino o un cacciavite.

    «Porco…». La bestemmia gli salì alle spalle spontaneamente, lui che non bestemmiava mai e che, davanti alla bambina, stava attentissimo a non dire neanche cazzo o figa.

    Gli stavano rubando la macchina. A lui. Sotto casa sua. Impensabile.

    Ruggì di rabbia, fece per precipitarsi in strada ma, sulla porta, si fermò un attimo e sfilò la mazza da baseball dal portaombrelli all’ingresso. Normalmente non ce ne sarebbe stato bisogno, gli sarebbe bastato farsi vedere e quelle teste di cazzo si sarebbero buttate in ginocchio, avrebbero belato scuse e giustificazioni, si sarebbero offerte di ripagare il danno pisciandosi sotto per la paura. Forse venivano da fuori, stabilì mentre soppesava il bastone di acero canadese, liscio e bilanciato, in grado di frantumare una spalla e un ginocchio con un solo colpo bene assestato. Quelle merde avrebbero capito che cosa voleva dire toccare la Mercedes del Cattivo. Magari erano due tossici così strafatti da non aver riconosciuto la strada, il palazzo o la macchina. Be’, avevano fatto un grosso errore e se ne sarebbero resi conto.

    «Resta dentro e non ti affacciare per nessun motivo, capito?», barrì rivolto alla figlia che era comparsa in corridoio nel suo pigiamino rosa coi coniglietti.

    Lei lo guardò e fece una faccia strana, come di compassione.

    «Non ti affacciare, chiaro?», ripeté stizzito. Certe volte quella ragazzina lo mandava in bestia. Come sua madre, riposi in pace.

    «Sì, papà».

    «Brava».

    «Cos’è che non devi fare?». Il vecchio gioco del sergente dei Marine che strapazza una recluta.

    «Affacciarmi, papà».

    «Bravissima. Torno subito».

    Si rese conto di non aver nascosto la mazza dietro la schiena per non fargliela vedere e imprecò tra sé mentre scendeva i gradini a due a due.

    Spalancò il portone, conscio del fatto di essere in tuta e con le infradito ai piedi, ma chissenefrega. Il sole lo colpì in faccia come una staffilata e gli abbagliò la vista per qualche istante mentre sventolava la mazza in alto con aria minacciosa e ruggiva una minaccia.

    «Ve spezzo l’ossa, pezzi de merda».

    Poi li vide.

    Caschi integrali. Giubbotti di pelle. La grossa enduro col motore acceso che borbottava iroso a un metro di distanza, pronta per la fuga. Non vide le armi ma non ce n’era bisogno.

    Scagliò la mazza verso il più vicino, che schivò con un movimento fluido, aggraziato, da torero, si girò di scatto per tornare nel portone ma ci ripensò. Vaffanculo. Non si sarebbe fatto ammazzare alle spalle, mentre scappava come un vigliacco. Non lui. Non lui. Non er Cattivo.

    Si voltò di nuovo, respirò a fondo e fronteggiò il killer con la faccia nascosta dall’integrale che si avvicinava con calma, la grossa semiautomatica nera spianata, fin quasi a toccarlo.

    «Spara, figlio di troia. Spara se hai il coraggio, frocio», lo provocò.

    L’altro restò immobile, con la pistola puntata tenuta a due mani, come nei film. Per un attimo fu travolto da un’enorme ondata di sollievo. Non spara. È tutta una finta. Vogliono mettermi strizza. Sono vivo.

    Non sentì il botto. Solo un pugno tremendo al centro del torace, poi qualcosa che gli schiantava la testa con una forza e una velocità terrificanti, da giudizio universale, portandosi dietro solo ossa spezzate, sangue, cervello frantumato, connessioni neurologiche strappate, pensieri maciullati, sensazioni interrotte.

    Quando crollò a terra era già morto. Qualcuno vide la enduro che schizzava via d’impennata, si voltò dall’altra parte e corse via, prima che arrivassero gli sbirri.

    E la mia giustizia calerà su di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno…

    Ezechiele, 25,17

    Parte I

    Capitolo I

    Lido di Ostia, Roma, aprile 1984

    «Quanti saranno?»

    «Tre. Come noi».

    Er Fanfara fa un sospiro rassegnato. È la terza volta che glielo dice.

    «Vengono accavallati?»

    «Quelli so’ sempre accavallati, a Piè… Ce lo sai come so’ fatti, no? Piuttosto che fasse beve fanno ’na carneficina».

    Pietro Salis scola quello che resta del Bushmills e sospira. Senso di malessere. Diffidenza. Sospetti. Eppure la storia sembra chiarissima.

    Mirko guarda ostentatamente il Rolex e sbuffa. Mai visto er Cattivo così indeciso, sembra quasi che abbia strizza. Ovviamente si guarda bene dal farglielo notare.

    «Te porti er ferro, chiaro?».

    Er Fanfara, per una volta, tiene a bada il vocione che gli è valso quel soprannome ridicolo e si limita a tirar fuori dalla tasca un pezzo di calcio della Beretta 7,65.

    «Nun ce ne sarà bisogno, a Cattì. Quelli so’ venuti pe’ parlà d’affari. Nun ce l’hanno co’ noi, so’ in guera co’ le guardie, coi politici… Ma perché te rode tanto?».

    Ecco, gli è scappata. Un lampo d’acciaio sfavilla negli occhi di Pietro che s’imbruttisce all’istante.

    «Nun me rode, a Fanfà, ma nun me convince nemmeno. A me ’sta gente che va a fà casino pe’ strada nun m’è mai piaciuta».

    «E manco a me, a Cattì, ma quelli c’hanno un ideale, una fede…».

    «E sticazzi… Vabbè, annamo ch’è mejo».

    Er Fanfara nasconde il sollievo. Era ora. È lui che ha organizzato l’incontro e arrivare tardi è un pessimo inizio. Specie con tre terroristi latitanti che, ogni minuto che passa, si guardano attorno col dito sul grilletto fiutando una trappola.

    Escono da casa del Cattivo e si avviano verso l’Alfetta seguiti da Scrocchiazeppi, l’allampanata guardia del corpo di Pietro Salis, che apre bocca una volta l’anno e, a guardarlo, secco come un bastone e con quella faccia da beccamorto, sembra assolutamente incongruo nel suo ruolo ma, quando s’incazza, è meglio essere a un chilometro di distanza. Er Cattivo deve trovarcisi bene perché se lo porta appresso da almeno quindici anni. Forse è proprio per il fatto che sta sempre zitto e non rompe le palle a cianciare, chissà.

    Montano in macchina, er Cattivo dietro e Scrocchiazeppi che guida, con er Fanfara a fianco, come al solito, e puntano verso la Colombo, direzione Eur, bar Palombini, dove er Fanfara ha fissato l’incontro. Un posto pubblico, tra la gente, dà più garanzie: via di fuga aperta se butta male, meno possibilità di cimici piazzate da qualche parte.

    «Allora, Mirko, dimme che vonno questi da me».

    «A Cattì, ma t’ho spiegato tutto tre volte».

    «E spieghemelo la quarta, Fanfà. Così ce passa er tempo».

    Mirko abbozza e tace, oggi butta così. Neanche lui è un gran parlatore e quindi ripetere il discorso lo mette a disagio. Del resto non ha alternative. Nessuno ne ha quando il Cattivo si mette in testa una cosa.

    «Allora, ce sta ’sto Omar Gentile che…».

    «Dall’inizio, Fanfà. Dall’inizio».

    Er Fanfara alza gli occhi al cielo. Giornataccia.

    «Dunque. Mi’ cugino, Renato, che poi lo conosci… Quello coll’occhio storto».

    «Sì, er Lampione».

    «Proprio lui. Stava a buiosa co’ te cinque anni fa si te ricordi, ’na stronzata de rapina che manco era stato lui ma l’hanno incastrato perché…».

    «Ar sodo, Fanfà… sai che me frega de tu’ cugino».

    «Vabbè. Insomma, er Lampione è sempre stato fissato cor duce, la patria e ’ste cose qua. È uno preciso, se fa li cazzi sua ma la pensa così. Pe’ motivi de politica conosceva uno che sta nel giro de ’sto Omar. Du’ settimane fa è venuto da me e m’ha detto che lui, Omar, te voleva incontrà. Che te conosce, te stima e te vorebbe proporre un bel movimento che de sicuro te piacerà. M’ha chiesto se se poteva organizzà la cosa e er resto ce lo sai».

    Salis annuisce a bocca stretta. Sa un sacco di cose, soprattutto con chi ha a che fare. Prima di accettare ha preso le sue informazioni e dovrebbe stare tranquillo. Eppure quel senso di malessere, di sospetto non lo lascia in pace.

    «Parlame de ’sto Omar Gentile».

    Er Fanfara fa spallucce. «È uno tosto, a Cattì. Fascistone fino al midollo, s’è buttato latitante da un anno. Ha fondato ’sto gruppo, Rivoluzione Nazionale, una ventina de persone, tutte fori de testa come lui. Li comanna un tizio, una specie de professore che se chiama Massimo De Signori, quello che pensa e decide tutto. Mo’ ’sto Omar sta ricercato pe’ quella storia der Villaggio Olimpico, te la ricordi, no? Du’ sbirri sparati in testa dopo che l’avevano fatti inginocchià. Un’esecuzione. Dicono che è stato lui, co’ altri tre dei suoi».

    «È vero?».

    Fanfara fa un gesto che potrebbe voler dire tutto.

    «Secondo le giuste sì. Io nun je l’ho chiesto, anche perché nun c’ho mai parlato. E comunque so’ cazzi sua».

    Er Cattivo contempla la sfilata di pini marittimi dal finestrino, qualche mignotta africana seminuda che fa capolino dardeggiando la lingua dal bordo della pineta, le macchine che rallentano per accostarsi. Ormai in strada ci sono solo negre e froci brasiliani, riflette. Le troie della sua adolescenza, quelle che battevano a Tor di Quinto o sul lungotevere, più regolari e precise di un semaforo, si sono tutte rintanate a casa.

    «E ’sto maneggio che roba sarebbe?», butta lì con tono indifferente. Fanfara fiuta la trappola e scantona.

    «Te l’ho detto: nun ce lo sooo-ooo», cantilena. «’Sto Omar se vo’ spiegà solo co’ te, faccia a faccia. Mi’ cugino sa soltanto che ce so’ bei soldi da fà… A Pietro, ma che c’hai? Se tratta solo de parlacce: si te convince bene, sinnò tanti saluti e buonasera. Scusa eh, ma pare che nun te fidi de me…».

    «Tranquillo, Fanfà, co’ te nun ce so’ problemi. È solo che…».

    Er Cattivo lascia la frase a metà e continua a rimuginare in silenzio. È solo che questa storia di attentati, sbirri ammazzati, bombe e sparatorie non gli è mai piaciuta. Anche lui ha le sue idee e la sua fede, ai tempi del Capoccione era un’altra cosa, la gente rigava dritta, i treni arrivavano in orario… Il duce ha fondato Sabaudia, Latina, Carbonia, ha bonificato le paludi pontine, ha dato scuola e pane agli italiani e, di sicuro, nel Ventennio si stava meglio di oggi. Queste cose le sanno tutti ma le bombe, le pallottole che c’entrano? Pietro se ne frega alla grande, di due sbirri addobbati, ma da quando rossi e neri si sono messi a fare casino non si vive più, guardie e carubba sono in fibrillazione, c’è un posto di blocco a ogni chilometro e le brave persone come lui rischiano di farsi sparare per sbaglio o magari di farsi perquisire a tradimento proprio quando giri con un paio d’etti in macchina. Comunisti, fascisti, da questo punto di vista, per Pietro sono uguali: grandi casinari e basta.

    «E tu come la pensi?», lo stuzzica.

    «De che?»

    «De politica, no?»

    «Io? Io nun ce capisco un cazzo. A un palmo dal culo mio va tutto bene».

    «Bravo, te l’appoggio».

    «E io te lo spingo».

    Il vecchio scherzo di quand’erano pischelli. Con Mirko si conoscono da ragazzini, andavano a cacciare le vipere alle pendici del Gianicolo per rivenderle al farmacista di piazza della Scala (che chissà che ci faceva, se lo sono sempre chiesto) a mille lire l’una, e qualche confidenza è perdonata. Se non si fidasse ciecamente, del resto, non avrebbe mai acconsentito all’abboccamento. Incontrarsi con un latitante è sempre un rischio, doppio se si tratta di un terrorista ricercato per l’omicidio a freddo di due poliziotti. Er Cattivo ha fatto lo gnorri, ma la storia la conosce bene, una gran porcata. I due sbirri sono stati disarmati, portati in una zona buia, messi in ginocchio e freddati con un colpo alla nuca, prima uno e poi l’altro. Quanto basta per far incazzare tutta la polizia e i carabinieri d’Italia. In questi casi le guardie prima sparano e poi ordinano il mani in alto e Pietro non ha alcuna voglia di finire in mezzo al fuoco incrociato o, se va bene, in questura a dover spiegare il perché e il percome se la faceva con un killer di sbirri. Senza pensare che i Neri sono matti come cavalli matti e c’è perfino la possibilità che vogliano stenderlo per qualche ragione che neanche immagina. A ogni modo ormai è fatta. Si fida di Mirko e soprattutto di Scrocchiazeppi, che si porta dietro la .38 special perfino al cesso e spara meglio di Tex. Lui, Pietro Salis, non gira mai accavallato. Semplicemente non ne ha bisogno.

    L’Alfetta, nel frattempo, sta scivolando lungo una strada dal nome impronunciabile, largo Konrad Adenauer e si ferma sotto un gran palazzo bianco sfolgorante di cristallo, che domina una distesa di ombrelloni festonati di buganville viola. Scrocchiazeppi parcheggia, scende e apre la portiera al Cattivo con un gesto da chauffeur. Pietro apprezza e scende con la maestosità di un sovrano, hai visto mai che quegli esaltati lo stiano a cioccare. Di sicuro, Omar, oltre ai due tirapiedi, ha piazzato qualche vedetta in giro pronta a dar l’allarme se c’è puzza di sbirro. Er Cattivo ha la bruttissima sensazione di essere osservato a distanza e combatte il disagio continuando a darsi un tono da mammasantissima. Si avvia piano verso i tavolini all’aperto scortato dai suoi due guardaspalle e non ha bisogno di chiedere a Mirko quali sono i Neri. Li riconosceresti lontano un miglio, con quei capelli corti alla militare in un periodo in cui chiunque li porta lunghi almeno sulle orecchie e sul collo, i grugni chiusi e duri, le occhiate oblique che dardeggiano in ogni direzione. Mentre si accosta con un bel sorriso da amicone stampato in faccia er Cattivo si dice che se quei tre pensavano di mescolarsi alla gente per non dare nell’occhio, be’, hanno parecchie cosette da imparare.

    Omar lancia ai suoi un’occhiata che dice: eccoli. Poi si alza a metà e tende la mano a Pietro. Una stretta breve e asettica. Scrocchiazeppi ed er Fanfara scambiano con i due Neri un’occhiata di mutuo riconoscimento, poi tutti si siedono in attesa che i capi comincino a parlare.

    I Neri guardano il terzetto di barabba cercando di non mostrare troppo disprezzo: ladroni senza ideali pronti a vendersi al primo che capita.

    I barabba guardano i Neri con svagata sufficienza: coglioni rincretiniti dalla politica capaci solo di combinare casini.

    Insomma, come primo approccio l’atmosfera non è il massimo.

    Tra i due terzetti potrebbe calare una saracinesca, tanto per sottolineare la distanza. Pietro e i due ladroni coi capelli lunghi, le capezze d’oro da quindici chili, gli anelli, i Rolex, l’abbigliamento casual fighetto da boutique, quell’aria da metemagno che si può assumere solo se hai alle spalle generazioni intere di coatti. Omar e i guardaspalle seri, sobri, quasi monastici coi loro capelli alla militare, il bomber o il giubbotto di pelle, le mascelle contratte, le occhiate dure che non si fermano da nessuna parte. Soldati votati al sacrificio che irradiano la consapevolezza di poter morire da un istante all’altro.

    Pietro pensa alle pistole cariche, col colpo in canna, che sicuramente i terroristi portano in tasca o alla cintola e si schiarisce la voce come a dire: devi parlà? Parlamo e non tirarla troppo per le lunghe.

    «Prendete qualcosa?». Omar fa sfoggio di buone maniere.

    «Io… ’na biretta, grazie». Fanfara e Scrocchiazeppi annuiscono per dire una anche a loro. Avrebbero fatto lo stesso se Pietro avesse ordinato un centrifugato di sugna.

    Omar fa cenno al cameriere, che schizza al tavolo con una prontezza assurda in qualunque bar o ristorante romano e prende le ordinazioni.

    «Sono molto contento di vederti, Pietro, grazie di essere venuto», attacca Omar. Pietro risponde con il gesto benevolo del capo di un sovrano che concede udienza.

    «M’hanno detto che c’hai per le mani un lavoro».

    «Esatto. Un lavoro che potrebbe interessarti». Il tono di Omar è asciutto, nessuna forma di servilismo accattivante da commesso viaggiatore. Er Cattivo alza il mento in una domanda muta, ma in quel momento arriva il cameriere che, evidentemente, dev’essere votato anche lui alla causa del duce e conoscere i tre Neri, data la velocità. Pietro capisce al volo che è una sentinella, un camerata sotto copertura pronto a lanciare l’allarme in caso di facce sospette, e assegna mentalmente un paio di punti a Omar che, evidentemente, sa scegliersi il terreno di gioco.

    I Neri alzano i loro bicchieri semipieni, i barabba le bottiglie per bere a canna e il clima si riscalda di tre o quattro gradi.

    «Bene, Pietro, conosci Marbella?»

    «Chi è, quella che fa i bocchini a garganella?».

    Il Nero fa un sorriso al limone, Pietro capisce che era meglio se si tappava la fogna ma ormai gli è scappata. Il suo raffinato sense of humour, a volte, prende il sopravvento. E poi, a dirla tutta, quel tipo se la tira troppo per i suoi gusti e gli va di pimpinarlo un po’. Fede, ideale, duce e tutto il resto andranno anche bene, ma qui chi comanda è lui e i Neri farebbero bene a ricordarselo. Chi pretende rispetto deve mostrarlo.

    «Marbella, comune dell’Andalusia, Costa del Sol, Spagna. A metà strada tra Malaga e Gibilterra, centoquarantamila abitanti, belle spiagge, una decina di campi da golf, parecchi attori e VIP a zonzo in pantaloncini e ciabatte, un sacco di soldi in giro», sciorina Omar come un professore di geografia.

    «Certo che ’a conosco, a Omare, stavo a scherzà… E che doveremmo da fà a Marbella?».

    Omar non abbassa la voce, visto che non siamo in un B movie. Effetto troppo facile.

    «Un buco».

    «Un buco? Intendi in banca?».

    Omar annuisce. «Banco de Andalucía. Uno dei pochi che abbia un caveau. Sto parlando di decine di cassette di sicurezza, affittate a VIP, industriali, politici, cinematografari… Insomma, quella feccia lì. In tutto dovrebbero esserci almeno trenta miliardi, forse il doppio».

    Pietro trattiene un fischio di sorpresa e ricorda a se stesso la prima regola di ogni contrattazione: mai mostrarsi troppo interessati.

    «E ce saranno pure un sacco de guardie, de allarmi e de telecamere».

    «Certo. Non ho detto che è una cosa facile. Ma se ti ho chiesto di venire è perché si può fare».

    Pietro fa il gesto col mento da siciliano che ormai sta diventando un tic e stavolta significa: come?

    «Ho un basista nella banca. Una persona che può farci entrare e conosce tutti i sistemi di sicurezza».

    «Chi è?».

    Lo sguardo di Omar diventa una lama.

    «Prima ti illustro la cosa, poi vediamo di metterci d’accordo e, se accetti, ti spiego chi è il basista… Con tutto il rispetto, s’intende».

    Pietro capisce che il tizio l’ha svagato e abbozza. La domanda era una provocazione, un modo per capire chi ha davanti. Omar continua come se niente fosse.

    «Il colpo si può fare in qualunque momento, anche domani. Il nostro aggancio potrebbe entrare nel caveau assieme a uno dei tuoi, col paravento di affittare una cassetta di sicurezza. È già operativo e pronto a entrare in azione. Per il buco servono almeno quattro persone: due scavatori, un cassettaro e un allarmista d’alto livello. Sono sicuro che non avrai difficoltà a ingaggiarli. Una volta fatta la cosa, il bottino dovrebbe tornare immediatamente in Italia, al compenso del basista ci penso io in seguito. Tu dovresti occuparti anche della seconda fase, il trasporto».

    «E come? Li faccio venì a nuoto co’ tutti i brillocchi in saccoccia?».

    Omar storce la bocca e si domanda se ha fatto bene a rivolgersi a questo buffone. Eppure tutti lo considerano il boss indiscusso di Ostia, e non solo di Ostia. Uno dei malavitosi più quotati di una gang che si sta conquistando rapidamente il predominio sulla mala romana, una cosa che finora non s’era mai vista, neanche ai tempi dei Marsigliesi. Be’, se questo è così, figuriamoci gli altri. Barabba. Quando saremo al potere, tutti al muro o a spalar carbone senza tante stronzate di processi, riflette. Comunque Pietro adesso gli serve quindi si dà una calmata.

    «Per il trasporto puoi utilizzare una delle tue barche. Quelle che usi per trasportare il fumo che arriva dal Marocco».

    Pietro annuisce, visto che se l’aspettava. Che sia il più grosso importatore di hashish in tavolette, olio, kift o erba dal Nord Africa a Roma via Spagna non è un segreto per nessuno. Un mercato evergreen che ha il suo zoccolo duro di aficionados e non conosce crisi, neanche con la concorrenza dell’eroina brown sugar che arriva a fiumi dal Triangolo d’Oro, degli acidi olandesi o della cocaina made in Colombia che sta prendendo sempre più piede. I cannaroli non molleranno mai i loro cilum o i loro spinelli.

    «Quindi, se ho capito bene, io ce metto er personale, li sordi e la nave», riassume Pietro, visto che è venuto il momento di mostrare le zanne. «E tu?»

    «Io ci metto il know how e il basista. Senza di me il colpo non si può fare, punto».

    Pietro si sforza di prodursi in una risatina ironica e ne esce una specie di raglio.

    «Si me gira er culo, manno a Marbella un paio dei miei, studio la cosa e faccio tutto da solo», minaccia.

    Omar fa spallucce. Rischio calcolato.

    «Provaci. È assolutamente impossibile. Senza un contatto in loco e lo schema dell’allarme li blinderebbero prima ancora di essere arrivati al caveau».

    E se non ci arriva la polizia, adesso che ti ho spiegato la faccenda, ci penso io a farli arrestare con una bella soffiata al momento giusto. Omar non lo dice, ma Pietro capisce al volo. La sua, del resto, è stata solo una sbrasata. Una porcata simile significherebbe guerra e lui non ha alcuna voglia di mettersi in conflitto coi Neri, matti assassini come sono.

    «E ammesso che ce vorebbi entrà, in questa storia, tu che percentuale vorresti?», butta lì.

    «Fifty fifty. Facciamo a metà. Mi sembra giusto, no?».

    Pietro trattiene a stento un altro raglio, stavolta di scherno.

    «Me stai a cojonà? Le spese so’ tutte mie, li rischi puro e dovemo fà a metà?». Er Cattivo gira uno sguardo costernato sugli impassibili Scrocchiazeppi ed er Fanfara, come a chiamarli a testimoni di fronte a cotanta pretesa assurda. Poi inizia a mercanteggiare.

    «Senti, a Omare, so che sei ’na persona seria e te rispetto. Su ’sta cosa ce devo ancora pensà ma me potrebbe annà a genio, solo che cinquanta e cinquanta nun sta né in cielo né in tera. Famo così: si la storia va in porto te do er trenta percento e me so’ svenato. Intesi?»

    «Non se ne parla… Mi fermo al quaranta percento. Se non ti sta bene lasciamo stare, ti ringrazio di avermi ascoltato. È stato un piacere conoscerti». E Omar punta i gomiti sul tavolo e fa il gesto di alzarsi.

    Inaspettatamente, Pietro lo precede e s’alza anche lui, seguito dai guardaspalle. Perfetta scelta di tempo.

    «Vabbè, a Omare, se semo sentiti… Mo’ ce penso un po’ e poi te faccio sapè. Chiamame dopodomani in sala giochi… Telefona a mezzogiorno e chiedi de me». E come un prestigiatore estrae dalla tasca un bigliettino con un numero di telefono e lo allunga a Omar che, latitante, non ha un recapito e se ce l’ha se lo tiene ben stretto. Poi er Cattivo prende la birra, accenna a un brindisi ironico e la scola, immediatamente imitato da Scrocchiazeppi ed er Fanfara, che alzano le bottiglie in sincronia come lieti suonatori di corno.

    Omar resta un attimo interdetto, visto che pensava a una contrattazione più lunga e laboriosa, si rende conto di essere stato battuto, accenna a un sì con la testa, si gira e se ne va seguito dai due Neri che scoccano al gruppo dei barabba le solite occhiate indecifrabili. Nessuna stretta di mano. Quella arriverà dopo, ad accordo concluso, ammesso che si faccia.

    «’Namo a casa?». Scrocchiazeppi si mette al volante e rientra in modalità autista mentre er Fanfara s’aggiusta meglio il revolver che, infilato alla messicana direttamente nella cintura, gli dà fastidio alla schiena. Nessuno dei due si sogna di chiedere al Cattivo che cosa ha intenzione di fare coi Neri: la decisione spetta solo a lui e, probabilmente, ci deve riflettere.

    «No… Portame da Rosa».

    Rosa Veroli, alias la Signora. Ultima amante ufficiale di Pietro Salis, marito a buiosa che sconta quindici gallinelle per narcotraffico e associazione per delinquere: una bomba di sesso e cocaina, foraggiata generosamente da Salis, che le allunga un mensile così lauto da permetterle di vivere comodamente senza dover più fare la vita e spedire ogni mese pacchi principeschi al maritino cornuto in carcere, che ha saggiamente scelto di non domandarsi né domandare da dove viene tutto quel bendidio. A forza di stare in galera, del resto, s’è adattato così bene che s’è praticamente sposato con un femminiello napoletano blindato per rapina a un cliente e di quella moglie zoccola non gliene importa più niente.

    L’Alfetta si ferma mezz’ora dopo davanti a un vecchio palazzo di Monteverde, affacciato su una teoria di platani intossicati dallo smog.

    «Aspettateme, sargo ’n attimo a vedè si sta in casa…». Pietro scende dalla macchina, suona al citofono e s’infila nel portone mentre er Fanfara e Scrocchiazeppi si preparano a un’attesa più o meno lunga, a seconda di quanto è ingrifato il boss, visto che ormai conoscono la procedura.

    Er Cattivo sale al secondo piano e spinge una porta già semichiusa. Rosa lo sta aspettando nella sua castigata mise casalinga: minigonna leopardata, calze a rete col reggicalze, scarpe viola con tacco dodici, bombe che straripano dal golfino simil angora di poliestere.

    «Finarmente, amo’, stavo a smanià pe’ vedette», gorgheggia mentre si toglie la gomma da masticare dalla bocca e l’appiccica allo stipite visto che il rituale degli incontri è sempre lo stesso, e per quello che sta per fare il chewing gum può essere d’impaccio.

    «Puro io, amo’, nun vedevo l’ora de svotamme li cojoni», replica galantemente er Cattivo, che dopo un fugace bacetto sulla guancia inizia a calarsi le brache in piedi com’è. Due nanosecondi dopo la testa bionda e cotonata di Rosa sta oscillando ritmicamente all’altezza dell’inguine di Pietro, che alza gli occhi al cielo come un mistico in estatica contemplazione.

    La storia dura un po’ più del solito, visto che Pietro è deconcentrato e continua a domandarsi se quella faccenda coi Neri vale la pena o no. Quando, finalmente, inonda la bocca di Rosa, con una sorta di gorgoglio agonico, non ha ancora deciso cosa fare.

    «Ammazza quant’eri carico».

    «Aspettame, scendo dai miei e risalgo subito. C’hai quarcosa da magnà?»

    «Te faccio du’ spaghetti all’amatriciana e me so’ rimasti i messicani der pranzo cor sugo e la mentuccia».

    «Boni. Va ’n cucina che mo’ torno».

    Scrocchiazeppi ed er Fanfara lo vedono arrivare con la patta ancora sbottonata, tanto per far capire che non è stato tutto quel tempo a giocare a rubamazzo.

    «Me fermo a dormì da Rosa, veniteme a pija domattina alle nove precise», annuncia.

    «Alle nove, bella Piè».

    L’auto riparte mentre er Cattivo torna alla sua cenetta, alle pippate di coca e, forse, alla scopata che ne seguirà, ammesso che abbia ancora voglia. Le serate con Rosa sono sempre rilassanti anche perché la Signora ha il merito indiscusso di saper tenere la bocca chiusa e usarla solo per le cose che contano. Pietro arriva perfino a confidarle i suoi dubbi, se capita, tanto quella non risponde mai se non con qualche distratto «sì, amo’», «c’hai raggione, amo’» e «sei proprio ’n capo, amo’». La donna perfetta.

    Lungo la strada Scrocchiazeppi lancia un’occhiata sbieca a er Fanfara.

    «Tu che ne pensi de ’sta cosa?»

    «Per me ce sta tutta… Si la dritta è bona so’ una montagna de sordi».

    «Speramo che nun sia ’na montagna de rogne, invece».

    «Tu che ne pensi, Omar?»

    «È l’unico che ci può aiutare… Le apparenze ingannano».

    «Sarà. Ma è un grosso pezzo di merda. E quegli altri due? Hai visto che facce?»

    «Ladroni. Che ti aspettavi, il Circolo degli scacchi?»

    «No, ma fanno vomitare. Gente così andrebbe fucilata».

    «Prima dei rossi?»

    «Insieme. Comunisti, banditi, politici ladri, ebrei, finocchi. Al muro tutti».

    «A tempo debito. Prima dobbiamo prendere il potere. E per farlo ci servono i soldi. Quindi ben venga er Cattivo coi suoi scagnozzi».

    «Hai visto quello secco? Pareva Za la Mort…».

    «E l’altro? Con quell’anello col teschio e i rubini al posto degli occhi? Sembravano le caricature di due gangster».

    «Sono malavitosi, ragazzi… E la prossima volta ricordatevi che dobbiamo farci affari insieme, quindi cercate di mostrarvi amichevoli».

    Giorgio Taddei, figlio di un magistrato e alla macchia da un anno, fa un verso schifato. Soldato della rivoluzione o no, il suo snobismo da Roma Nord torna sempre a galla.

    «Sarà come dici, ma mi fanno schifo. È anche colpa di gente come quella se la patria è nella merda».

    «Non ce li dobbiamo sposare. L’importante è fare il colpo. Poi prendiamo la nostra parte e ognuno per la sua strada».

    «Prima bisogna vedere se Salis accetta».

    «Ha già accettato. Magari ancora non lo sa, ma alla fine dirà di sì».

    «Come fai a saperlo?»

    «Fidati. Lo so e basta».

    Capitolo II

    Quadri, picche, fiori. Tutti a cazzo di cane. Manco un tris, una doppia, una coppia schifinfia.

    Er Cattivo tira ancora la leva e smadonna. Ha già perso tre deca in mezz’ora e quella fottuta macchina mangiasoldi si rifiuta di fare il suo dovere e di vomitare una cascata di spiccioli. E sì che è l’unica della sala giochi non taroccata. Il proprietario è roba sua e, quando arriva Pietro Salis, s’affretta a disattivare il telecomando che blocca le vincite, un gioiellino di tecnologia che arriva da Latina, dove i congegni vengono stoccati e venduti in tutta Italia e più giù, dalla Campania. Decine di fabbriche clandestine li producono a getto continuo in un ronzio incessante di macchinari che non si ferma neanche a notte fonda. Tecnologia di ultima generazione, meccanismi quasi invisibili che si possono azionare e spegnere con un semplice bottone da una distanza che può arrivare a quattro o cinque metri.

    Nel caso, molto improbabile, di un controllo di polizia basta premere il pulsante e il videopoker diventa perfettamente legale. Certo, se le guardie o i carubba decidono di sequestrarlo e controllarlo per bene, il trucco salta fuori, ma non succede quasi mai e comunque una perdita del genere, messa in conto fin dall’inizio, è ampiamente compensata dai profitti. Con la finanza è un’altra storia, quelli si vedono poco ma, quando arrivano, sono dolori: conoscono l’inghippo, non si accontentano di un’occhiata distratta al quadro e vanno fino in fondo, portano via le macchinette e le smontano pezzo per pezzo. Romeo Giacinti, alias Palle d’Oro, il proprietario, ha incassato due sequestri, tre chiusure amministrative, un paio di multe a sei zeri e alla fine s’è aggiustato bene con un maresciallo delle Fiamme Gialle dal naso perennemente incipriato di cocaina che gli passa le dritte giuste quando c’è odore di irruzione e gli dà il tempo di sbaraccare tutto. In cambio Palle d’Oro lo foraggia di neve e gli concede credito illimitato in sala. Do ut des.

    Con Pietro Salis è un’altra storia. Solo averlo nel locale è una garanzia.

    Er Cattivo ci tiene a pagare le perdite, altrimenti che gusto c’è a giocare? Ogni volta che va alla cassa col portafoglio in mano e l’aria incazzata Palle d’Oro inscena una gran manfrina di no, per carità, non esiste, lascia stare, sei mio ospite, sei il padrone. Er Cattivo nicchia, insiste e alla fine sgancia. Palle d’Oro ripaga con i cinquecento sacchi al mese che gli allunga per stare tranquillo visto che, fin dal giorno che ha deciso di aprire a Ostia, ha capito come funziona la storia: lì è come a Napoli, come a Reggio, come a Palermo. Paghi il pizzo o ti ritrovi la macchina bruciata, la saracinesca scardinata da una bomba carta inzeppata di polvere da mina o, se proprio insisti a fare il duro, le ginocchia scoppiate, in un crescendo di rappresaglie che ormai segue una trafila quasi burocratica. Stabilimenti balneari, bar, ristoranti, sale corse, sale giochi, parcheggiatori legali, parcheggiatori abusivi, pizzerie al taglio, chioschetti, palestre… Pagano tutti. L’essenziale è scegliersi la protezione giusta. E Pietro Salis, di sicuro, è uno che conta, in zona, anche se il suo gruppo è sganciato dalle tre famiglie che, ormai da parecchi decenni, si spartiscono il business malavitoso del litorale: i Frisciotti, numerosi, agguerriti e forti di qualche aggancio con la ’ndrangheta calabrese e con due cosche siciliane vincenti; i Triolli, legati a vecchie famiglie di Cosa Nostra schierate sul fronte opposto nell’eterna guerra di cosche mafiose, e i Daga, zingari sbrasoni e violenti venuti su dal niente che, all’inizio, erano il fanalino di coda ma adesso, a forza di sgomitare, si stanno facendo largo anche loro. Una Trimurti che regna sovrana in un incessante, ondivago altalenarsi di prove di forza, aree di competenza da tracciare, business da spartire, piccoli e grandi sgarbi, momenti di tensione e riconciliazioni più o meno forzate. Un magma in evoluzione perenne che ribolle come lava.

    Palle d’Oro ha la vista lunga e un cervello che funziona: ha svagato subito che quell’equilibrio tripartito non può durare, non a lungo, almeno. Prima o poi qualcuno cercherà di prendere il sopravvento, sarà la guerra e lui non vuole finire in mezzo al tiro incrociato, quindi s’è piazzato con Salis. Pietro e i suoi sono un’altra faccenda, non si fermano a Ostia, guardano lontano e hanno stretto alleanza con altri due gruppi di malavitosi arrembanti di Roma: i testaccini e quelli che arrivano dalla fetta di città che ingloba Monteverde, Trastevere e Magliana. Un patto di ferro per un’impresa in cui nessuno, finora, è riuscito: conquistare l’egemonia dello spaccio di eroina e cocaina in tutta la capitale. Presto, all’ombra del cupolone, pioveranno pallottole ma chissenefrega: il Campidoglio è a trenta chilometri di distanza che potrebbero essere anni luce. Roma è un altro pianeta.

    Palle d’Oro paga il suo mezzo pippo al mese, sta tranquillo e tratta er Cattivo come un monarca in visita, manca poco che gli stenda una guida rossa ogni volta che lo vede entrare in sala e puntare verso il suo videopoker preferito. Se c’è qualcuno che ci sta giocando, basta un’occhiata al nuovo arrivato e la macchinetta si libera come per miracolo. Palle d’Oro sa che più tempo er Cattivo passa nel locale più lui e la sala giochi crescono nella considerazione della gente di zona, quindi fa di tutto per trattenerlo il più a lungo possibile: offre caffè, rinfreschi, panini, pizzette, cicchetti, sigarette, pippotti nel retrobottega e ha allestito una specie di ufficio con tanto di fax, scrivania, telefono e perfino una piccola cassaforte nascosta sotto una mattonella che resta sempre vuota ma può servire in caso d’emergenza. Come ogni barabba che si rispetti, er Cattivo a casa ci va per riposare, mangiare, guardare la TV o, al limite, a scopare, come dice la canzone di Francesco Guccini. Il suo appartamento è più pulito di una clinica svizzera: le giuste possono portare i cani antidroga, i cani antiesplosivo, i cani anticazzo e non troveranno un accidente. Possono intercettarlo al telefono, piazzargli cimici nascoste, spiarlo coi binocoli e i microfoni a distanza: al massimo beccheranno qualche chiacchiera sulla Roma e i gorgogli dei pompini di Rosa. Gli affari si fanno fuori.

    Così quando squilla il telefono e una voce dura ma educata, senza accento, chiede di Pietro Salis, Palle d’Oro non fa una piega. Semmai è quel per favore che lo fa trasecolare.

    «A Cattì, ce sta uno tutto preciso che te vo’ parlà».

    Pietro si trattiene a stento dal prendere a calci la macchinetta che gli ha appena fagocitato un altro scudo, lancia al videopoker l’ultima occhiata assassina e segue Palle d’Oro nel retro sapendo già cosa sta per sentire.

    «Ciao, sono io».

    «Ciao, tutto bene?»

    «Sì. E tu?»

    «Pure io, grazie».

    «La facciamo, quella partita a carte?»

    «Sì».

    «Bene. Quando ci si vede?»

    «Domenica come stai messo?»

    «Mi sta bene. Dove?»

    «Mezzogiorno, al bar Sisto, sai dov’è?»

    «Sì, andata, ciao».

    «Cià».

    Pietro Salis si frega le mani. È andata a burro e alici anche se con i terroristi in clandestinità non si sa mai: vivono sempre sul filo del rasoio e possono ritrovarsi feriti, carcerati o stecchiti sull’asfalto in qualsiasi momento. Omar sembra di quelli destinati a durare ma chi può dirlo, in anni in cui basta uno sbirro dalla vista lunga o un posto di blocco imprevisto per scatenare l’iradiddio? Er Cattivo ci ha pensato metà della notte e ha deciso che il colpo è un’ottima idea: adesso che si è convinto tocca darsi una mossa proprio perché la vita di Omar e dei suoi è perennemente appesa a un filo. Bisogna mettere a punto i dettagli, studiare bene il piano e, soprattutto, organizzare una squadra di professionisti da spedire in trasferta ma quello è il suo campo e ha già diversi nomi in mente. Gente seria, tosta e soprattutto che regge la cica. Magari costeranno qualcosina in più, ma la riservatezza non ha prezzo.

    Trenta miliardi, forse quaranta. Salis assapora la cifra come un doppio malto scozzese.

    Il sessanta percento quanto fa? Salis non è mai stato forte coi numeri, ma tolta la percentuale dei Neri, quella della paranza operativa, le spese generali e tutto il resto, una quindicina dovrebbero restargli appiccicati alle mani. Facciamo anche dieci. Un botto di soldi. E per i suoi piani a lungo termine i soldi non bastano mai. Per festeggiare decide di far felice Palle d’Oro con un piccolo gesto di amicizia: stavolta non pagherà le puntate e si terrà i trentacinque sacchi che gli deve.

    Bar Sisto, centro di Ostia.

    Pietro Salis e Omar Gentile in un tête-à-tête, i quattro guardaspalle, due per parte, a un altro tavolino, un po’ come i bambini che mangiano separati dai grandi. L’atmosfera, adesso che l’accordo sembra in dirittura d’arrivo, è appena un po’ più rilassata della volta precedente ma gli sguardi a bulino, colmi di diffidenza, continuano a saettare in entrambe le direzioni.

    Salis versa la Ceres nel bicchiere di Omar in un gesto d’ospitalità che ha mille significati: questa è la mia zona, qui comando io, sei un ospite, sei sul mio territorio eccetera eccetera. Il Nero non fa una piega e si limita a un muto brindisi. Gestualità carica di sottintesi come nel teatro kabuki. Tutto intorno, cicalare di famiglie, di strappone, di coatti, di barabba, di pescatori che tornano dal mare con due cefaletti tisici se è andata bene, di pensionati che si godono il sole, di ragazzini che sbirciano i malavitosi con invidia, ne imitano modi, mode, atteggiamenti, sbrasate, sperando di crescere in fretta e diventare come loro.

    Insomma, Ostia.

    Salis ci sta come un topo nel formaggio. Ci è arrivato che era una creatura, ci vive da sempre, la conosce palmo a palmo e sa che lì è invulnerabile.

    «Allora abbiamo deciso? Quaranta per me e sessanta per te?», ricapitola Omar.

    «Andata». Stretta di mano, appena un po’ più fredda di quella tra Sadat e Begin a Camp David. E non c’è neanche Jimmy Carter a fare da mediatore.

    «E mo’ me devi da spiegà chi è il contatto tuo a Marbella», attacca er Cattivo.

    Omar annuisce, visto che è il prezzo che deve pagare e se lo aspettava, ma ha la pessima sensazione di star facendo la spia.

    «È una donna».

    «Ah». Il grugno di Salis dice tutto su quello che pensa dell’altra metà del cielo. Cazzo c’entrano le femmine con gli affari?

    «La moglie di un impiegato della banca. Ex moglie».

    «Se so’ divorziati?»

    «Lui è morto. Progettava il colpo da un sacco di tempo. Ne parlava in continuazione, aveva rimediato gli schemi dell’impianto d’allarme del caveau, sensori, telecamere e tutto il resto. Da allora non è mai stato modificato, non sostanzialmente, almeno. Un buon allarmista, con quegli schemi che ha la mia amica, dovrebbe essere in grado di disattivarlo in fretta. Ce l’hai un tecnico di fiducia?»

    «Nun te preoccupà, quello è un problema mio. Dimme ancora de ’sta tizia».

    «Ha trentadue anni, spagnola, vive a Marbella. Fidata, se è questo che vuoi sapere».

    «Te la sei scopata?». Er Cattivo spinge il palmo in avanti con una sorta di pernacchia, vero gentleman. Omar impallidisce ma lascia correre.

    «Abbiamo… abbiamo avuto una storia, sì. È una che sa tenere la bocca chiusa anche perché le conviene. Come ti ho già spiegato, alla sua parte ci penso io».

    «Er marito come è morto?»

    «Incidente d’auto, sei mesi fa».

    Salis scocca a Omar un’occhiata in tralice ma non fa domande. Se anche c’è la mano del Nero, dietro la morte del cornutone, è una faccenda che non lo riguarda. Sapere troppo, specie se c’è un cadavere implicato, a volte non conviene. Se Omar ha voluto levare di mezzo il maritino sono affari suoi.

    «Quanto tempo ti ci vuole per mettere insieme la squadra?». Il Nero passa all’offensiva, visto che non ha intenzione di stare tutta la mattina a farsi interrogare come uno scolaretto.

    «Poco. Due settimane al massimo».

    «Be’, tanto non c’è fretta. Pensavo di fare la cosa sotto Natale. C’è un sacco di movimento, gente in giro e chi parte lascia più roba nelle cassette di sicurezza».

    Er Cattivo spara un rutto di disapprovazione.

    «Sotto Natale nun se pò fà».

    «Perché?»

    «Il mare. Le barche mie nun so’ bone per la navigazione co’ li cavalloni, le tempeste e tutto il resto. E poi un veliero che va dalla Spagna all’Italia, a dicembre, se fa cioccà subito dalla guardia costiera o dalla finanza. D’estate è ’n’artra cosa, ce so’ più barche che machine sulla Colombo, tutti quegli stronzi che giocheno a fà i marinai…».

    Omar annuisce e ammette di non averci pensato. Troppe preoccupazioni: rifugi, armi, camerati in clandestinità da nascondere, controlli e perquisizioni da evitare, attentati da programmare. A volte si domanda se ne vale la pena, ma ormai è in guerra e la guerra finisce solo quando una delle parti viene sconfitta. O ci lascia la pelle.

    «Allora quando sarebbe il momento giusto, secondo te?».

    Er Cattivo abbassa gli angoli della bocca in una smorfia che dice tutto e niente mentre si fa qualche calcolo mentale.

    «Io metto su la paranza… Du’ settimane ar massimo come te stavo a dì. Da quer momento in poi ogni giorno è bono fino a metà settembre, quando cominciano le burrasche. La donna tua è sempre pronta?»

    «Sì. Mi basta un preavviso minimo. Al momento della partenza la avviso e ti spiego come contattarla sul posto».

    Traduzione: se pensi che ti dia nome e indirizzo in anticipo per poterla raggiungere da solo e costringerla o convincerla a lavorare per te e tagliarmi fuori dal piano sei fuori strada.

    Pietro non ci pensa nemmeno. Ha dato la sua parola, ha stretto la mano a Omar e, per quanto lo riguarda, l’accordo è fatto: niente puttanate. Vecchia scuola malavitosa.

    «Be’, allora se semo intesi. Me guardo un po’ in giro, trovo le persone giuste e appena ho fatto se risentimo… E mo’ m’è venuta fame. Te li voi fà du’ spaghi co’ le vongole qua vicino? Fresche fresche appena pescate, garantisco io».

    «Grazie, Pietro, come se avessi accettato, ma è meglio che andiamo».

    Salis capisce benissimo, visto che l’invito era una pura formalità. Omar fa per tirare fuori il portafoglio, ma er Cattivo lo stoppa con un gesto così imperioso da sembrare scortese.

    «Nun esiste. Sei a casa mia». E allungando il braccio come un imperatore indica famiglie, strappone, coatti, ragazzini e tutto il resto. Il suo regno. Altra, definitiva stretta di mano, subito imitata dai quattro guardaspalle al tavolo vicino. I Neri si alzano e s’infilano nella vecchia e ammaccata Fiat 131 con cui sono arrivati. Salis e i suoi guardano la macchina con disprezzo: ma come si fa ad andare in giro con un cesso del genere? Loro non ci salirebbero neanche trascinati col torcinaso: roba da perderci la reputazione.

    L’auto fila sulla Colombo a centoventi all’ora. Il traffico, a quest’ora, è tutto nella direzione opposta, verso il mare. Un fiume statico di lamiera arroventata dal sole che avanza solo per impercettibili movimenti tettonici dell’asfalto quasi liquefatto dal caldo. Tra qualche ora ci sarà lo stesso casino nel grande ritorno. La solita ammazzata domenicale dei pendolari da spiaggia.

    Giorgio, l’autista, vede il posto di blocco quando è troppo tardi. Carabinieri. Quello che tiene la paletta e fa cenno di accostare è in mezzo alla strada, con l’M12 a tracolla e il giubbotto antiproiettile che deve farlo sudare come un porco. Gli altri due si tengono di lato, in copertura.

    Omar bestemmia a bassa voce e controlla il ferro dietro la schiena.

    «Vado avanti?», sibila Giorgio mentre rallenta, pronto a togliere il piede dal freno e schiacciare l’acceleratore a tavoletta mentre sta calcolando come travolgere il carabiniere col mitra prima che abbia il tempo di imbracciarlo.

    «No. Ferma, magari ce ne sono altri più avanti».

    La 131 accosta al marciapiede, mentre Omar pensa ai documenti falsi che hanno ritirato due mesi prima dalla stamperia clandestina. Adesso vedranno se sono veramente buoni come ha garantito il napoletano.

    Il carubba si avvicina al finestrino mentre Giorgio lo tira giù. È un maresciallone grosso e smagato sulla cinquantina che soffre sotto il peso del giubbetto e, probabilmente, passa le giornate

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