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Il re della casa
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E-book328 pagine4 ore

Il re della casa

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Bestseller del New York Times

Come i gatti ci hanno addomesticato e hanno conquistato il mondo

Dall’antico Egitto fino all’epoca dei social, l’incredibile verità sul perché i gatti ci hanno conquistato

I gatti sono dappertutto! Sonnecchiano acciambellati al centro del divano, dopo averci sfrattato dal posto d’onore, ci guardano sornioni dallo scaffale più alto della libreria, fanno le fusa e un attimo dopo ci lanciano degli agguati come se all’improvviso fossimo diventati nemici o prede. E non è finita: milioni di video di gattini, teneri e deliziosi, dominano le pagine dei social. Insomma, questi batuffoli di pelo, accusati di egoismo e disinteresse, sono diventati i re del mondo. Ma qual è il segreto dell’inarrestabile ascesa di questo leone da salotto? Abigail Tucker ha intervistato allevatori, attivisti e scienziati che hanno dedicato la propria vita a osservare e studiare i gatti e ha dimostrato come il gatto sia riuscito a sfruttare il rapporto privilegiato con gli esseri umani per diventare uno degli animali più potenti del pianeta. Un avventuroso e divertente percorso attraverso la storia, l’etologia e la cultura popolare per capire come questi piccoli felini abbiano conquistato il mondo, Internet e i nostri cuori.

«Tra scienza e racconto popolare, un libro perfetto per gli amanti dei gatti.»
Library Journal

«Uno sguardo benevolo sull’incomprensibile amore degli uomini per i piccoli felini.»
Publishers Weekly
Abigail Tucker
scrive sulla prestigiosa rivista «Smithsonian» e per altre testate. I suoi saggi sono stati pubblicati nella serie The Best American Science and Nature Writing. Il re della casa è diventato un bestseller a poche settimane dall’uscita.
LinguaItaliano
Data di uscita13 set 2017
ISBN9788822713254
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    Il re della casa - Abigail Tucker

    Capitolo 1

    Catacombe

    Ribollenti su Wilshire Boulevard, non lontano dal centro di Los Angeles, le pozze di catrame dei La Brea Tar Pits hanno l’aspetto di una crema toffee tossica. Un tempo, i coloni della California si procuravano qui il bitume per impermeabilizzare i tetti delle case, ma oggi queste pozze sono di grande valore per i paleontologi che studiano la fauna dell’Era Glaciale. Animali fantastici di ogni genere si sono impantanati in queste trappole mortali: mammut columbiani dalle zanne arcuate, camelidi estinti, aquile erranti.

    Ma i più famosi di tutti sono i gatti di La Brea.

    Almeno sette tipi di felini preistorici popolavano Beverly Hills undicimila anni fa e ancora prima: parenti stretti delle moderne linci rosse e dei leoni di montagna, ma anche diverse specie del tutto scomparse. Dal sito di scavi, un’area di nove ettari, sono stati recuperati oltre duemila scheletri di Smilodon populator, il più grande e feroce dei felini dai denti a sciabola, il giacimento fossile di questo tipo più grande al mondo.

    È mattina tardi. Il bitume fonde al calore del sole e nell’aria c’è odore di asfalto fuso. Grosse bolle nere sulla superficie delle pozze danno l’impressione di un mostro che respiri immerso al di sotto. Mi lacrimano un po’ gli occhi per i vapori e, quando immergo un bastoncino nel fango nero, scopro di non riuscire più a estrarlo.

    «Ne bastano meno di dieci centimetri per immobilizzare un cavallo», mi spiega John Harris, curatore capo del museo annesso al sito. «Un bradipo gigante sarebbe rimasto appiccicato come una mosca sulla carta moschicida». Lo dice con un tono vagamente compiaciuto.

    Il solo modo di togliere il catrame dalla pelle è sfregare con olio minerale o burro, come hanno imparato a loro spese certi burloni di un club studentesco locale. Col tempo, il catrame penetra fin nelle ossa, conservando i giganteschi animali che vi sono morti tra atroci sofferenze in modo tale che gli esemplari recuperati dalle pozze non si sono trasformati in fossili pietrificati. Se si trapana una costola di un felino dai denti a sciabola si sente lo stesso odore che aleggia in uno studio dentistico: collagene bruciato. Ha l’odore di una cosa viva.

    Nel nero pece delle pozze di catrame, sono alla ricerca di indizi sul rapporto primigenio tra umani e felini. La protezione che gli umani accordano ai gatti, per noi così intuitiva, in realtà è un accordo piuttosto recente e radicale. Pur avendo condiviso il pianeta per milioni di anni, la famiglia felina e quella umana non erano mai andate d’accordo in precedenza, e men che meno se ne erano stati in panciolle sul divano. Anzi, eravamo nemici naturali, dovendo contenderci la disponibilità di carne e di spazio¹. Ben lontani dal condividere il cibo, umani e felini hanno passato la maggior parte della loro lunga storia comune a rubarselo gli uni con gli altri e a nutrirsi delle reciproche carcasse – anche se, volendo essere proprio sinceri, eravamo perlopiù noi quelli che venivano mangiati.

    Erano felini dai denti a sciabola come quelli di La Brea, ghepardi colossali e giganteschi leoni delle caverne (e, in seguito, i loro discendenti moderni) a dominare il pianeta ancora incontaminato. In alcune regioni delle Americhe i nostri progenitori condividevano il loro habitat con questi colossi, mentre in Africa l’uomo ha convissuto per milioni di anni con diverse specie di felini dai denti a sciabola. L’influenza dei felini antichi fu tale che potrebbero addirittura aver contribuito alla nascita dell’uomo.

    Siamo in un magazzino e Harris mi fa vedere i denti da latte di un cucciolo di Smilodon. Sono lunghi almeno dieci centimetri.

    «Come facevano ad allattarli le loro madri?» chiedo.

    «Con molta attenzione», risponde lui.

    I canini superiori dell’adulto misurano venti centimetri, e hanno una forma che ricorda la lama di una falce. Percorro con il dito la curva interna, che è seghettata, e mi vengono i brividi. La scienza non sa ancora molto su questi animali: gli studiosi hanno anche ricreato un modello in acciaio delle mandibole di un felino dai denti a sciabola per capire come diavolo facessero a masticare, e «solo di recente abbiamo imparato a distinguere i maschi dalle femmine», ammette Harris, ma si può tranquillamente dire che dovevano essere terrificanti. Con un peso di circa centottanta chili, è probabile che atterrassero con le loro forti zampe anteriori dei giganti come i mastodonti, per finirli con un morso micidiale, conficcando i canini nella spessa pelle del collo della preda.

    Poi, il mio sguardo viene attirato dallo scheletro di un leone americano, alto una testa più dei felini dai denti a sciabola, che da vivo doveva pesare intorno ai trecentocinquanta chili.

    Ecco cosa si trovavano di fronte i nostri antenati.

    Se si pensa all’aspetto terrificante di questi predatori, e al raccapricciante retaggio delle nostre interazioni con loro, colpisce particolarmente il fatto che oggi, a causa dell’uomo, la famiglia felina sia sul punto di essere cancellata dalla faccia della terra. Quasi tutte le moderne specie feline², grandi e piccole, si trovano oggi in grave pericolo, e giorno dopo giorno perdono terreno rispetto agli umani.

    Con un’eccezione, però. Harris mi accompagna a uno scavo in corso su una pozza, non lontano dall’ingresso del museo. Mentre osservo due donne dalle t-shirt macchiate di catrame intente a lavorare di scalpello per liberare il femore di uno Smilodon, appare all’improvviso la visione di una pelliccia bruna attorno alle mie caviglie, ed ecco Bob, una gatta senza coda, lustra, florida e con l’aria da padrona. Le due archeologhe, ridendo, mi raccontano di come è stata salvata dopo un incidente d’auto in cui ha sacrificato la coda, per essere poi curata e rimessa in sesto. «Niente più topi a sorpresa», commenta una delle due, con un buffetto affettuoso sul didietro amputato di Bob.

    Mi chiedo cosa sia più strano: il fatto che Beverly Hills sia un cimitero di leoni locali giganti, o che una piccola gatta senza pretese, venuta dal Medio Oriente, vi si trovi oggi benissimo?

    In realtà, l’ascesa del gatto domestico è l’altro lato della medaglia della rovina del leone. La storia dell’attuale declino della famiglia dei felidi spiega cosa siano veramente creature come Bob, Cheetoh e tutti i nostri amati gatti: predatori felini a tutti gli effetti, come le linci, i giaguari e ogni altro genere di felide, ma anche estreme anomalie biologiche.

    Senza l’avvento dell’uomo, l’area circostante a Los Angeles potrebbe tuttora essere un habitat ideale per i felidi nativi sopravvissuti all’Era Glaciale. Alcuni leoni di montagna vagano ancora sulle montagne di Santa Monica, anche se la popolazione è sempre più isolata, endogamica e i rari piccoli finiscono spesso investiti sulle strade³. Un leone di montagna, identificato come il soggetto P-22⁴, è stato fotografato di recente appostato sulle alture alle spalle della famosa insegna di Hollywood, mentre contempla le luci della città ai suoi piedi, di notte.

    Ma oggi, è Bob a comandare sulla zona delle pozze di catrame.

    * * *

    I felini dai denti a sciabola e i leoni giganti di La Brea si estinsero per ragioni ignote, verso la fine dell’ultima Era Glaciale. Ma possiamo mettere assieme i pezzi del resoconto del perché i felini selvatici che sono sopravvissuti fino a noi (anche le specie più piccole, alcune delle quali assomigliano moltissimo ai nostri beniamini domestici) oggi si trovano in pericolo. Questa storia ha inizio là dove così tanti dei nostri progenitori sono finiti: tra le fauci di un grande felino.

    La famiglia dei felidi fa parte dell’ordine dei mammiferi carnivori, i divoratori di carne⁵. Tutti i carnivori, dai lupi alle iene, hanno una dieta anche a base di carne; del resto, perché non dovrebbero? La carne è una risorsa preziosa, piena di grassi e proteine e di facilissima digestione. Ma è anche difficile procurarsela, e così la maggior parte degli animali, compresi quasi tutti quelli classificati come carnivori, integrano la loro dieta con altri gruppi alimentari. Nella famiglia degli orsi, per esempio, gli orsi neri masticano ghiande e tuberi con molari adatti allo scopo, che non sfigurerebbero nella bocca di un bovino; i panda, com’è noto, mangiano solo bambù; e anche l’orso polare, dalle zanne potenti, non disdegna le bacche.

    Ma non i felini. Dal gatto rugginoso dell’India, meno di due chili, alla tigre siberiana di quasi trecento, tutte le specie feline, una cinquantina, sono in termini biologici ipercarnivori. In pratica, non mangiano null’altro che carne. I molari masticatori dei felini si sono ridotti a dimensioni vestigiali, come quelli che un bambino lascerebbe alla fatina dei dentini, mentre il resto della dentatura è affilata e robusta, in una combinazione di coltelli da bistecca e di forbici taglienti. (Diciamo che la differenza tra i denti di un felino e quelli di un orso è come quella tra le Alpi e gli Appalachi). Sebbene si chiamino canini, i micidiali e acuminati denti anteriori sono in realtà più sviluppati nei felidi che nei canidi, com’è giusto che sia: i felini hanno bisogno del triplo di proteine⁶ nella loro dieta rispetto ai canidi, il quadruplo per i cuccioli. I cani possono anche vivere con un’alimentazione vegana, ma i gatti non sono in grado di sintetizzare certi acidi grassi essenziali: devono ricavarli dalla carne di altri animali.

    Lo scopo precipuo della dentatura di un felino (uccidere) spiega perché anche in termini biologici le fauci di tutti i felini si assomiglino. Le mandibole di un orso malese, che si nutre di insetti, non assomigliano per niente a quelle di un grizzly, ma a volte neppure gli esperti riescono a distinguere la dentatura di un leone da quella di una tigre, perché sono progettate per la stessa identica funzione.

    Lo stesso vale per la loro corporatura. Ci sono differenze enormi, al limite del comico, nelle dimensioni: alcuni felini misurano 35 cm dalla punta del naso a quella della coda, altri arrivano a quattro metri e mezzo, ma nella forma ci sono pochissime differenze. «Nel confronto tra grandi e piccoli felini non emergono tanto le differenze, quanto la loro sorprendente uguaglianza»⁷ scrive Elizabeth Marshall Thomas nel suo La tribù della tigre, storia della famiglia dei felidi. I gatti domestici e le tigri, continua, rappresentano «l’alfa e l’omega della loro specie»⁸. Certo, le tigri hanno le strisce, i leoni la criniera, e i puma hanno otto capezzoli, mentre i margay ne hanno due. Ma il modello è lo stesso: zampe lunghe, arti anteriori robusti, colonna vertebrale flessibile, una coda (che può essere in certi casi lunga quanto metà corpo) per l’equilibrio, e intestino breve per digerire carne, e solo carne. I felini sono dotati inoltre di artigli retrattili, vibrisse ipersensibili e orecchie che possono ruotare, per una straordinaria capacità uditiva direzionale e il massimo campo uditivo possibile. Avendo gli occhi posizionati anteriormente, hanno un’eccellente visione binoculare e notturna. Il loro cranio è tondeggiante, il muso corto e rotondo, con muscoli mandibolari robusti e ancorati in modo da potenziare al massimo la forza del morso nella parte frontale della bocca.

    Che la preda sia un coniglietto o un bufalo d’acqua, quasi tutti i felini (a parte la notevole eccezione dei velocissimi ghepardi) usano la stessa tecnica di caccia: si avvicinano di soppiatto, tendono l’agguato, catturano e si godono il pranzo. Persino il mio pigro Cheetoh caccia in questo modo, agitando il sederotto mentre pregusta la sua preda, un innocuo laccio di scarpa. I felini sono perlopiù predatori visuali e si basano sull’effetto sorpresa, uccidendo la preda infilando i canini tra le vertebre del collo con precisione, o nelle parole del comportamentista animale Paul Leyhausen, come «una chiave nella serratura»⁹. I felini possono avere la meglio su animali grossi¹⁰ anche il triplo rispetto a loro, e le loro ambizioni non si fermano sempre qui: da bambina vedevo spesso uno dei nostri Siamesi fare la posta ai cervi, acquattato sopra un masso per osservare il branco ignaro.

    I felidi moderni godono di un successo mondiale¹¹ da dieci milioni di anni o più, in una vasta gamma di habitat naturali. Questi animali prediligono le foreste tropicali dell’Asia¹², ma l’archetipo felino si trova a suo agio in quasi tutti i tipi di clima: il leopardo delle nevi sull’Himalaya, il giaguaro nella foresta amazzonica, persino il gatto delle sabbie nel cuore del Sahara. Migliaia di anni fa i leoni non vivevano solo a Beverly Hills, ma anche nel Devon, in Inghilterra e in Perù: praticamente ovunque, tranne che in Australia e in Antartide. Si ritiene che i leoni siano stati i mammiferi terrestri con la maggiore distribuzione mai esistiti¹³, re quindi di migliaia di giungle, oltre che di deserti, acquitrini e catene montuose.

    I felini selvatici, però, hanno bisogno di molto spazio. Questa è la ragione per cui, in natura, sono in generale meno comuni¹⁴ di altri grandi carnivori, come gli orsi e le iene. Anche i felini più piccoli abbisognano, in proporzione, di territori relativamente vasti dove procurarsi le necessarie proteine animali. Secondo una regola di massima molto approssimativa¹⁵, cento chili di animali da preda che vivono in un certo ambiente servono al sostentamento di un chilo di carnivori residenti. Nel caso degli ipercarnivori, però, le quantità sono ancora maggiori. Questi animali non hanno un’alternativa, dal punto di vista evolutivo. Devono uccidere, o morire. In effetti i felini si uccidono tra loro con una certa frequenza. I leoni mangiano i ghepardi, i leopardi mangiano i caracal, che a loro volta mangiano gatti selvatici africani. I felini non esitano a far fuori anche membri della loro stessa specie, e questa animosità (oltre al loro stile di caccia basato sull’appostamento, e l’incapacità di un dato ecosistema di fornire cibo a un numero elevato di esemplari) spiega come mai la maggior parte siano creature solitarie.

    * * *

    Anche gli esseri umani possono divorare grandi quantità di carne, ma non apparteniamo alla famiglia dei carnivori. Noi siamo primati. I nostri parenti prossimi, le grandi scimmie, non mangiano molta carne, e neppure i primi ominidi, scesi dagli alberi in Africa sei o sette milioni di anni fa, molto tempo dopo che i felini si erano piazzati proprio in cima alla catena alimentare.

    Non solo non mangiavamo carne, ma ne fornivamo in abbondanza sotto forma dei nostri stessi corpi e dei nostri bambini. Non poche creature si cibavano di noi¹⁶: aquile sovradimensionate, coccodrilli, serpenti della lunghezza di un autobus, orsi primitivi, canguri carnivori e forse mega lontre. Ma, anche in mezzo a questi temibili animali, i felini erano quasi certamente i nostri predatori più temibili.

    I primi progenitori dell’umanità comparvero in Africa nel corso del «periodo d’oro dei felini» secondo l’antropologo Robert Sussman, che nel suo Man the Hunted (L’uomo cacciato) descrive la nostra storia in quanto animali da preda. Nelle zone in cui gli habitat degli umani si sovrapponevano con quelli dei felini, dice, «ci sopraffecero completamente», trascinandoci nelle caverne, divorandoci sugli alberi, nascondendo nelle tane le nostre carcasse eviscerate. In realtà, se non fosse stato per l’azione dei grandi felini predatori potremmo sapere molto meno¹⁷ sull’evoluzione umana. Il cranio meglio conservato e più antico al mondo appartenente al genere Homo, detto Cranio Numero 5, è stato ritrovato nelle caverne di Dmanisi, in Georgia, probabilmente la sede dei picnic di ghepardi giganti, oggi estinti. In Sudafrica i paleontologi si sono dannati per capire l’origine dei mucchi di ossa di ominidi e di altri primati rinvenuti in alcune caverne. Forse questi antichi progenitori si erano massacrati a vicenda? Poi, qualcuno si accorse che i fori presenti in alcuni crani erano perfettamente compatibili con gli artigli del leopardo.

    Anche dal paesaggio contemporaneo provengono indizi su come i felini ci abbiano dato la caccia. Sussman e la collega Donna Hart hanno monitorato i dati sulle predazione dei primati moderni e hanno scoperto che la famiglia felina è tuttora responsabile di oltre un terzo di tutte le uccisioni di primati. (Canidi e iene si fermano al 7 per cento). Uno studio sulle grotte vulcaniche del monte Suswa, in Kenya, ha indicato che i leopardi locali mangiano babbuini, e praticamente nient’altro. Anche primati molto forti e intelligenti possono cadere preda di felini grandi la metà di loro: sono state rinvenute falangi di gorilla di pianura nelle feci di leopardo e denti di scimpanzé in quelle di leone.

    La scienza sta appena iniziando a studiare formalmente¹⁸ il nostro passato di prede, scoprendo, per esempio, che la nostra visione del colore e la percezione della profondità si sono forse sviluppate come sistema di individuazione dei serpenti. Da alcuni esperimenti è emerso che anche i bambini molto piccoli¹⁹ riconoscono più facilmente le sagome dei serpenti che non quelle delle lucertole; e anche i leoni vengono identificati più rapidamente delle antilopi. Le strategie antipredazione persistono in numerosi comportamenti umani, dalla tendenza nelle donne gravide a iniziare il travaglio in piena notte (per evitare i predatori che cacciavano all’alba e al crepuscolo) fino a, chissà, la predilezione per i dipinti di paesaggi del Settecento, con le loro vedute e la rassicurante sensazione di essere in grado di notare un pericolo prima che si avvicinasse troppo. La pelle d’oca provata a La Brea, toccando una zanna di felino dai denti a sciabola, risale a un tempo antico, quando i peli mi si sarebbero rizzati sul corpo all’avvicinarsi di un predatore, donandomi un aspetto più imponente e, spero, intimidatorio.

    Il pericolo della predazione ha probabilmente influito anche sulle dimensioni del corpo umano e sulla postura (una corporatura alta e all’impiedi consentiva agli uomini primitivi di scrutare in lontananza), sulla preferenza per la vita sociale e di comunità (una forma più raffinata della sicurezza data dal numero) e sulle nostre forme avanzate di comunicazione. Anche primati più modesti²⁰ come i cercopitechi verdi hanno un verso che significa leopardo. (Per non essere da meno, si è notato che i margay, piccoli felini amazzonici²¹ imitano i versi dei cuccioli di scimmia mentre cacciano).

    Ma il contributo più significativo dei felini all’evoluzione della nostra specie non è forse il passaggio da predatori a prede, ma da predatori a spazzini. Quel dono è stato il nostro primo, e fatale, assaggio della carne.

    * * *

    Le prove più antiche del consumo di carne risale a 3,4 milioni di anni fa. Segni e intagli su ossa di ungulati rinvenute nei pressi di Dikika, in Etiopia, mostrano quanto i nostri progenitori, in gran parte vegetariani, dovevano faticare per sbranare la carne; altri reperti indicano che le ossa venivano battute con oggetti pesanti per accedere al midollo interno. Ma da dove venivano quelle prime, succulente ossa? Dovevano trascorrere ancora milioni di anni prima che gli uomini primitivi imparassero le tecniche di caccia.

    Secondo Briana Pobiner, paleoantropologa esperta di alimentazione umana presso il National Museum of Natural History, è possibile che i nostri predecessori, privi di armi ma ghiotti di carne, si limitassero a inseguire alcuni delle loro prime prede fino a che non cadevano stremate, oppure che le colpissero con pietre per ucciderle. Ma la dottoressa Pobiner, che nel suo ufficio ha la foto incorniciata dello sguardo di due robuste leonesse, ritiene più probabile che fossimo ladri senza scrupoli e recuperatori di prede altrui, o cleptoparassiti. I nostri scontrosi ospiti sarebbero stati i grandi felini che abbattevano gazzelle e altre prede, ne mangiavano le interiora e abbandonavano le carcasse per farvi ritorno in seguito. A quel punto, gli antichi uomini profittatori arrivavano a prendersi tutto ciò che potevano, da terra o dagli alberi, dove i leopardi trascinavano le loro prede (forse per nasconderle alla vista di altri felini più grossi, come i leoni). Ma, probabilmente, gli avanzi più ambiti erano quelli dei felini dai denti a sciabola, come ha ipotizzato l’antropologo Curtis Marean: zanne così erano micidiali per uccidere, ma non ideali per masticare, lasciando così molta carne attaccata alle ossa. Per alcuni studiosi, gli avanzi dei felini dai denti a sciabola²² sarebbero stati talmente abbondanti e preziosi per la dieta degli uomini primitivi che la prima grande migrazione della specie umana sarebbe avvenuta sulle tracce dei grandi felini, dall’Africa verso l’Europa. Una volta assaggiata la carne, ricca di nutrienti e di aminoacidi, l’uomo primitivo ne ha voluta di più. Alcuni paleoantropologi sostengono che sia stata la dieta a base di carne a renderci umani. Si è trattato certamente di un passaggio fondamentale.

    «Mangiare carne divenne talmente importante che si svilupparono tecniche raffinate per realizzare utensili di pietra», spiega la dottoressa Pobiner. «Era un ciclo continuo. Essere in grado di procurarsi più carne richiede una buona percezione dell’ambiente, comunicazione, pianificazione. Il percorso evoluzionistico non sarebbe stato lo stesso, se non ci fosse stata la dieta a base di carne».

    In realtà, mangiare carne può aver letteralmente ampliato la nostra mente²³, in base all’ipotesi del tessuto costoso (che ha a che fare con lo sviluppo cerebrale, non con le stoffe di pregio). Poiché i primati devono elaborare grandi quantità di dure fibre vegetali, hanno intestini lunghissimi, che richiedono molta energia. (Ed è anche il motivo per cui scimmie esili hanno una pancia da bevitori di birra). Ma un animale che abbia accesso costante alla carne, più digeribile, può avere la libertà evoluzionistica di accorciare i propri intestini e dirottare quell’energia digestiva su qualcosa di molto più ingegnoso: un cervello enorme. Questo patrimonio dell’Homo sapiens²⁴ è straordinariamente dispendioso in termini di energia, dato che ha una massa corrispondente solo al 2 per cento del peso corporeo, ma richiede il 20 per cento dell’introito calorico totale. Forse, possiamo permettercelo proprio perché mangiamo carne.

    L’aumento massimo nelle dimensioni del cervello umano si è verificato circa ottocentomila anni fa, non molto tempo dopo che fu scoperto come gestire il fuoco, utilizzato per cuocere la carne, conservandola più a lungo e rendendola più trasportabile. Dopo qualche centinaio di migliaia di anni, l’uomo primitivo ha imparato a cacciare per conto proprio. Andiamo avanti di altre diverse centinaia di millenni, e finalmente dall’albero genealogico umano spunta il primo germoglio dell’Homo sapiens: siamo a circa duecentomila anni fa.

    A questo punto l’originale e sbilanciata lotta di potere tra umani e grandi felini si trasformò in un equilibrio instabile, in cui il nostro cervello esagerato controbilanciava la loro forza fisica. Con le nuove armi da caccia, probabilmente a volte saremo riusciti a scacciare i felini dalle loro prede e anche ammazzarne qualcuno, anche se la strategia migliore sarà stata forse quella di evitarsi a vicenda. Eppure, pare proprio che non potessimo fare a meno di ammirare i nostri magnifici nemici. Le pitture rupestri nella grotta Chauvet, nel sud-est della Francia, risalenti a trentamila anni fa (e tra le più antiche testimonianze artistiche del mondo) raffigurano magnifiche sagome di leopardi color ocra e di leoni, disegnati con un occhio attento per i dettagli, fino alle macchie e alle vibrisse.

    Questa antica situazione di stallo²⁵ tra felini e umani, in cui entrambe le parti erano pesantemente armate e più o meno equipaggiate alla pari nella comune ricerca di carne è perdurata fino a circa diecimila anni fa, quando, in qualche punto del Medio Oriente, gli umani divennero abbastanza intraprendenti, o fortunati, da capire come soddisfare all’infinito la nostra perenne fame di carne: allevare animali e macellarli. La domesticazione di bovini e piante agricole, il momento dell’evoluzione detto Rivoluzione del Neolitico, consentì ai cacciatori-raccoglitori di insediarsi in comunità permanenti, portando finalmente alla nascita della cultura, della storia e della terra così come la conosciamo.

    Per molte altre creature, specialmente i felini, la comparsa delle prime mandrie di bovini e di appezzamenti coltivati segnalò l’inizio della fine.

    * * *

    Si tende a pensare al problema della conservazione dei felini selvatici come a un fenomeno relativamente recente; e gli europei, gli inglesi in particolare, vengono spesso indicati come i principali responsabili dello sterminio. È vero che furono i colonizzatori a introdurre le armi da fuoco in India e in Africa, e che erano disposti a pagare belle sommette per portarsi a casa le pelli di grandi felini. Nel corso di una grande battuta di caccia nel 1911, la squadra che accompagnava il re Giorgio V abbatté trentanove tigri indiane in meno di due settimane. Sotto la regina Vittoria, gli zoo di Londra si riempirono²⁶ di leoni africani, che languivano in cattività e morivano in genere dopo pochi anni (anche se alcuni di loro riuscirono ad abbattere un paio di cavalli da carrozza prima di andarsene). Le campagne imperiali contro i grandi felini sono state raccontate nelle storie di caccia, un particolare genere letterario che un biologo mi descrisse come «il lato selvaggio dello studio dei mammiferi». Nel classico The Man-Eaters of Tsavo (I mangiatori di uomini di Tsavo) l’ufficiale inglese James Henry Patterson racconta, con algida compostezza, dei suoi scontri con due leoni africani senza criniera, apparentemente perversi e crudeli.

    Ma, con tutta la loro fredda efficienza, gli inglesi si limitarono ad accelerare un processo che ebbe inizio agli albori dell’agricoltura.

    «I felini sono molto fragili», mi spiega Steve O’Brien, esperto di genetica felina. «Se non hanno cibo in abbondanza muoiono di fame, semplicemente. Il problema non è abbatterli con le armi. Sono gli insediamenti urbani e agricoli».

    I felini sono biologicamente in contrasto con i modelli dominanti della civiltà umana, e questo sin dall’inizio. L’Egitto, la prima grande cultura agraria²⁷, perse via via buona parte della sua popolazione di leoni. I Romani, che catturavano grandi felini in quantità²⁸ per le celebrazioni dei trionfi e gli spettacoli nel Colosseo, registravano forti cali

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