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I Medici. Un uomo al potere
I Medici. Un uomo al potere
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E-book383 pagine4 ore

I Medici. Un uomo al potere

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Info su questo ebook

VINCITORE DEL PREMIO BANCARELLA
Tradotto in tutto il mondo

Un grande romanzo storico

Firenze, 1469. Lorenzo de’ Medici sta vincendo il torneo in onore della sua sposa, Clarice Orsini, appena giunta a Firenze per le nozze con l’uomo che diventerà il Magnifico. Questo matrimonio non è un passo facile per Lorenzo: il suo cuore – ne è convinto – appartiene e sempre apparterrà a Lucrezia Donati, donna di straordinaria bellezza e fascino. Eppure asseconderà il volere della madre e rafforzerà l’alleanza con una potente famiglia romana. Chiamato a governare la città e ad accettare i costi e i compromessi della politica, diviso fra amore e potere, Lorenzo sottovaluta i formidabili avversari che stanno tramando contro di lui per strappargli la guida di Firenze. Girolamo Riario, nipote di papa Sisto IV, dopo aver sobillato Jacopo e Francesco dei Pazzi, storici nemici della famiglia de’ Medici, e stretto alleanza con Francesco Salviati, arcivescovo di Pisa, concepisce una congiura il cui esito per Lorenzo sarà terribile: il fratello Giuliano verrà brutalmente ucciso davanti ai suoi occhi. E da quel momento si aprirà un periodo di violenza e vendetta da cui in pochi si salveranno…

Lo scrittore italiano di romanzi storici N°1 in classifica e più venduto nel mondo
Vincitore del Premio Bancarella


Tra intrighi e colpi di scena, l'ascesa di Lorenzo il Magnifico

«Un romanzo storico a ritmo di colpi di scena.»
Il Corriere della Sera

«La storia di una dinastia importantissima, una storia fatta di cospirazioni e tradimenti. Ma anche il racconto della grande rivoluzione culturale del Rinascimento, quando l’Italia era il centro del mondo e modello di bellezza e magnificenza per l’intera Europa.»
la Repubblica

«Una scrittura vera, viva e pulsante. Un romanzo nel quale l’autore innesta trappole thriller e dialoghi vivi su una solida base storico-narrativa.»
Nicolai Lilin, TuttoLibri - La Stampa
Matteo Strukul
È nato a Padova nel 1973. Le sue opere sono in corso di pubblicazione in 16 lingue, pubblicate in 30 Paesi e opzionate per il cinema. La saga sui Medici, che comprende Una dinastia al potere (vincitore del Premio Bancarella 2017), Un uomo al potere, Una regina al potere e Decadenza di una famiglia, è in corso di pubblicazione in 12 lingue e in più di 25 Paesi. La Newton Compton ha pubblicato anche Inquisizione Michelangelo e la nuova serie che comprende Le sette dinastie e La corona del potere.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ott 2016
ISBN9788854199712
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    Anteprima del libro

    I Medici. Un uomo al potere - Matteo Strukul

    FEBBRAIO 1469

    1

    La giostra

    L’aria era fredda. Lorenzo inspirò profondamente. In sella a Folgore, avvertiva la tensione crescere. Il suo amato corsiero, dal manto color carbone, lustro e lucente, tradiva il nervosismo, scalpitando sul selciato della piazza. Girava in tondo e Lorenzo lo tratteneva a fatica.

    Un mormorio si alzò come una preghiera dalle tribune e dai palchi di legno. Sospiri piovvero dalle logge e dai balconi, dalle finestre e dai porticati. Gli occhi di Lorenzo andarono a quelli di Lucrezia. Quel giorno la nobile Donati indossava un abito magnifico: la cioppa aveva la tinta dell’indaco e pareva sfumare nelle iridi d’ossidiana. La gamurra d’un color grigio perla era tempestata di gemme e suggeriva, prepotente, la curva del seno. Avvolta in una stola di pelliccia di volpe bianca che le cingeva le belle spalle chiare, Lucrezia aveva acconciato in maniera magnifica la gran massa ribelle di capelli neri che sembravano onde d’un mare notturno.

    Lorenzo si domandò se quel giorno sarebbe riuscito a renderle onore.

    Portò la mano alla sciarpa che teneva attorno al collo. Lucrezia l’aveva ricamata per lui con le proprie mani. Ne inspirò il profumo di fiordaliso e gli parve di sprofondare nell’abbraccio dell’Empireo.

    Per un attimo la mente corse a qualche istante prima: il suo arrivo al torneo, suo fratello Giuliano, splendido nel giustacuore verde, e poi la schiera dei suoi duecento uomini vestiti dei colori della primavera, quasi a voler smorzare gli animi bellicosi di una città che fino al giorno prima era annegata nel sangue e nella corruzione. Una città che Piero de’ Medici, suo padre, pur minato nella salute, divorato dalla gotta, era riuscito, con fatica e mirabile impegno, a salvare dalle famiglie ribelli, quelle che tramavano nell’ombra contro i Medici e che, a più riprese, avevano teso trappole e imboscate. Aveva consegnato a Lorenzo una Repubblica stanca, stremata, sull’orlo del collasso, che faticava a ritrovare se stessa.

    Ma quel giorno, sospesa fra sangue e tormento, era arrivata la festa della giostra, il torneo indetto in onore delle nozze di Braccio Martelli, buon amico di Lorenzo, un evento costato la fortuna di diecimila fiorini, che avrebbe lavato via paure e rancori, almeno per qualche tempo.

    Lorenzo guardò davanti a sé: vide la barriera di legno che correva fino al capo opposto della piazza. E in fondo, rinchiuso nella sua armatura a piastre, Pier Soderini. La celata stretta era resa ancora più minacciosa dalla visiera già calata. Il braccio era piegato a reggere la lunga lancia in frassino.

    La folla tuonava, ora; le voci turbinavano assordanti, nell’imbuto di piazza Santa Croce.

    Lorenzo controllò un’ultima volta lo scudo. Vide, riflessi nella pozzanghera, i colori dei Medici, sfavillanti sulla gualdrappa del suo corsiero: le cinque palle rosse con il giglio sulla sesta, concessione del re di Francia come simbolo di nobiltà. Campeggiavano minacciose come uno stendardo infernale.

    Tutta quella responsabilità e quell’attesa lo avrebbero fatto impazzire.

    Calò la visiera mentre il mondo di fronte a lui diveniva una striscia gelida. Mise la lancia in resta e diede di sprone.

    Senza attendere oltre, il suo cavallo partì più veloce d’una raffica di vento, scagliandosi come una massa pulsante e viva contro Pier Soderini.

    Lorenzo sentiva la muscolatura possente del destriero guizzare, la gualdrappa schizzata di fango fischiare nell’aria. Puntò la lancia. Soderini era appena partito mentre lui aveva ormai percorso quasi metà della distanza. Alzò lo scudo a miglior guardia e incrociò la lunga lancia in frassino in attesa di colpire il bersaglio.

    La folla parve trattenere il fiato.

    Dall’alto del palco in legno, Lucrezia teneva gli occhi inchiodati su Lorenzo. Non aveva paura, voleva solo imprimere nella mente quel momento. Sapeva quanto il suo amato si fosse preparato per quella giostra e conosceva il suo straordinario valore. Lo aveva già dimostrato. E anche se era ormai promesso a Clarice Orsini, la nobildonna romana che sua madre aveva scelto per lui, quel giorno non se ne sarebbe curata affatto. Non si preoccupava nemmeno di nascondere la sua passione per lui.

    Come non si preoccupava Firenze e la sua gente, che guardava la coppia di amanti con indulgenza, se non con gioia, poiché mal sopportava che l’uomo deputato a guidare la Signoria, complice la madre, avesse chiesto in sposa una romana, sia pur di nobile schiatta.

    Ma quel giorno non v’era tempo per baloccarsi in simili ragionamenti. Le froge fumanti dei cavalli scaricavano vapore azzurro nell’aria ghiacciata, le piastre d’acciaio temprato delle armature scintillavano, vessilli e stendardi garrivano in un trionfo di colori.

    E finalmente giunse l’impatto.

    Fu un rombo di tuono, un cozzare di legno e acciaio. La lancia di Lorenzo trovò una via invisibile nella guardia di Pier Soderini e lo centrò sulla piastra pettorale della corazza. Il frassino andò in pezzi e, per l’effetto del colpo, Soderini si ritrovò proiettato all’indietro e sbalzato di sella.

    Atterrò con gran fragore sulla piazza, mentre Lorenzo proseguiva la sua corsa. Folgore galoppò indomito per poi arrestarsi in corrispondenza del limite del percorso, impennandosi nell’aria e mulinando le zampe in una tempesta di nitriti.

    Quando Lorenzo giunse alla fine della propria corsa, il popolo esplose in un urlo di stupore con un istante di ritardo, come se Folgore avesse rubato il tempo a tutti, grazie alla sua proverbiale velocità. Subito dopo, la folla ruggì il proprio entusiasmo con grida di giubilo. Il partito mediceo urlò a squarciagola, gli uomini tributarono un fragoroso applauso e le donne si aprirono in sorrisi e sospiri.

    Lorenzo ancora non ci credeva. Non si era reso conto di quanto accaduto, giacché era avvenuto tutto con una tale rapidità da sorprendere lui per primo.

    Attendenti e scudieri si stavano già precipitando a prestare le prime cure a Pier Soderini, il quale per altro doveva essere ancora tutto intero, giacché si stava alzando in piedi. Si era sfilato la celata di dosso e, rosso in viso, scuoteva la testa: un po’ per fastidio e un po’ per incredulità.

    Era stato centrato in pieno petto!

    Lucrezia portò le mani al seno e il suo bel volto s’illuminò d’un sorriso abbagliante.

    Lorenzo sfilò la celata e i guanti di ferro. Toccò quasi istintivamente la sciarpa. Sentì il profumo di lei, inebriante e leggero, eppure carico di promesse.

    Provava per quella donna un amore ardente, una passione che tentava di esprimere attraverso i suoi maldestri sonetti. Molti giudicavano quei suoi componimenti magnifici, ma lui sapeva che nemmeno tutte le parole del mondo sarebbero riuscite a rendere giustizia a quel che provava in petto.

    Si sentì così vivo. Quando gli occhi di Lucrezia si posarono su di lui, gli parve di essere benedetto. Le lunghe ciglia color dell’onice e quelle iridi che parevano voler intrappolare l’ombra. Non c’era niente di più bello. Nulla di cui lui avesse memoria.

    Il popolo parve cogliere quel sottile gioco di sguardi e gesti ed esplose in un secondo applauso ancora più travolgente del primo.

    Firenze lo amava. E così Lucrezia. Lei non gli concesse più di un istante ma in quel sospiro d’infinito che fu il suo sguardo, Lorenzo annegò e capì. Comprese che avrebbe amato solo lei e che, se anche sua madre aveva già scelto per lui una sposa romana, una nobildonna che avrebbe garantito alleanze e intese utili alla famiglia, lui avrebbe serbato il proprio cuore per una donna e una soltanto: Lucrezia.

    Mentre se ne stava assorto in quei pensieri, l’araldo comunicò il risultato dello scontro.

    Con quel successo, ottenuto in modo tanto evidente, Lorenzo veniva proclamato vincitore della giostra. Nobili amici e dignitari parevano non aspettare altro. Braccio Martelli fu il primo a saltare giù dal palco e a complimentarsi. Corse fino al punto in cui gli scudieri lo stavano aiutando a scendere da cavallo e a togliere il piastrone pettorale e i gambali, così da permettergli di raccogliere l’applauso che la folla gli tributava.

    Braccio era talmente contento che prese a scandire il suo nome.

    La folla rispose.

    Giuliano, il minore dei due Medici, sorrideva dalla tribuna più alta. Era alto ed elegante, con tratti sottili e raffinati, ben diversi da quelli del fratello maggiore, più forti e marcati.

    Lucrezia si lasciò sfuggire un grido d’ammirazione e, non paga di aver già dato scandalo a sufficienza, mimò un bacio e lanciò al suo campione un fazzoletto di lino finissimo.

    Lorenzo lo prese fra le mani. L’essenza di fiordaliso quasi lo sommerse. La città si strinse in un ideale abbraccio attorno al suo figlio prediletto.

    Eppure, in tutta quella folla festante, una strana figura dondolò, oscillante come l’antenna di un insetto.

    Aveva le forme e le fattezze cangianti di un giovane, di bell’aspetto per giunta. Ma qualcosa, nel ghigno che gl’inarcava le labbra sottili e color sangue, stonava orribilmente.

    Presto, pensò quel silenzioso spettatore, tutta quell’armonia sarebbe finita in frantumi.

    2

    Riario

    Suo zio aveva perfettamente ragione.

    E suo zio ben presto sarebbe divenuto papa. Non v’erano dubbi in merito: era solo questione di tempo.

    Girolamo Riario guardò il ragazzo. Aveva profondi occhi azzurri e capelli color mogano. Due labbra sottili disegnavano un sorriso crudele sul suo viso.

    Intuiva in lui una perfida crudeltà, appena celata dai tratti eleganti ma affilati al punto da risultare taglienti.

    Sospirò.

    L’ombra di un progetto gli consumava la mente: non era pienamente concepito e anzi somigliava molto a un’ipotesi incerta, appena vagheggiata e, con ogni probabilità, di difficile attuazione. Eppure, non disperava.

    Le motivazioni erano quanto di più importante un uomo potesse avere. E il giovane che era davanti a lui ne aveva in buon numero. E di comprovata serietà.

    Girolamo ravviò una lunga ciocca di capelli. Gli occhi grigi lampeggiarono. Sapeva che quel piccolo serpentello aveva una sua diabolica intelligenza e lui, fin troppo avventato, non voleva incappare in qualche ingenuità.

    «Sei certo di quanto affermi?»

    «Non ho alcun dubbio, mio signore», rispose il ragazzo.

    «E li hai visti?»

    «Come ora vedo voi. Tutta Firenze ha applaudito quegli sguardi».

    Già! L’amore di Lorenzo de’ Medici per Lucrezia Donati non era certo un mistero. E per quanto potesse risultare sconveniente non era così condannabile. Non apertamente, comunque. Di sicuro, suo zio non avrebbe apprezzato. Forse nemmeno il papa, ma quella non era una novità e uno sguardo era troppo poco per una scomunica. E poi i matrimoni di convenienza erano una consuetudine, e il fatto che Lorenzo nutrisse un amore, cortese o carnale che fosse, per la giovane Donati non significava nulla. Anzi, la sua città appoggiava apertamente quell’ideale infedeltà.

    Maledetti fiorentini, pensò.

    «Che altro hai visto?»

    «Firenze, mio signore».

    Girolamo inarcò un sopracciglio.

    «Firenze?»

    «La città venera quell’uomo».

    «Dici davvero?»

    «Mi duole ammetterlo, ma è così».

    Riario sospirò. Di nuovo. Doveva fare qualcosa. Già, ma cosa? Era certo che l’idea che vagheggiava fosse così acuta?

    «Parla con Giovanni de’ Diotisalvi Neroni».

    «L’arcivescovo di Firenze, mio signore?»

    «Chi altri?»

    «Naturalmente. Ma, se posso permettermi, a quale scopo?», disse accennando un ghigno dei suoi. La domanda, per altro, era legittima. Girolamo se lo sarebbe mangiato vivo. Come osava? D’altra parte la curiosità rimaneva. Cosa avrebbe mai potuto rispondergli? Si lambiccò il cervello. Quella sua dannata mania di parlare troppo. Perché aveva nominato Giovanni de’ Diotisalvi Neroni? Aveva messo lì quella frase in attesa di un’ispirazione, una suggestione, un lampo di genio.

    Niente.

    Sentiva così tanta energia dentro di sé, ma era abbastanza intelligente e altrettanto consapevole che le idee brillanti non gli appartenevano. Non come avrebbe voluto. Le migliori erano quelle che giungevano, provvide e puntuali, dalla mente diabolica di quel ragazzo. Lo aveva già sperimentato in passato.

    A ogni modo, Neroni poteva avere il polso della situazione. Certamente più di lui che se ne stava lì fra Savona e Treviso, in attesa che suo zio salisse al soglio pontificio.

    «Se non altro conoscerà meglio gli umori della nobiltà e riuscirà a carpire le frustrazioni e la rabbia dei nemici dei Medici». Un pensiero lucido, perfetto, nitido come il filo d’una lama.

    «Posso permettermi un suggerimento?», continuò quel ragazzino infernale.

    Riario annuì.

    Non sapeva dove tutto quel parlare lo avrebbe portato, ma se fosse giunto ad architettare un piano per togliere di mezzo i Medici, un piano perfetto, ineccepibile, allora quello sarebbe stato un momento da ricordare, poiché, a essere sinceri, era proprio quanto andava cercando.

    «Ti ascolto», lo incoraggiò.

    Il giovane parve concentrarsi.

    «Ebbene, l’idea di sondare il terreno è affascinante, mio signore, brillante, oserei dire…».

    «Vai al punto!», tagliò corto Riario.

    «D’accordo. Or dunque, se, come voi giustamente sostenete, Giovanni de’ Diotisalvi Neroni, arcivescovo di Firenze, sarà in grado d’individuare la famiglia più potente e avversa al partito dei Medici, potrebbe allora essere consigliabile sobillare gli stessi affinché si adoperino per architettare nei confronti di Lorenzo una cospirazione, un progetto criminoso, per ottenere l’esilio suo e di suo fratello. Il sangue non è mai una buona idea, ma il confino, l’allontanamento, come già accadde per suo nonno Cosimo, potrebbe essere la soluzione ideale».

    «Ne sei convinto?», domandò Girolamo.

    «Oltremodo. Vedete, mio signore, Lorenzo è in un certo senso consustanziale alla sua città: tolta quella, gli si toglie tutto il potere possibile. E poi, diciamoci la verità: suo padre Piero è un imbelle e ha indebolito molto il partito. Lorenzo potrebbe darci dei problemi, ma se agissimo ora che è giovane e inesperto, potremmo avere buon gioco nei suoi confronti e ciò aprirebbe la strada a una famiglia che possa essere attenta alle pretese vostre e del vostro partito».

    «Ingegnoso, mio giovane amico, ingegnoso ma vago: poiché, mi domando, quali potrebbero essere le accuse che consentirebbero il confino di cui parli?»

    «In verità, mio signore, le accuse potrebbero essere molte, ma solo una sarebbe in grado di screditarlo al punto da legittimare l’applicazione della pena». Quel ragazzo parlava come un abile politico e lasciava in Girolamo la sgradevole sensazione che fosse stato partorito direttamente dai lombi di una creatura demoniaca.

    «E quale sarebbe?». La sua voce tradì la più incredula impazienza.

    «L’alto tradimento», rispose senza indugio il ragazzo.

    Girolamo Riario alzò un sopracciglio.

    «Vedete, mio signore, c’è a Firenze un artista non ancora affermato ma di certo dotato di una sua straordinaria tempra. Per la verità egli è anche ingegnere e inventore. Non esiste al mondo un uomo di altrettanta intelligenza e spirito. È ancora molto giovane, naturalmente, ma farà ben presto parlare di sé. Se potessimo dimostrare, o meglio se potesse farlo una famiglia nostra alleata, che Lorenzo e quest’uomo collaborano al fine d’inventare un’arma di una potenza tale da risultare letale per qualsivoglia Stato e che la stessa venga utilizzata per aggredire i regni circostanti e, di conseguenza, porre la città di Firenze in cattiva luce perché odiata e temuta da tutti… Ebbene, a quel punto, io credo che non avremmo difficoltà alcuna a rovesciare il partito dei Medici e a far vostra la città, per mezzo d’una famiglia amica. Potremmo con ogni probabilità accusare Lorenzo di alto tradimento e financo di eresia, per la cieca fiducia nella guerra e nella scienza in una misura che travalica i confini imposti dalla Chiesa».

    Fu a quel punto che il ragazzo si fermò.

    Girolamo rimase a fissarlo con gli occhi sgranati per lo stupore.

    Poi disse: «Magnifico, magnifico, ragazzo mio! Si tratta naturalmente di un piano complesso e pieno d’incognite, ma che proprio per questo va almeno considerato. Va’, dunque, e metti a frutto il nostro progetto. Non avere fretta. Abbiamo tempo. Il mio partito deve ancora salire al potere. Nel frattempo, individuiamo la famiglia. Poi metteremo insieme gli elementi che ci permetteranno di inchiodare i Medici. Quando saremo al culmine del nostro potere, allora colpiremo. E lo faremo in modo tale che ai Medici non sarà più possibile rialzarsi. Di’ a tua madre che ho molto apprezzato i suggerimenti di suo figlio. E per suggellare questa mia affermazione, ti prego di accettare un segno della mia stima imperitura». E così dicendo, Girolamo Riario estrasse dal cassetto di un tavolo in mogano un borsellino di velluto color pervinca e lo lanciò al ragazzo.

    Ludovico Ricci l’afferrò al volo mentre un tintinnio inconfondibile risuonava argentino.

    «Siete molto generoso, mio signore».

    Dopodiché girò i tacchi e si diresse verso la porta.

    «Un’ultima cosa, Ludovico».

    Il ragazzo si fermò, voltandosi verso il suo signore.

    «Come si chiama l’uomo di genio di cui mi hai parlato?»

    «Leonardo da Vinci», rispose il giovane Ricci.

    3

    Lucrezia e Lorenzo

    «Ha occhi grandi e un carattere forte. Credo che ti piacerà e che saprà assecondarti in ogni tuo desiderio, figlio mio. Ancor più importante, potrà garantirti alleanze e amicizie che fino a oggi ti erano precluse, e Dio solo sa quanto la nostra famiglia abbisogni di simili accortezze». Lucrezia era un profluvio di parole, magnificava Clarice come se fosse l’araldo di una nuova vita a Firenze.

    Ma Lorenzo non ne era convinto. Per nulla. Certo, capiva la ragion di Stato, non era uno sprovveduto, ma d’altra parte quel che si diceva della sua futura sposa non lo affascinava per niente. Pareva una donna pia, meticolosa, attenta: virtù certo non disprezzabili ma che non erano quelle che interessavano a lui. Come avrebbero potuto andare d’accordo?

    Provò a riportare, almeno in modesta misura, quelle perplessità all’orecchio di sua madre. Lo fece con tutta la diplomazia e la cortesia di cui era capace.

    «Madre mia, quel che dite mi rallegra, naturalmente, e vi sono infinitamente grato per quanto avete fatto. D’altra parte, mi domando se credete che Clarice abbia anche qualità quali la vivace intelligenza e l’avvenenza che è propria delle giovani donne della sua età…».

    Nell’udire quelle parole Lucrezia gelò suo figlio con lo sguardo. Era una donna elegante ma fredda. I tratti del suo viso avevano una composta durezza che sapeva farsi implacabile se necessario.

    «Mio caro Lorenzo, preferisco parlare ora e farlo una volta sola, per non dover poi tornare più su questo argomento. So della tua bizzarra infatuazione per Lucrezia Donati. Non dico che la fanciulla non valga gli sguardi ma, sia ben chiaro: devono sparire. E alla svelta. Conosco il tuo temperamento e, ancor peggio, conosco il suo. Quella ragazza ha il fuoco dentro, ma questo non ti porterà alcun bene, puoi credermi. Senza contare che, da oggi in avanti, non potrai più concederti evasioni. Clarice sta arrivando da Roma ed è una Orsini: parliamo di una delle famiglie più nobili di sempre e già solo questo la rende irresistibile. So che Firenze impiegherà del tempo per accettarla, ma se sarai tu a cominciare, il resto verrà da sé. Non voglio storie, in questo senso. A tempo debito, potrai anche pensare di concederti qualche distrazione, dopotutto io stessa ne so qualcosa, se ho accettato nella nostra famiglia la figlia di un’altra donna e ho perdonato tuo padre per quanto ha fatto. Ma devi metterti in testa una cosa. Tuo padre soffre di una salute fragile e di una malattia che non gli permette più di essere l’uomo che era. Ora è venuto il tuo tempo e non puoi pensare di sottrarti alla guida della Repubblica. E il comando di Firenze passa per il matrimonio con Clarice Orsini. Quindi, prima ti adeguerai, meglio sarà per tutti noi».

    Lorenzo comprendeva fin troppo bene le ragioni inoppugnabili di sua madre e conosceva anche i mille problemi e le molte insidie che aveva dovuto affrontare, a Roma prima e a Firenze poi, per tessere l’intesa fra i Medici e gli Orsini, superare le barriere di casta, entrare nelle grazie della nobiltà capitolina. Pure, la sensualità prorompente di Lucrezia Donati, gli sguardi, le forme, il modo di vestire e camminare, tutto in lei era fascino puro, seduzione, mistero e avventura. E di quello aveva bisogno: per sentirsi vivo, desiderato, invincibile. Ma sapeva che non era di quello che sua madre voleva sentir parlare.

    «Metterò la testa a posto e sarete fiera di me», disse. «Farò attenzione ai nemici e terrò fede agli insegnamenti di mio padre e di mio nonno prima di lui, e dunque al senso della misura che è la materia prima con cui plasmare il decoro e il consenso. Ma nessuno potrà mai chiedermi di dimenticare Lucrezia Donati».

    Sua madre sospirò. Piantò ancora una volta i suoi occhi in quelli del figlio.

    «Mio unico bene, lo capisco e, credimi, quel che voglio è la tua felicità. Sono contenta di sentirti pronunciare queste parole e nessuno sostiene che tu debba dimenticare la tua Lucrezia. Ma preparati a onorare come moglie Clarice Orsini, perché il destino di Firenze è legato a lei, e ti dirò di più: adoperati affinché la città stessa l’accolga come merita. Non ho difficoltà a credere che questa brezza diffidente e fredda che spira contro di lei sia figlia dei tuoi atteggiamenti sconsiderati. Cerca dunque di temperarli e di convincere la nostra gente a celebrarla come una regina. Sarà la tua signora e come tale dovrai trattarla. Devi comprendere che un’alleanza fra Roma e Firenze è tanto più necessaria ora, poiché se è vero che il buon pontefice Paolo II è di certo favorevole al nostro partito, non è detto che lo sarà il suo successore. E dobbiamo essere pronti. Ma con la famiglia Orsini dalla nostra parte, forse, e dico forse, avremo maggiori speranze anche nel caso in cui la nuova nomina, quando sarà, non dovesse arriderci troppo. Mi comprendi?»

    «Certo che comprendo», rispose con una punta di fastidio Lorenzo. «So perfettamente che c’era Pio II dietro la nomina ad arcivescovo di Pisa di Filippo de’ Medici e che un simile risultato è stato possibile grazie alle pressioni di nonno Cosimo. Così come non ho dubbi che l’attuale arcivescovo di Firenze sia invece contro di noi… I fatti l’hanno dimostrato ampiamente. Sono stato io, del resto, a impedire che l’attentato sulla strada di Careggi giungesse a compimento, ricordate?».

    Lucrezia annuì.

    «E c’era sempre l’arcivescovo di Firenze dietro quell’atto scellerato. Perciò è del tutto chiaro che non attenda altro che uno scandalo per mettermi in croce…». Lorenzo s’interruppe un istante. Poi riprese: «Ascoltate, madre mia, voglio che sia chiara una cosa: non avrete di che temere per quel che concerne la mia condotta. Sarò un marito esemplare e uno sposo attento, ma non chiedetemi di amarla. Questo non lo potrò fare. Non nell’immediato, per lo meno. Conosco i miei doveri e non ho alcun dubbio su quanto spietati siano i miei nemici. D’altra parte credo di avere un qualche ascendente sulla gente, grazie al mio carattere. L’altro giorno, alla giostra in onore di Braccio Martelli, ho avuto la sensazione che plebe, popolo e perfino una parte della nobiltà fossero con me. Non voglio rinunciare a quel che sono, insomma. C’è in me un fuoco che, se ben governato, può essere d’una qualche utilità per la nostra famiglia, questo almeno me lo dovete concedere».

    «Abbracciami», disse Lucrezia nell’udire quelle parole, «e non pensare nemmeno per un istante di avermi deluso. Quanto ti ho detto è per il tuo bene e perché nutro grande stima nei tuoi confronti, al punto che credo che tu e solo tu, figlio mio, possa guidare i Medici alla gloria che meritano, continuando l’opera di tuo padre e, ancor di più, quella di tuo nonno Cosimo che tanto ti ha amato in vita».

    «E che tanto mi manca», concluse Lorenzo. Si avvicinò a sua madre, che si era alzata dalla poltrona, e l’abbracciò con tale trasporto che quasi gli parve di farlo con un’innamorata.

    4

    Leonardo

    Leonardo inspirò l’aria fresca di quel mattino di febbraio.

    I lunghi capelli biondi scompigliati dal vento, guardava i campi bruni di terra, incrostati dalle piastre iridescenti della galaverna.

    C’era nella natura un potere talmente straordinario da mozzargli il fiato ogni volta che ne era testimone.

    Si sentiva così piccolo, insignificante, da provare un senso di meraviglia e gratitudine per quello che ogni giorno il mondo pareva regalargli.

    Eppure, agli uomini tutto questo sembrava non importare. Perfino lui si era ritrovato a lavorare per la guerra, per quell’insensata e crudele faida che voleva gli esseri umani gli uni contro gli altri in nome di uno scopo vergognoso: la conquista del potere e del territorio.

    Poiché solo quello v’era nella negazione di libertà altrui: vergogna. Per questa ragione aveva deciso di lavorare per Lorenzo de’ Medici, poiché in lui, qualche tempo prima, aveva scorto lo sguardo d’un uomo intelligente e caparbio, ma non di un tiranno o un signore della guerra. Fin dall’inizio della loro collaborazione, Lorenzo gli aveva chiesto di lavorare per i Medici, affinando le proprie conoscenze e i propri esperimenti, per la costruzione di macchine belliche che sarebbero state utilizzate solo a scopo difensivo. Giammai, gli aveva detto, avrebbe usato le sue armi per aggredire un’altra città. Seguendo gli insegnamenti del nonno e del padre, Lorenzo era convinto che il futuro di Firenze fosse nella pace e nella prosperità, nell’arte e nella letteratura. Non certo nel conflitto.

    Così, a quelle condizioni, Leonardo aveva accettato di prestare la propria

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